SOLO QUATTRO MESI di Nora June Peebles - Racconto inedito


LA STORIA: Margherita Ricci, archeologa postdoc a Cambridge, accetta di sostituire per quattro mesi il direttore del piccolo museo di Eyemouth, negli Scottish Borders, per fare un piacere al suo professore, sacrificando così le tanto agognate e meritate vacanze al mare. L'auto presa a noleggio per arrivare ad Eyemouth, però, va in panne a un passo dalla meta e Margherita fa in questo modo la conoscenza del burbero medico del paese, il dottor Graham MacKay. Graham si è trasferito nella remota cittadina scozzese in seguito a una traumatica esperienza che lo ha segnato nel profondo. Sarà l'archeologa italiana, piombata nella sua vita come un fulmine a ciel sereno, a dargli la forza per ricominciare a vivere? 

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1
Sei mesi prima

Graham
Graham si diresse verso il bancone e ordinò una Caledonian. Non era il tipo da fare lo schizzinoso ma da quando era tornato indulgeva nei sapori forti delle ales scozzesi. Questa in particolare faceva al caso suo, stasera. Non troppo alcolica, dal sapore denso e onestamente amaro, era il drink che ci voleva prima della caccia. Un sorriso beffardo gli si allargò sul volto magro e coperto da un’ombra di barba mentre se la portava alle labbra.  Era stanco oggi, ma non abbastanza da poter tornare a casa e farsi una bella dormita. Aveva bisogno di azione per poter mettere a tacere i demoni che lo tormentavano, almeno per qualche ora.

Casa. Per qualche strano scherzo del destino aveva finalmente trovato un posto nel mondo, un luogo che gli desse una parvenza di stabilità. Sapeva che non sarebbe stato per sempre, nella sua vita niente lo era, ma non aveva fretta di cambiare. Le relazioni stabili non facevano per lui: l’aveva imparato sulla propria pelle anni prima. Il suo lavoro diventato una missione l’aveva condotto nei più remoti angoli del mondo e aveva richiesto un pesante tributo. Il suo volto rilassato si distorse per un attimo per lasciare spazio all’orrore del dolore e della perdita. La quiete domestica, tanto decantata dai suoi amici, non riusciva proprio a raffigurarsela. Quello in cui riusciva bene erano i rapporti. Consenzienti. Maturi. Della durata di una notte. Niente legami duraturi, niente letto condiviso con qualcuno. Nessuno da spaventare con gli incubi che lo torturavano e coi sensi di colpa che lo tenevano sveglio la notte. Sapeva di non avere colpe. E tuttavia c’erano dei bambini senza padre che non avrebbero sofferto se lui non avesse chiesto una sostituzione a quel collega, quel maledetto giorno di due anni prima. Aveva operato senza darsi tregua. È normale prendersi una pausa. Marco glielo aveva ripetuto fino allo sfinimento. È stata una coincidenza, si ripeteva lui. Non poteva immaginare che avrebbero bombardato l’ospedale da campo proprio quel giorno. Gli aveva chiesto solo di coprirlo per qualche ora mentre lui si rimetteva in forze. Eppure era successo l’inimmaginabile. No, meglio non avere legami. Niente moglie, figli, persone che ti piangano.

Sorseggiò il liquido scuro con la calma di un abile predatore. Il club di Edimburgo che frequentava era affollato come al solito il venerdì sera. Una volta o due al mese, ultimamente più spesso, veniva qui a cercare una distrazione dai pensieri che lo attanagliavano. L’anonimato era garantito dai rigorosi controlli che faceva il proprietario del club prima di rilasciare una tessera, il cui costo esorbitante assicurava che solo la clientela più motivata lo frequentasse. Niente perditempo o giornalisti. Niente droga o bevitori incalliti. Qui si veniva per trovare cose diverse: c’era chi veniva per bersi un buon whisky in compagnia di amici nella members’ lounge al piano di sopra, con le pareti ricoperte da sontuosi pannelli di legno, tavoli intarsiati e divanetti in soffice velluto color petrolio ad accoglierti come in un abbraccio, e chi veniva per scatenarsi e ballare nella moderna club room al piano di sotto. C’era chi cercava uno svago dalla propria quotidianità e dai problemi di tutti i giorni per dimenticarsi momentaneamente della propria vita noiosa, unavventura galante o un effimero scambio di baci, chi invece l’eccitazione di una notte in una delle poche stanze riccamente decorate riservate a un ristretto numero di membri e perfettamente equipaggiate per soddisfare ogni loro fantasia. C’era chi cercava tutto questo, e altro ancora. E c’era lui, un cacciatore esperto e paziente, in attesa di una preda interessata.

Non dovette aspettare a lungo. Un profumo di donna lo avvolse ben presto, deciso e sensuale. Lunghi capelli biondi gli solleticarono il collo, seguiti da uno sguardo volutamente ammiccante. Aveva già notato la ragazza, fasciata in un vestito bianco che si sarebbe potuto definire sobrio se non fosse stato scandalosamente corto. Il seno generoso era messo in risalto dalla scollatura a cuore e dalle collane lunghe che vi si poggiavano sopra. Si stava divertendo, si vedeva. Ballava con gli amici e celebrava la vita con noncuranza. Aveva incrociato il suo sguardo poco prima e l’aveva sostenuto sufficientemente a lungo per sapere che lo stava studiando da capo a piedi e che ciò che vedeva le piaceva. Era giusto, dopotutto. Si sarebbero divertiti entrambi quella sera.

2
Il primo giovedì di giugno

Margherita
“Ma chi me l’ha fatto fare?” Si chiese Margherita guardando sconsolata l’auto che aveva preso a noleggio a Cambridge, irrevocabilmente ferma sul ciglio della strada.  Come in ogni farsa che si rispetti, l’infausto mezzo di trasporto aveva dato forfait a pochi chilometri dalla sua destinazione, il remoto villaggio sulla costa scozzese che non aveva mai sentito nominare fino a una settimana prima. 
Non era bastato che dovesse guidare quel catorcio di auto cinese (la più economica che aveva trovato) per cinquecento e passa chilometri, attraversando l’Inghilterra per la lunghezza e sobbalzando a ogni irregolarità del manto stradale. Non era stato sufficiente che si fosse fatta tre ore di coda tra Leeds e York e questo sedendo dalla parte sbagliata della macchina e viaggiando dal lato sbagliato della strada. Chiaro. L’orrenda vettura si era decisa a esalare l’ultimo respiro quasi alla fine di quel viaggio infernale. E non in modo discreto. No. Con un bel rivolo di fumo denso e scuro che usciva dal cofano del motore e saliva senza fretta verso il cielo plumbeo.
“Un benvenuto con i fiocchi. Manca solo che piova”, mugugnò arrabbiata mentre si affrettava a scaricare tutte le proprie cose dal bagagliaio e a portarle al sicuro vicino al guard-rail, un po’ distante dall’auto. La prudenza non è mai troppa, diceva sempre sua nonna, e sua nonna aveva sempre ragione. Per fortuna, era riuscita ad accostare in tempo e a mettere il triangolo per segnalare di essere in panne prima che l’auto esplodesse, si disse.

Stava scaricando a fatica l’enorme zaino da montagna in cui custodiva maglioni, calzini e intimo e si stava sgridando tra sé e sé perché, a voler essere razionali, sarebbe dovuta essere la prima cosa da salvare, non l’ultima, quando un’Audi grigio-scura accostò a poca distanza davanti al suo catorcio fumante. Nel tentativo di spostare quello zaino gigantesco, fece un movimento sbagliato e sentì un dolore lancinante alla spalla. La sua giornata andava di male in peggio si disse mentre, ansimando come una dannata, mollava lo zaino vicino alla valigia e correva incurante del dolore verso l’auto agonizzante.

“Cosa sta facendo?” Chiese la voce burbera e roca di un uomo. Margherita non si voltò nemmeno per rispondere a tono, concentrata com’era nel salvataggio di un libro di storia scozzese che era, non si sa come, finito sul fondo del bagagliaio dell’odiato veicolo.

“Venga, si deve mettere al riparo!” La voce si fece urgente e una mano possente la afferrò per un braccio e trascinò fino ai suoi bagagli. Margherita fu presa così alla sprovvista che non cercò nemmeno di divincolarsi da quella presa insistente e una volta raggiunta la piccola pila dei suoi averi osservò con apprensione il sottile filo di fumo che proveniva dal cofano. D’accordo, forse sottile non era l’aggettivo corretto in questo caso. Si era allargato e aveva assunto un’aria preoccupante.

“Ross, c’è una Geely bianca in panne sulla A1107 a un paio di miglia dalla B6355. Temo che possa prendere fuoco a breve e la prudenza non è mai troppa.” Una pausa. “Una passeggera. Sembra in salute. Ha tolto tutte le sue borse dal veicolo, sprezzante del pericolo.” Un’altra pausa. “Adesso controllo. Vi aspettiamo.”

Margherita fissava impietrita la sua auto, in attesa che venisse divorata dalle fiamme. L’epilogo perfetto per quel viaggio infinito. Si sarebbe dovuta prendere un giorno o due di pausa prima della partenza, per essere fresca e riposata, e invece aveva lavorato come una dannata fino all’ultimo secondo per assicurarsi che tutti i saggi degli studenti fossero stati corretti e valutati e che tutta la documentazione fosse a posto. Era appena tornata da una campagna di scavi in Sicilia e si stava già lanciando a capofitto in una nuova avventura. Aveva dormito sì e no tre ore prima di mettersi a guidare verso nord. Quando avrebbe imparato a prendersi una pausa? Non aveva più vent’anni, si ammonì. Altro che uno o due giorni. Sarebbe dovuta andare in vacanza per almeno una settimana prima di incominciare questo nuovo lavoro. Le sue amiche si erano organizzate per andare in Sardegna. Perché non era andata con loro? Perché era una maniaca del lavoro, ecco perché.

“Signorina. Signora.” Nessuna risposta. Una mano le si posò con cautela sulla spalla.

“Signorina.” Ripetè l’uomo con delicatezza.

“Dottoressa.” Rispose a quel punto Margherita senza pensare e senza guardarlo. “Non capirò mai perché quando parlate a una donna pensate sempre e solo a definirla in base al suo stato civile.”

“È una collega?” Chiese la voce profonda e virile con un malcelato tono di sorpresa.

Margherita si voltò finalmente a guardarlo. Non l’avesse mai fatto. Se Adone fosse nato nelle Highlands e se avesse fatto un turno in pronto soccorso di trentasei ore di fila, sarebbe stato esattamente così: sguardo limpido e intelligente negli occhi grigi, un’aria stanca sul volto magro e incorniciato da una barba non fatta da almeno un paio di giorni, i capelli scuri che ravviava con la mano dalle dita affusolate e robuste, le vene in evidenza. Eccolo lì, davanti a lei, il cliché del sexy medico scozzese. Alto, snello, spalle larghe, jeans e camicia azzurra con le maniche arrotolate fin sotto al gomito.

“No. A meno che lei non abbia un dottorato in storia antica e una specializzazione in archeologia.” Rispose Margherita, divertita suo malgrado: “Lei ha l’aria di preferire l’azione delle corsie d’ospedale alla meditazione. Nel mio mondo, l’azione è finita da un pezzo.”

“Quindi è dottore in Storia antica, eh?” Chiese Adone con aria beffarda.

“Non vorrà mica giocare al gioco di chi è più dottore tra noi, vero? Lei è medico, io sono un’archeologa. Ci siamo entrambi rotti la schiena sui libri per un numero esagerato di anni. Non le è sufficiente?” Mentre metteva il medico saccente al proprio posto, i pompieri arrivarono a sirene spiegate e si diressero immediatamente con l’estintore sguainato verso l’auto in panne.

“È stata fortunata. È una macchina così scassata che non è riuscita nemmeno a prendere fuoco come si deve.” La rassicurò un pompiere dall’aria simpatica dopo qualche minuto.  
“È molto pratica. Non dovevo nemmeno premere la frizione per cambiare marcia.” Spiegò Margherita sarcastica. E presa da un moto di sconforto aggiunse: “E ora come la porto all’autonoleggio? Chissà quanto dovrò pagare di danni…”
“Non si preoccupi.” Fece il pompiere convinto: “Chiamo io il carro attrezzi e la faccio portare da Joe, all’autonoleggio di Eyemouth. Sono sicuro che gli basterà un’occhiata per assicurarle che l’hanno fregata e che quest’auto non era idonea a viaggiare per una distanza superiore ai due chilometri. Per non parlare del fatto che non penso sia nemmeno un modello legale in Europa. Non so come abbiano potuto importarla.” 

Margherita annuì assente, continuando a osservare desolata il suo veicolo abbandonato.

“Ross.” Interloquì Adone. “La dottoressa è sotto shock. La porto all’ambulatorio e la visito per accertarmi che stia bene. Dopodiché la accompagno da Bonnie. Mi dai una mano a caricare i suoi bagagli in macchina, per piacere?”
“Venga, dottoressa. La porto allo studio.”
“Ho un appuntamento tra un’ora al massimo con la signora Armstrong a Eyemouth…” iniziò Margherita confusa ma il medico le mise una mano aperta sulla schiena e la spinse con delicatezza e decisione verso la propria auto, mentre i pompieri caricavano la sua valigia, il suo zaino e un paio di buste nel portabagagli dell’Audi.
Una volta salita a bordo Margherita cercò di fissare la cintura di sicurezza ma Adone la precedette e si sporse su di lei per allacciarla. Quindi fece il giro della vettura e si accomodò al posto di guida.
“Non era necessario.” Iniziò a protestare Margherita imbarazzata.
“Eccome se lo era.” La contraddisse arcigno il medico: “Ha una spalla danneggiata, forse dal trasportare quelle borse piene di macigni.”
“Sono libri, non sassi.” Ribadì Margherita offesa.
“Fra un attimo saremo all’ambulatorio. La visiterò e poi la lascerò in pace.” Proseguì imperterrito il medico come se non l’avesse nemmeno sentita.

 Margherita azzardò un’occhiata indagatrice. Osservò con curiosità  il suo salvatore: il profilo severo, il naso diritto, la bocca leggermente piegata all’insù come a segnalare una prontezza innata al sorriso, le guance ruvide e lo sguardo concentrato sulla strada davanti a sé, dava l’impressione di una persona dall’intelligenza acuta e dallo spirito brillante. Si domandò come doveva essere vederlo sorridere e si sgridò immediatamente. Era in Scozia per ragioni importanti e serie e non aveva intenzione di lasciarsi distrarre dal belloccio del villaggio. Soprattutto non da un medico saccente che molto probabilmente la reputava stupida e si riteneva meglio di lei solo perché aveva studiato una disciplina diversa dalla sua.

Il viaggio continuò in silenzio fino a Eyemouth, il villaggio sperduto in cui si stava trasferendo per qualche mese a dirigere il museo locale. Quando il suo professore a Cambridge aveva accennato alla possibilità di sostituire l’anziano direttore del museo delle Highlands dell’est per l’estate ci aveva pensato su all’incirca cinque secondi. Aveva soppesato il fatto di non essere specializzata affatto nel periodo storico di cui quel museo aveva reperti, non sapere granché della storia scozzese (in nessun secolo) e il fatto di rinunciare definitivamente a fare quelle tanto agognate e meritate vacanze al mare che rinviava ormai da tre anni. E aveva risposto di sì. Museo piccolo o meno, scozzese oppure no, ma pur sempre di un’esperienza di direzione e (sperava) curatela si trattava. Avrebbe fatto bene al suo curriculum e al suo spirito di avventura. E il suo professore le aveva chiesto un favore personale, dato che conosceva il direttore del museo, un tale Dr. James McLachlan che ci aveva lavorato per gli ultimi venti anni e che ora voleva andare quattro mesi nel sud della Francia a trascorrere del tempo con la figlia che aveva appena avuto un bambino. Come poteva dire di no?

Era così persa nei propri pensieri che quasi non si accorse che il suo accompagnatore aveva parcheggiato.

“Aspetti e non si muova.” Le intimò. E così dicendo uscì dall’auto e facendo il giro venne ad aprirle la portiera. Margherita fece per slacciare la cintura di sicurezza quando una fitta la bloccò all’istante. “Cosa le avevo detto?” Ribadì aspro il medico mentre la liberava e l’aiutava ad uscire dalla vettura. 

Si erano fermati davanti a una casa di due piani dipinta d’azzurro con le finestre circondate da un bordo blu oltremare, il tetto a punta e le tapparelle chiare. Se non fosse stata così stanca e confusa, l’avrebbe trovata deliziosa.

Margherita lo seguì fino alla porta dell’ambulatorio come in trance e poi dentro lo studio. Era chiaro che quel giorno era stato chiuso. Le serrande erano abbassate, le luci spente e la scrivania dell’assistente nella sala d’attesa perfettamente in ordine.

“Si accomodi, prego.” La invitò il medico, avviandosi verso una finestra. Premette un interruttore e le tapparelle si alzarono automaticamente in tutta la stanza, inondandola di luce e rivelando una scrivania di legno scuro, delle sedie imbottite, uno scaffale pieno di trattati medici e un lettino per le visite. Il dottore si era lavato le mani con cura e lei stava ancora soppesando la possibilità di scapparsene a gambe levate quando si sentì dire: “Prego, si tolga la camicia.”

“Cosa? No!” Reagì d’istinto Margherita incrociando le braccia sul petto. “Non se ne parla nemmeno! Secondo lei io vado in giro così, a spogliarmi davanti a gente che non conosco? Lei potrebbe anche essere un maniaco per quel che ne so!"

Lo vide spalancare gli occhi grigi per la sorpresa e vide un sorriso sornione allargarsi sul suo volto stanco. Diamine, con un sorriso così poteva stendere chiunque, pensò Margherita  tra l’incantato e l’infastidito.

“Il mio nome è Graham MacKay e, come ha intuito poco fa, ho il privilegio di essere il medico di questo paese. Mi creda, non mi eccito a guardare pazienti nude e doloranti.”, le assicurò.
Si ritrovò ad arrossire fino alla punta dei capelli. “Mi chiamo Margherita… Margherita Ricci. Sono…”
“L’archeologa venuta da Cambridge a sostituire il vecchio McLachlan mentre visita Annie a Tolone. È un paese piccolo, questo. La conoscono già tutti.” La interruppe Graham.  “E ora, per cortesia, la smetta di tergiversare e mi permetta di visitarla. Può trattarsi solo di uno stiramento o di qualcosa di più grave. Devo decidere se farle una radiografia.”
Margherita slacciò i bottoni della camicia e dei polsini e fece per togliersela quando il medico si fece avanti e la aiutò a spogliarsi.
“È gentile da parte sua ma avrei potuto farcela da sola.” ribatté sempre più imbarazzata.
“Non ne dubito. Ma non ho ragione di aspettare mezz’ora e assistere alle sue smorfie di dolore. Lei è stanca e io sono a pezzi.” Rispose Graham. “Ora faccia un bel respiro e rilassi il braccio e le spalle.” 

Margherita chiuse gli occhi e lasciò che le tastasse prima la spalla destra e poi la spalla sinistra con mani fresche e asciutte e che le muovesse il braccio sinistro con delicatezza in un paio di direzioni fino a che si trovò ad esclamare per il dolore. Le tastò il polso e il gomito per controllare il battito cardiaco e le fece domande sulle sensazioni che provava mentre le toccava la pelle del braccio, della mano e delle dita, spiegandole che nell’area della spalla ci sono molti vasi sanguigni e nervi.

“Non è grave.” Sentenziò infine il medico in tono rassicurante. “Non abbiamo bisogno di radiografie. Sono certo che non si sia rotta nulla e che non sia una lussazione. È uno stiramento fastidioso ma non grave. Le prescriverò del Voltaren e dell’ibuprofene per il dolore e l’infiammazione. Massaggi con cura la spalla tre volte al giorno. Torni da me lunedì mattina e controlleremo il suo stato di salute e decideremo se ha bisogno di una fascia.”

Margherita annuì, troppo stanca per controbattere. Le nove ore di viaggio e l’eccitazione dovuta alla prematura dipartita della sua vettura scassona stavano iniziando a farsi sentire.

“C’è altro?” Le chiese Graham guardandola con preoccupazione: “Sente dolore da qualche altra parte? Si sente debole o le gira la testa?”

Margherita scosse il capo in segno di diniego e fece per prendere la carica e iniziare a rivestirsi. Nuovamente il medico la aiutò a infilare le maniche, prima di tornare a lavarsi le mani e darle un po’ di privacy per sistemarsi. Dopo un momento ritornò da lei e le posò entrambe le mani sulle spalle: “Dottoressa, ho l’impressione che non si senta affatto bene. Non mi dà l’idea di essere una persona così taciturna di solito, sbaglio?”

Margherita scosse nuovamente il capo e chiuse gli occhi. Si stava per addormentare in piedi.

“Immagino che siano solo la stanchezza del viaggio e l’adrenalina a causarle questa reazione. O la sto annoiando, per caso?”

L’archeologa aprì gli occhi di colpo e lo fissò per un attimo prima di balbettare un no sconcertato. L’espressione seria sul volto del medico si trasformò a poco a poco in un sorriso divertito e poi in una risata franca.

“Venga, la accompagno da Bonnie. Mangi qualcosa, si faccia una doccia calda, dorma per quattordici ore filate e vedrà che si sentirà come rinata.” 

3
Da venerdì a lunedì

Margherita
La signora Armstrong si era rivelata da subito una persona gentilissima e un’ospite squisita. Era la proprietaria dell’hotel del paese e aveva convertito le stanze di un’ala dell’albergo in appartamenti da affittare a turisti che volevano un po’ di comfort in più o che si intrattenevano in città per lunghi periodi. Si era presentata come Bonnie e aveva immediatamente rotto il ghiaccio e bandito ogni formalità. Le aveva fatto trovare lenzuola fresche, tulipani gialli in un vaso e un piatto di deliziosa sheperd’s pie fatto in casa.

Margherita l’aveva ringraziata a profusione e aveva mangiato con calma, godendosi i primi momenti di tranquillità da una settimana a quella parte. Dopo cena si era fatta una  lunga doccia ristoratrice e si era massaggiata la spalla con la crema che le aveva prescritto l’arrogante medico sexy. Mentre faceva assorbire la pomata con lenti movimenti circolari si ritrovò più volte a pensare al loro incontro. Quel bellimbusto era proprio il contrario del suo tipo ideale. Un adone strafottente che ostentava il proprio disprezzo degli altri e che dispensava condiscendenza con provocatoria noncuranza. Ma chi si credeva di essere? Dr. House, forse? Che diritto aveva di trascinarla nel suo studio e farle anche la ramanzina?  Certo che per essere un damerino era affascinante. Era scostante e prepotente ma anche gentile e premuroso. Probabilmente aveva solo paura di venir denunciato per omissione di soccorso, si disse Margherita, ma non riuscì a non pensare al tocco deciso e fresco delle sue mani. Aveva sempre avuto un debole per le belle mani, accidenti a lei. C’era un qualcosa di attraente nella loro poliedricità, nelle infinite abilità che le contraddistinguevano. Le mani portano con sé l’abilità di creare. Da loro nasce la musica, l’arte, la sperimentazione che conduce all’invenzione e alla scienza e, perché no, anche la buona cucina. Le mani rappresentano anche il senso del tatto, notò con interesse, mentre indossava una camicia da notte di cotone leggero e si infilava sotto le coperte. Si addormentò quasi all’istante, cercando di non immaginarsi come sarebbe stato intrigante farsi fare un massaggio da lui e sperimentare le sue mani eleganti e salde sulla sua pelle.

La mattina seguente verso le dieci si svegliò ristorata e pronta a esplorare la sua nuova città. L’appartamento che le aveva dato Bonnie era pratico e attrezzato alla perfezione. Due stanze con le pareti dipinte di un bianco luminoso, una camera da letto confortevole e spaziosa con un letto di legno chiaro, un armadio più che sufficiente a custodire le sue cose, uno specchio grande e una scrivania alla finestra che dava sul porticciolo di Eyemouth. La stanza principale fungeva sia da cucina che da soggiorno, con una piccola isola centrale, un tavolo quadrato, un divano e un mobile tv con annessa libreria. La scelta dei colori era rilassante, sui toni del bianco e dell’azzurro e rifletteva il colore del cielo e del mare che poteva godere dalle ampie porte finestre che si spalancavano su un piccolo terrazzino affacciato sul porto. Il luogo perfetto per sedersi a sorseggiare un caffè e godersi qualche momento di pausa. Si preparò e scese nella sala comune dell’albergo dove Bonnie le aveva assicurato che avrebbe potuto sempre fare colazione. Venne accolta da un sorriso smagliante. La proprietaria le preparò del tè e le portò dei soffici scones, della marmellata alle fragole e del burro. Dopo aver apparecchiato la tavola per due e portato della spremuta di arancia e dei bicchieri, si sedette a farle compagnia.

“Non ti dispiace se faccio una pausa con te, vero?”, le chiese gentilmente. Aveva l’aria tipicamente scozzese, la pelle diafana spruzzata di lentiggini, i capelli rossi mossi e lunghi fino a sotto le spalle e gli occhi che riflettevano il verde intenso della brughiera. Parlarono a lungo come due amiche che non si vedevano da tempo. Bonnie aveva quarantadue anni, era nata e cresciuta a Eyemouth e aveva sposato un suo amico d’infanzia, Ewan Armstrong, quando aveva diciannove anni. Ewan lavorava con suo padre come muratore e si era occupato della ristrutturazione della locanda quando i genitori di Bonnie avevano deciso di andare in pensione e lasciare a lei la direzione dell’hotel. Avevano due figli, di ventidue e vent’anni, John e Percy, entrambi all’Università.

Margherita sfruttò l’occasione e le chiese informazioni sulla cittadina, gli orari del supermercato e della farmacia, si informò sul tempo e sulle attrazioni turistiche che avrebbe potuto visitare il fine settimana. Il museo sarebbe stato chiuso per due o tre settimane, per darle il tempo di ambientarsi, studiare la collezione e decidere se voleva apportare modifiche all’esposizione. Il suo professore le aveva anche rivelato che, date le dimensioni e la scarsa affluenza di visitatori, il museo era aperto solo una domenica al mese e sempre chiuso al sabato, quindi sperava di potersi prendere un po’ di tempo per esplorare quell’angolo di Scozia. Al termine della colazione, Bonnie si offrì di accompagnarla al museo e presentarle i suoi futuri collaboratori.

La breve passeggiata attraverso Eyemouth si rivelò molto istruttiva. La cittadina di tremila e qualcosa abitanti conservava gran parte del proprio carattere originario di villaggio di pescatori, con le sue stradine strette, il porto e le imbarcazioni di legno colorate che sfidavano ogni notte il mare per ritornare la mattina cariche di pesce fresco da vendere. Bonnie la presentò a un paio di passanti che incontrarono sulla strada per il museo e le mostrò un caffè gestito da una coppia di italiani che erano approdati lì quindici anni prima per poi restare.
“Non so se sia un cliché ma fanno un ottimo caffè e hanno dei croissant farciti alla marmellata che io trovo buonissimi”, aggiunse con tatto Bonnie.
Margherita rise e rispose: “No, non è un cliché! Adoro il caffè e le brioches alla marmellata. Credimi, mi hai dato un’informazione preziosissima!”
Bonnie rise con lei e le promise di portarla a fare colazione lì il giorno dopo, dato che il sabato mattina in genere era molto tranquillo all’hotel.

Giunsero al museo dopo una passeggiata di pochi minuti e si fermarono a rimirarlo dall’esterno. Era una larga costruzione su due piani, con il tetto di ardesia scura e un portone d’ingresso laccato di un rosso vivace che accoglieva i visitatori sulla piazza principale del paese.
“Allora,” chiese Bonnie curiosa: “cosa ne pensi?”
Margherita lo osservò per un attimo in silenzio prima di rispondere: “Lo trovo affascinante. Non vedo l’ora di entrare!”

L’ingresso si apriva su un atrio con la biglietteria e un guardaroba, entrambi deserti. Dopo aver attraversato l’atrio si accedeva direttamente alle collezioni del piano terra: al primo sguardo sembrava che si trattasse principalmente di una collezione di armi, ventagli e stampe. Il Dr. McLachlan aveva ragione: un nuovo allestimento più moderno non poteva che giovare a questo piccolo museo di provincia. In compenso, le sembrava che avesse fatto un ottimo lavoro e la collezione pareva offrire ai visitatori pezzi interessanti. Bonnie la condusse al primo piano lungo delle larghe scale di legno  scuro con i corrimano in ferro battuto. Lì vennero accolte da un uomo sulla sessantina in un completo di tweed dall’aria severa.
“Benvenute. Io sono William Fisher, il guardiano del museo.” Iniziò l’uomo stringendo con cordialità la mano a Margherita e a Bonnie. “Mia moglie Caroline e mia nipote Gwendolyn ci aspettano nell’ufficio del direttore.” E così dicendo le accompagnò verso una porta di legno lucido sul fondo della sala.
Margherita prese un bel respiro e si preparò. In fin dei conti era qui per sostituire il direttore e doveva apparire competente e preparata, anche se rimpiangeva il non aver avuto tempo sufficiente per studiare le collezioni del museo con l’attenzione che avrebbe desiderato poter dedicare loro.

Caroline era una donna all’incirca dell’età del marito, vestita con un abito verde scuro lungo fino alle caviglie e i capelli color cenere stretti in una crocchia severa dietro al capo. Le sorrise con gentilezza e le presentò una ragazza di non ancora vent’anni, anche lei sorridente e in evidente imbarazzo, Gwendolyn. Gwendolyn era la nipote dei due custodi e il direttore le aveva offerto la possibilità di imparare il mestiere dai nonni. Aiutava al museo tutti i fine settimana e d’estate. Aveva appena finito il liceo e sarebbe andata a studiare storia dell’arte a St. Andrews in autunno.
“D’accordo.” Iniziò Margherita dopo le presentazioni: “Mettiamoci al lavoro! Non vedo l’ora di conoscere i tesori di questo museo.” Bonnie si congedò e le ricordò che la cena sarebbe stata servita alle sette.
Lavorò senza sosta per giorni, senza fare pause il sabato o la domenica. Si fece guidare da William e Caroline attraverso le sale, fece domande su tutti i reperti, notando con piacere l’interesse e la competenza che i guardiani dimostravano. Le indicarono le principali attrazioni, raccontarono leggende in proposito e le mostrarono i cataloghi e i dettagliati appunti del Dr. McLachlan, come lo chiamavano sempre. Margherita fu positivamente colpita dalla perizia del direttore e la sua impressione iniziale venne confermata. La dovizia di particolari con cui descriveva ogni singolo pezzo era encomiabile. Aveva anche preso nota di varie possibili soluzioni di allestimento in alternativa a quella attuale e di tecniche museologiche all’avanguardia. Per essere il direttore di un piccolo museo locale di un paesino sperduto negli Scottish Borders, la sapeva decisamente lunga. Sotto la sua direzione il museo aveva acquisito pezzi interessanti e di richiamo, come un delicato ventaglio di epoca jacobita, dipinto a mano e montato su sottili stecchi di avorio intagliato provenienti dalla Cina, un borsello di pelle di cervo che si riteneva fosse appartenuto al celebre bandito scozzese Rob Roy MacGregor e il reperto più significativo: un’enorme leonessa di pietra arenaria ritratta mentre divorava il corpo di un uomo, probabilmente un Caledone, membro della temibile tribù che diede per lungo tempo filo da torcere ai Romani, arrivando persino a sfondare il Vallo di Adriano.

I primi giorni li dedicò allo studio minuzioso della collezione. Alle sei e trenta in punto ogni sera lasciava il museo e tornava all’hotel dove l’aspettavano Ewan e Bonnie. La cena per gli ospiti veniva normalmente servita tra le cinque e le sette e mezza ma gli avventori erano pochi e per lo più scozzesi, quindi verso le sei e mezza avevano già finito di mangiare tutti. Bonnie aveva pensato, a ragione, che per la sua ospite italiana sarebbe stato decisamente troppo presto e le aveva offerto di unirsi a lei e al marito. Ewan era un uomo sui quarantacinque anni, prestante e disinvolto, con il volto e le braccia abbronzate dal sole. Dopo quattro giorni Margherita poteva già parlare di routine. Faceva colazione con Bonnie, un pranzo veloce al caffè italiano, dove Marinella si premurava sempre di farle trovare insalate, piadine o piatti di pasta perfetti, accompagnati dal caffè migliore che avesse bevuto da quando si era trasferita in Gran Bretagna sette anni prima. A cena veniva accolta dai sorrisi stanchi e cordiali dell’oste e suo marito che non vedevano l’ora di farle domande sulla sua avventura al museo e di raccontarle storie divertenti accadute al cantiere o in hotel.

Il lunedì mattina alle sette stava facendo colazione in veranda con Bonnie quando vide il dottor MacKay passare di corsa lungo il molo e si ritrovò a rimirare la sua forma slanciata, le spalle larghe, i folti capelli scuri e i muscoli tesi delle gambe esposte dai pantaloncini corti.
“È un bel vedere, o sbaglio?” Chiese divertita Bonnie guardandola di sottecchi.
Margherita sospirò prima di rispondere: “Mentirei se dicessi che è l’uomo più brutto che abbia mai incontrato.”
“Mi hai posto molte domande in questi giorni ma non mi hai chiesto nulla del tuo salvatore.” Continuò la padrona di casa.
“Non vedo cosa dovrei chiedere.” replicò Margherita. “Mi ha trovata mezza stordita al bordo della strada, chiamato i pompieri e portata qui, dopo un’imbarazzante sosta al suo ambulatorio condita da una ramanzina del tutto non necessaria.”
“Una volta mi ha confessato di essere sempre piuttosto brusco nelle situazioni che percepisce come potenzialmente pericolose. Non vuoi sapere chi è o cosa lo ha portato a Eyemouth?” Chiese curiosa Bonnie.
“No, grazie Bonnie. Probabilmente pensa che io sia un’imbranata completa. Meglio non indagare ulteriormente. Cercherò di stargli alla larga e continuare a lavorare in pace.” Concluse l’archeologa con convinzione. A cosa le avrebbe giovato sapere qualcosa in più sulla vita del medico? Non avrebbe fatto altro se non alimentare il suo insano e adolescenziale interesse nei suoi confronti. No, ne sarebbe stata alla larga. Lontana da lui, dai suoi muscoli allenati, dalle sue spalle diritte e dalle sue meravigliose mani. In fin dei conti, avrebbe dovuto resistergli solo quattro mesi. Poteva farcela.

4
Da martedì a venerdì
Margherita
Stare alla larga dal medico di un paese che conta a malapena tremila anime non è l’impresa più semplice da compiere. Soprattutto se il medico in questione, accidenti a lui, fa jogging la mattina davanti a casa tua, beve il caffè al bar dove vai per pranzo e beve una birra con gli amici la sera al pub dove ti accompagnano i tuoi ospiti pensando di favorire la tua integrazione. Non pensare all’uomo più affascinante che avesse mai incontrato - senza contare il professor Lanzotti - risultava estremamente difficile.
Lanzotti, il mito dei suoi anni dell’Università, era la ragione per la quale aveva frequentato il corso di Epigrafia greca, potenzialmente una noia mortale e a tutti gli effetti uno dei corsi migliori che avesse mai sperimentato. Ma la sua infatuazione immortale per lui non contava perché Lanzotti aveva all’incirca trecento anni per gamba.

Sembrava destinata a incontrare il dottor MacKay ovunque andasse, a qualunque ora del giorno o della notte. Il prossimo che le diceva che i medici lavoravano tanto l’avrebbe sentita. Questo esemplare scozzese trovava tutto il tempo di fare la pausa pranzo da Marinella, esattamente all’ora in cui ci andava lei. Certo, si sarebbe potuta portare un panino in ufficio ma come sopravvivere tutto il pomeriggio senza un caffè decente? Si ripromise di adibire uno sgabuzzino con la finestra che aveva visto al primo piano del museo, proprio accanto al suo ufficio, a cucinotto e di piazzarci una bella piastra a induzione, così da poter mettere in azione la sua fidatissima e rodatissima Bialetti bianca.

C’erano molti aspetti di lei che non si conformavano all’identità della classica italiana all’estero, questo l’aveva sempre saputo. Non cercava la compagnia di altri italiani, ad esempio. Se capitava, bene, altrimenti si godeva il caos multicolore dei colleghi internazionali, stranieri come lei in terra d’Albione, e dei colleghi britannici più aperti. Ma quando si parlava di caffè era irremovibile. In questo era italianissima. E Bonnie aveva avuto fiuto nel parlarle di Marinella. La barista di Otranto faceva un caffè straordinario, tostato al punto giusto, e lo accompagnava con quell’ospitalità gradevole ma non invadente che piaceva a lei.

L’unica nota positiva di questi numerosi quanto involontari incontri giornalieri era che il dottore non sembrava intenzionato a parlare con lei. Si scambiavano dei saluti cortesi o dei cenni del capo, niente di più. Dopodiché lui si rituffava a leggere il libro che aveva sempre con sé e lei si godeva una mezz’ora di pausa dal lavoro, assaporando con calma i manicaretti della sua connazionale e discutendo con lei di politica e delle comuni preoccupazioni da emigranti per il rischio di una Brexit senza accordo che facevano eco dalle pagine dei quotidiani nazionali. Il medico scozzese non faceva alcun tentativo di scambiare due parole con lei. Mangiava leggendo, poi metteva da parte il suo libro con cura e si beveva una tazzina di caffè nero in religioso silenzio. Dopodiché si alzava, salutava Marinella con calore, faceva un cenno a Margherita e se ne andava.

La sera del martedì seguente al suo arrivo, Ewan e Bonnie l’avevano invitata a fare due passi fino al Cheerful Chub e a bere una pinta con loro. E il copione si era ripetuto come a pranzo.  Il dottor MacKay era già al pub con un gruppo di amici quando entrarono. Bonnie la prese per mano e la condusse direttamente da loro, mentre Ewan andava a fare due chiacchiere con il proprietario e a ordinare le loro birre. Nonostante il nome ridicolo, il Cheerful Chub era un pub di tutto rispetto. Con il bar a un lato della stanza, tavoli e sedie lungo le pareti coperte di legno, tv al plasma localizzate in punti strategici per permettere agli avventori di godersi le partite di cricket e calcio più importanti e uno spazio dedicato alle band scozzesi che si esibivano qui il sabato sera, il locale preferito di Ewan ti accoglieva con la sua atmosfera rilassata e tradizionale al tempo stesso.

“Tu sei la famosissima Margherita!” esordì un uomo sulla quarantina con i capelli brizzolati e l’aria serena di chi è in grado di affrontare la vita senza farsi troppe paturnie. “Bonnie non vedeva l’ora di conoscerti!”.
John, questo il suo nome, era stato nella RAF per quindici anni prima di ritirarsi a vita privata e tornare alla natia Eyemouth con la moglie Felicity. Insieme avevano rilevato l’emporio e si godevano la vita civile. Margherita fu grata della loro presenza. John era socievole e estroverso e aveva viaggiato molto. Era stato a lungo in Spagna e in vari paesi del Nord Africa, prima di essere mandato in Afghanistan e di fare ritorno in Scozia. Lui e Felicity monopolizzarono la conversazione per tutta la serata, mentre Graham non proferì quasi parola e si congedò presto.

Nonostante l’evidente disinteresse e probabile disprezzo del medico nei suoi confronti, Margherita non poteva fare a meno di esserne attratta. La mattina seguente al loro incontro al pub, si svegliò persino da un sogno non del tutto innocente che coinvolgeva l’antipatico Adone e del gelato al cioccolato. Si ammonì con un Tirati insieme! direttamente tradotto dal dialetto bergamasco della nonna materna, si fece una doccia inutilmente fredda e si buttò a capofitto nel lavoro. Per fortuna, quello le riusciva benissimo e le permetteva di scordarsi quelle folli e surreali fantasticherie post-adolescenziali che l’accompagnavano da quando aveva messo piede a Eyemouth. Non era proprio da lei perdersi in fantasie erotiche e questa stranezza la confondeva. In genere era un tipo molto pragmatico e amava andare subito al sodo. Al tizio in questione non piaceva per niente, oltre al fatto che continuava a non essere il suo tipo. A lei piacevano strambi, cervellotici e senza abilità pratiche, se doveva usare la (piuttosto breve) lista dei propri partner passati come indizio. Questo medico dal corpo tonico e dai muscoli torniti come quelli di un eroe greco e lo sguardo da intellettuale che trasudava mascolinità da ogni poro non rientrava affatto nella categoria dello sfigato intellettualmente dotato ed emotivamente disadattato con cui finiva sempre per ritrovarsi. Per non parlare del fatto che il gelato al cioccolato non le era mai nemmeno piaciuto. Concentrarsi del tutto sul lavoro era la scelta migliore che potesse prendere, si disse. Era una grande occasione, dopo tutto. Non c’era motivo di sprecarla.

Il venerdì, dopo poco più di una settimana di studio approfondito e analisi delle più svariate opzioni per un nuovo allestimento, si avventurò nel primo tentativo di modifica alla disposizione dei reperti. L’accordo con il Dr. McLachlan e il suo professore era proprio quello di portare una ventata di aria fresca nel piccolo museo e cercare di rendere più accessibile e comprensibile l’esposizione. Si fece aiutare da Gwendolyn nell’impresa: la aiutò a spostare oggetti da una sala all’altra, discusse con lei possibili nuovi allestimenti e la seguì nei primi tentativi di migliorare quello esistente. Alle cinque la loro prima giornata di preparativi si concluse con un buon tè ristoratore. Verso le sei Margherita si ritirò nuovamente nello studio del direttore per indagare su alcuni reperti che aveva trovato in magazzino un paio di giorni prima e cercare su Google qualche informazione a riguardo.

5
Il secondo venerdì di giugno

Margherita
“Non è anatomicamente corretto.” Fece una voce profonda alle sue spalle: “Se posso permettermi di esprimere un’opinione professionale.”

Margherita era ancora molto assorta nelle proprie riflessioni e iniziò: “Non credo fosse quello l’intento del…” prima di congelarsi all’istante.
“Graham… Dottor MacKay,” si corresse alzandosi dalla sedia e andando a stringergli la mano: “a cosa devo il piacere di questa visita?”, disse con il tono più professionale che riuscì a evocare.
“Sono venuto a controllare di persona come si sentisse, dottoressa Ricci.”, rispose il medico con fare severo. “Le avevo chiesto di tornare all’ambulatorio dopo un paio di giorni dall’incidente ma non si è fatta vedere per più di una settimana. Ho chiesto notizie di lei a Bonnie e mi ha detto che è stata molto impegnata con il lavoro qui al museo. Non sono molti i pazienti ribelli da queste parti.”
Margherita intravide un sorriso beffardo e replicò: “È molto cortese da parte sua ma sto bene. È per questo che non sono venuta da lei. Ho pensato che non fosse necessario.”
“Ah, i pazienti che pensano sono i miei preferiti.”, rispose con un ghigno poco rassicurante. “Se davvero sta così bene, mi spiega come mai protegge il lato sinistro?”
“Ho detto che sto bene,” ribatté Margherita con fastidio: “non ho mai detto che la mia spalla sia tornata del tutto a posto. Ma non credo che un po’ di ibuprofene e di Voltaren possano fare dei miracoli in così poco tempo. Immagino che ci vorrà un po’ di pazienza.”
“Non ho mai sostenuto di poter compiere miracoli. Ma sono il suo medico, anche perché non ne può trovare un altro da queste parti, e ho il dovere di seguire il decorso…”
“Il suo senso del dovere è encomiabile.” Lo interruppe Margherita stizzita. Non aveva voluto dare quel tono acido alla sua risposta ma era capitato. Inspiegabilmente, l’idea di essere solo un to-do sulla lista del medico la infastidiva.

Il dottor MacKay non le sembrò offeso, quanto piuttosto divertito. Le sorrise con gentilezza e cambiò argomento anche se solo per un attimo: “Parliamo del manuale di istruzioni di quel dildo medioevale che stava studiando. Poi torneremo a parlare della sua spalla e del perché lei abbia chiaramente sollevato dei pesi nonostante il dolore e contrariamente alle istruzioni del suo medico.”
“Non…” Margherita decise che era meglio lasciare perdere. Quell’uomo era uno squalo, non avrebbe mai mollato la presa comunque. “Innanzitutto, non è di epoca medioevale ma risale agli inizi-metà dell’Ottocento.” iniziò. “In secondo luogo, questo non è un manuale di istruzioni, ma una scheda per la catalogazione di un reperto facente parte di una collezione museale.”
“È molto precisa nel suo lavoro, o sbaglio?” Di nuovo quel sorriso divertito.
“La precisione è essenziale nel mio lavoro. E se sta per iniziare con la solfa su quanto possa essere noioso catalogare reperti, mi creda, l’ho già sentita.”
“È noioso?”, chiese il medico con tono neutro.
“Trova affascinante studiare parti del corpo, analizzarle e catalogarle?” Chiese lei di rimando.
“Dipende dalla parte del corpo di cui stiamo parlando.” rise Graham.

“La catalogazione e registrazione sistematica di dati e documentazione relativa a un bene museale è qualcosa di simile. È uno strumento di indagine imprescindibile che fornisce un potente supporto sia alle attività di conservazione e valorizzazione sia alla gestione più prettamente amministrativa delle collezioni. Per non parlare del fatto che ci permette di individuare una relazione tra il bene in questione e il contesto storico-culturale che l’ha prodotto.” Recitò praticamente a memoria. Aveva tenuto le lezioni del corso di museologia a Cambridge per i due anni precedenti. Perché ci tenesse a fare la figura della secchiona noiosa proprio non lo sapeva. Era un ruolo che le dava sicurezza, che la faceva sentire meno vulnerabile.
“Nel caso di quel dildo sovradimensionato, per esempio?” Chiese con fare interessato il medico, che sembrava non preoccuparsi di quanto nerd fosse la sua interlocutrice.
“Nel caso in questione stiamo parlando di un fallo ornamentale, una riproduzione di un bronzo antico.” Replicò Margherita.
“Ci sono falli ornamentali sovradimensionati nella collezione del museo?” Chiese nuovamente Graham senza mollare la presa.
“La sua ossessione per le dimensioni di questo oggetto non depone a suo favore, dottore.” Ribatté Margherita ormai divertita dal battibecco.
“Sono pronto a fugare ogni dubbio al riguardo.” Rispose il medico fissandola negli occhi con aria di sfida.

Margherita vacillò per un secondo prima di ribattere: “No, grazie. E comunque non abbiamo falli ornamentali nella nostra collezione.” Decise di cambiare argomento tornando a parlare della collezione del museo. “In questi giorni ho studiato i reperti esposti e sto pensando di modificare il percorso espositivo per aggiornarlo e renderlo più fruibile al pubblico. Sono anche andata a investigare nei magazzini per vedere cos’altro appartiene alle collezioni del museo. Non c’è molto di non esposto. A parte una stanza piena di reperti che non riesco a  inquadrare…”
“In che senso?” Il medico ora sembrava genuinamente interessato alle sue considerazioni e Margherita decise di raccontargli della scoperta fatta in magazzino.
“Ho trovato una stanza al piano interrato. È bene organizzata e i reperti sono esposti secondo un ordine che non sembra casuale. Sembrano in parte strumenti di tortura, in parte… non saprei. Non è esattamente il mio campo.” Ammise. “Ad ogni modo, non voglio annoiarla.”
“Non mi annoia, anzi, mi ha incuriosito.” Replicò il dottor MacKay. “Sarei curioso di vedere questa stanza. Forse posso esserle utile. Credo di sapere di che parte della collezione si tratta. Tornerò quando avrà un po’ di tempo per mostrarmela. Nel frattempo, mi racconti della sua spalla.”  
“Non c’è molto da raccontare. Fa male. Soprattutto la sera e di notte se mi giro sul lato sbagliato. Ma credo stia migliorando.” Rispose onestamente Margherita.
“Davvero non vuole che ci dia un’occhiata?” Chiese il medico serio.
“Mi dia ancora un paio di giorni. Le prometto che verrò subito da lei in caso il dolore non si attenui o peggiori.”
“E sia.” Concesse paziente il dottore passandosi una mano tra i folti capelli castani. “Ma non faccia la coraggiosa. Non c’è assolutamente ragione di tollerare del dolore senza motivo.”
“C’è mai una ragione valida per sopportare del dolore?” Chiese incuriosita Margherita.
Il dottor MacKay rise di gusto e rivelò una fossetta sulla guancia destra appena velata di barba. “Si vede che è un’archeologa! Certo che sì. Mai sentito parlare di parto?”
“Mai sentito parlare di epidurale?” Rispose lei senza pensarci.

Il medico rise nuovamente di gusto. “Devo averla sentita menzionare da qualche parte.” E tornando serio aggiunse: “Purtroppo non elimina del tutto il dolore del parto ma, ha ragione, elimina la parte peggiore.” La osservò per qualche secondo in silenzio prima di dirle: “Sento l’impulso di porle alcune domande, ma credo che sarebbero inappropriate, soprattutto nel suo luogo di lavoro.”

Margherita fu a dir poco sorpresa da questa sua confessione e, invece di svicolare con grazia ed evitare il pericolo, si ritrovò a invitarlo a casa sua per parlarne ulteriormente. Mai che riuscisse a collegare il filtro cervello-bocca! Come c’era da aspettarsi in una situazione del genere, Graham sorrise e accettò di buon grado. Il percorso dal museo fino a casa le sembrò particolarmente lungo. Come al solito quando era in imbarazzo parlò a vanvera per riempire il silenzio carico di disagio che era certa ci sarebbe stato. Gli raccontò della sua ultima campagna di scavi, della fatica di lavorare a maggio sotto il sole già infuocato della Sicilia, della stanchezza feroce che si impossessava delle membra dopo quattordici ore di lavoro ininterrotto, del sollievo serale quando finalmente poteva concedersi una doccia e lavare via la sabbia e il sudore sotto lo scroscio dell’acqua tiepida, della dolcezza della brezza marina che si godeva al tramonto in quell’angolo incantato di mondo.

Il medico si rivelò un ascoltatore attento e interessato. Le chiese del suo lavoro, dei ritrovamenti fatti e dei suoi interessi professionali. Se al loro primo incontro le era sembrato disprezzare la sua formazione, ora sembrava genuinamente affascinato dal suo racconto. Giunti davanti all’hotel le chiese se non la stesse per caso disturbando. Erano quasi le sette e Bonnie gli aveva raccontato che spesso cenavano verso quell’ora.

“È molto cortese da parte sua.” Rispose Margherita. “Ma stasera avevo deciso di cenare da sola. Sono stata al supermercato ieri e ho fatto provviste. Cenare con Bonnie e Ewan è piacevole ma è uno dei pochi momenti che possono trascorrere insieme e non mi va di essere d’intralcio. La mattina faccio spesso colazione con Bonnie, invece, perché Ewan esce molto presto. Stasera intendevo preparare della pasta al pesto. Le piace?”
Graham espresse tutto il suo apprezzamento per la scelta del menù e la seguì fino al suo appartamento.

Una volta entrati piombarono nel tanto temuto silenzio. Dopo averlo invitato a mettersi comodo, Margherita si affrettò ad aprire le porte finestre che conducevano al terrazzino affacciato sul porticciolo, inspirò a fondo la frizzante aria salmastra e si mise a trafficare nella graziosa cucina a vista. Riempì una pentola d’acqua, preparò il sale, la pasta, il vasetto del pesto, lo scolapasta e stava per accendere il piano cottura a induzione quando sentì una mano calda posarsi sulla sua spalla destra.

“Prima che lei inizi a cucinare, possiamo parlare?” Le chiese Graham a voce bassa, una voce profonda, armoniosa e mascolina che la lasciò per un momento interdetta. Annuì nervosa e lo seguì poco distante dai fornelli.

“Innanzitutto le chiedo di permettermi di controllare lo stato della sua spalla.” Iniziò lui, sorprendendola. “Le prometto che sarò rapido ed efficiente, ma voglio essere sicuro di non aver trascurato una paziente, non ci sono abituato.” Margherita annuì di nuovo, fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, lasciando che il medico le tastasse la spalla e che le muovesse il braccio avanti e indietro e dietro la schiena. “Le fa male così?” Chiese il dottor MacKay con interesse.
“Un po’.” Rispose Margherita con onestà, e si affrettò ad aggiungere: “Non come settimana scorsa, molto meno.”
“Bene.” Concluse Graham: “Ora che mi sono accertato che lei non abbia bisogno di me in quanto medico, posso chiederle il privilegio di parlarle in modo meno formale?”
Lo sguardo di Margherita si fissò sul suo volto, illuminato da un sorriso che la sua amica Sara avrebbe senza dubbio descritto come sorriso killer: uno di quei sorrisi devastanti che ti fanno perdere il senso del tempo e dell’equilibrio e che dovrebbero essere proibiti per legge.
“C… Certo.” Balbettò quasi, ma si riprese velocemente: “Permesso concesso.”
Quel sorriso la stese per la seconda volta in meno di trenta secondi.
“Posso chiamarti per nome?” Si accertò lui.
“Certo, Graham.” Rispose, prendendolo in giro.
“Mi piace come arrotoli la erre, quasi ad assaggiare il mio nome, Margherita.” Replicò Graham sorprendendola di nuovo e non storpiando affatto la pronuncia del suo nome italiano come facevano i colleghi di Cambridge. “La gente della zona di Edimburgo dove sono cresciuto usa una erre vibrante come la tua.” Spiegò, divertito dallo stupore che le si era stampato in volto.
“Hai detto di sentire il bisogno di pormi delle domande.” Lo interruppe Margherita che preferiva sempre andare dritta al punto. Girare attorno a una questione scottante non faceva per lei, prolungava solo l’agonia, dal suo punto di vista.
Graham annuì e si passò una mano tra i capelli in un gesto che tradiva un’insicurezza che non gli avrebbe mai attribuito.
“Hai ragione.” iniziò: “Posso chiederti quanti anni hai?”
“Trentuno.” Rispose perplessa.
“Quindi ti è già capitato di venire visitata da un medico.” Continuò lui.
Non le era chiaro se si trattasse una domanda o un’affermazione, quindi rispose di sì. Ovviamente aveva incontrato dei medici prima di quel momento, anche se non era mai stata in ospedale.
“Posso chiederti come mai reagisci così al contatto fisico?”
“Così come?” Questa era decisamente una domanda strana.
“Come se provassi un senso di repulsione e angoscia.” Margherita sbarrò gli occhi per la sorpresa. Stava per obiettare quando lui la interruppe e continuò: “Lascia che mi spieghi meglio: serri gli occhi come se stessero per torturarti, il tuo cuore inizia a battere all’impazzata e ti irrigidisci all’istante. È una reazione al concetto di visita in sé o è repulsione che provi nei miei confronti soltanto?”
“Cosa? No!” Esclamò alzando la voce più di quanto avrebbe voluto: “Non c’entra niente la repulsione, credimi!”
“Non devi giustificarti con me.” Aggiunse Graham con delicatezza: “Ma se volessi spiegarmi, mi aiuteresti a capire se faccio qualcosa di sbagliato.”
“Non fai nulla di sbagliato. Sono… sono io che sono stupida. Scusami.”
“Innanzitutto permettimi di dissentire. Se c’è qualcuno di non stupido in questa stanza, sei tu. In secondo luogo, non c’è ragione per cui tu ti debba scusare.”
“Oh sì, sì che c’è!” Dichiarò con enfasi e il filtro che avrebbe dovuto funzionare si inceppò come al solito quando era nervosa: “Non dovrei reagire così ma non riesco a evitarlo. È normale che un medico ti tocchi una spalla e di solito non mi agito ma con te… non riesco…  non riesco a vederti solo come un medico… mi sembra di essere una ragazzina alla prima cotta…” e si paralizzò all’istante, non appena si accorse di cosa si era lasciata sfuggire. Guardò con orrore il bel volto stupito di Graham passare dallo sconcerto a un quieto divertimento.
“Provi attrazione nei miei confronti?” Le chiese con voce bassa e seducente. Margherita sentì l’impulso di fare un passo indietro nella speranza di essere ingoiata da una voragine apparsa come per magia nel pavimento, ma un braccio solido bloccò il suo improbabile tentativo di fuga.
“Rispondimi.” Le intimò con voce ferma e virile.
“Sì. Non so come scusarmi. Non è qualcosa che mi capita… Potresti essere sposato con figli per quanto ne so.”
“Non sono sposato e non ho figli. E mi sembra di averti già detto che non hai ragione di scusarti.” Spiegò il medico sfiorandole la guancia con il dorso della mano. Ci fu un momento di silenzio e poi Graham ammise: “Normalmente non avrei lasciato un paziente soffrire da solo per una settimana senza controllare come si sentisse, indipendentemente da quanto cocciuto possa essere il suddetto paziente o leggero il suo infortunio.”
Margherita, che aveva iniziato a fissare ostinatamente il pavimento e desiderare di svanire in una nuvola di fumo dato che l’agognata voragine tardava a spalancarsi, sollevò di scatto gli occhi su di lui.
“Se l’ho fatto è perché non mi sono mai trovato in una situazione del genere prima.”, aggiunse passandosi nervosamente la mano tra i folti capelli scuri. “Di solito non vedo che un paziente davanti a me, un problema da comprendere, un’emergenza da risolvere… Con te è tutto diverso. Vedo una donna, attraente e intelligente. Sento i tuoi muscoli fremere, il battito del tuo cuore accelerare e vorrei stringerti forte a me, consolarti e rassicurarti.” Margherita si sforzò di chiudere la bocca, perché era certa di fissarlo come un’ebete. “Ed è qualcosa di totalmente inaspettato. Ho cercato con poco successo di evitarti per una settimana, pensando che fosse stata solo la stanchezza di un turno di troppo in pronto soccorso e la straordinarietà del nostro incontro che mi faceva provare qualcosa di diverso nei tuoi confronti. Ma rivederti stasera concentrata davanti al computer e ascoltare il tuo racconto appassionato ha confermato i miei sospetti. Se la cosa ti disturba, ovviamente, posso riferirti a una collega a Berwick. Non è comodo come avere un medico nel paese ma non è distante da qui, sono al massimo tredici chilometri.”
“Stop!” Intimò Margherita. “Perché mai dovrebbe disturbarmi? Ti ho appena confessato una cotta adolescenziale, dopotutto.” E scoppiò una risata a metà tra il nervoso e il divertito. Graham rise di gusto, lasciò la presa e fece un passo indietro.
“D’accordo, teenager troppo cresciuta, prepariamo questa pasta al pesto, mettiamoci a tavola e ricominciamo tutto da capo.”

*****

L’iniziale imbarazzo si sciolse presto in una conversazione piacevole e rilassata. Graham studiò con attenzione ogni sua mossa durante la preparazione della pasta. Si mostrò stupito e soddisfatto quando la vide mescolare un po’ dell’acqua salata di cottura con il pesto che aveva distribuito nei due piatti fondi e quando lei gli rivelò di lasciare cuocere la pasta sempre per uno o due minuti di meno rispetto al tempo suggerito sulla confezione.

“Questa pasta sembra deliziosa!” Esclamò entusiasta dopo che si furono seduti a tavola, inspirando a fondo il profumo intenso ed erbaceo del pesto che li avvolgeva invitandoli ad assaggiare. “Buon appetito!”
Prese una forchettata con tre penne e se le infilò in bocca, chiudendo gli occhi grigi in un moto di appagamento che la fece sorridere. Il burbero medico bacchettone era scomparso per lasciare posto a un uomo allegro e spensierato che si godeva la vita una penna alla volta.
“Lo ammetto.” Disse dopo i primi tre o quattro bocconi masticati in religioso silenzio: “Quando ho visto il pacchetto di pasta Barilla e il vasetto di pesto non mi aspettavo questo risultato.”
“È ovvio,” ribatté lei sorridendo: “le trofie e il pesto fatti a mano sono meglio, ma se non le sai cucinare viene comunque fuori un pasticcio appiccicoso. Non dovresti mai sottovalutare il potere di una cottura al dente e di esperienza in cucina, mio giovane Padawan.”
“E mai più li sottovaluterò, o saggio Yoda.”  Replicò divertito. “Sei bravissima. Non vedo l’ora di provare a riprodurre questo capolavoro! Non sapevo che si dovesse mettere l’acqua della pasta nel pesto.”
“Lo ammetto: non so se sia considerato un crimine da ergastolo in Liguria. Io lo faccio sempre. È un trucco che mi ha insegnato mia nonna.” Spiegò Margherita. “Mi piace ottenere un sugo cremoso, anche quando non posso farlo in casa. La pasta al pesto è una di quelle cose facili da preparare anche se hai solo un fornellino a gas o se vivi in un appartamento in affitto con una cucina dell’anteguerra divisa con altri quattro studenti.”
“Un pasto degno di un re, cucinato con gli attrezzi di un servo.” Asserì Graham, al quale il buon cibo sembrava stimolare lo spirito filosofico.
“Esattamente.” Rise Margherita divertita. “Da noi si dice fare di necessità virtù.”
“In inglese diciamo che la necessità è la madre dell’inventiva.” Spiegò il medico.
“E, dimmi, cosa ti ha spinto a creare la necessità?” Chiese Margherita curiosa, prima di rendersi conto che non tutti si erano trovati in situazioni nelle quali bisognava essere creativi e che una domanda del genere poteva essere male interpretata. “Aspetta, non intendevo suggerire che…”
“Non ti preoccupare.” La tranquillizzò Graham posando una mano sulla sua. “Ho capito cosa intendi.” E continuò senza spostare la mano. “Vengo da una famiglia piuttosto benestante di Edimburgo. Ho studiato medicina a Oxford e mi sono specializzato in medicina d’urgenza a Londra. I miei genitori mi hanno finanziato gli studi, generosamente devo aggiungere, e non ho mai vissuto in un appartamento con altri quattro studenti o dovuto lottare con una cucina dell’anteguerra. A Oxford avevo una stanza singola con il bagno e la mensa del Christ Church College era più che accettabile e a Londra mi potevo permettere il mio appartamento vicino all’ospedale. In compenso, ho avuto a che fare con fornellini a gas e con un rancio degno della Legione Straniera durante la guerra d’Algeria mentre ero via con i Medici senza Frontiere.”
“Eri nei Medici senza Frontiere?” Chiese stupita Margherita. Una scelta decisamente non convenzionale per qualcuno con un’educazione così raffinata e una famiglia così facoltosa. Lavorava a Cambridge e conosceva i costi per gli studenti. Qualcosa che di certo i suoi genitori, entrambi insegnanti, non si sarebbero mai potuti permettere.
“Sì.” Rispose annuendo: “Ho iniziato come volontario al terzo anno di università. I miei genitori si sono opposti per un po’ ma non mi sono lasciato distogliere dal mio proposito. C’era una componente egoistica nel mio desiderio di partire. Da una parte volevo aiutare persone meno fortunate di me, dall’altra, lo ammetto, ero curioso di vedere come funzionavano gli ospedali in altre parti del mondo, ero impaziente di fare esperienza sul campo e non volevo aspettare.” Lo sguardo si perse nel vuoto mentre raccontava e ricordava: “Mi mandarono in Sudan. Il mio compito era aiutare i medici in un ambulatorio ginecologico. Fu un’esperienza che mi aprì gli occhi. Incontrai volontari fantastici, che lottavano con le unghie e con i denti per salvaguardare la vita delle proprie pazienti, o quel che ne restava. Assistei ai tentativi quasi disperati di aiutare delle ragazze violentate dai soldati di forze governative e alle battaglie burocratiche che ne seguirono. Da quel momento in poi passai ogni estate e ogni momento di vacanza in missione. Dopo la laurea e la specializzazione ho lavorato per due anni con MSF. Sono stato in Uganda, Rwanda, Yemen, Sicilia, Cecenia e Siria.”

“Sono impressionata.” Lo interruppe Margherita. “È un lavoro meraviglioso e pericoloso allo stesso tempo, se si può parlare di lavoro. Mi ricordo come fosse ieri le immagini del bombardamento ad Aleppo in cui venne anche colpito un ospedale di MSF. Sei un uomo molto coraggioso.” E si bloccò quando vide il volto rilassato di Graham contrarsi in un’espressione addolorata.
“Ti chiedo scusa,” si affrettò a correggersi: “non volevo ricordati un episodio così doloroso. È stata una mancanza di tatto imperdonabile da parte mia.” E decise di raccontare a Graham di Khaled: “Conoscevo di vista Khaled al-Asaad, il direttore del sito archeologico di Palmira che venne torturato e poi decapitato tre anni fa. Ci andai un paio di estati per lavorare alla mia tesi di laurea. Era sempre indaffarato, aveva un ufficio piccolissimo pieno di libri, articoli e scartoffie di ogni tipo. Facevi fatica a trovare una sedia libera per parlare con lui, eppure era sempre disponibile a discutere con gli studenti di archeologia e ad aiutarli con il loro lavoro di ricerca. Ciò che rende Palmira eccezionale è la commistione di elementi della tradizione greco-romana con quella locale. C’era un’Agorà, una sorta di Senato che ricorda la Boulé greca e in alcuni monumenti funebri sono state ritrovate delle mummie preparate secondo canoni simili a quelli dell’Antico Egitto. So che il valore di un paio di mattoni e di colonne può sbiadire di fronte alle atrocità commesse contro la vita umana ma il dolore che deve aver provato Khaled all’idea che tutto ciò che aveva preservato e per cui si era battuto per una vita intera fosse distrutto da un paio di mostri senza rispetto per la Storia deve essere stato inimmaginabile.”
“Non hai bisogno di scusarti.” La rassicurò Graham. “Non credere che io sia una di quelle persone che non riconosce il valore delle opere d’arte e dei monumenti antichi. Quello che gli archeologi fanno è encomiabile. È vero, noi medici ci battiamo affinché la vita umana sia rispettata e la sofferenza e la morte siano dignitose, ma ciò che fate voi è assicurarvi che ci sia qualcosa per cui valga la pena battersi. La Storia ci insegna molto e se solo fossimo capaci di comprenderla ed ascoltarla, il nostro mondo sarebbe un luogo migliore.”

Si passò una mano tra i capelli e con l’altra si strinse le guance e il mento in un gesto nervoso prima di confessare: “Ero ad Aleppo. Quando l’ospedale fu bombardato. Ma non ero di turno. Avevo preso un giorno per riprendermi da due operazioni particolarmente complicate. Chiesi ad un collega di sostituirmi. Stavo tornando all’ospedale quando venni colpito da una scheggia volante. Ora lui è morto, insieme a molti altri e ai pazienti che avevo operato e io sono vivo, con una cicatrice ridicola sulla schiena a ricordarmi quanto sia stato fortunato.”

Graham fece una pausa e chiuse gli occhi in un moto di dolore: “Dici che sono un uomo coraggioso. Ma non è vero. Se fossi coraggioso, non mi sarei rintanato in un paesino sperduto della Scozia a leccarmi le ferite ma sarei ritornato sul campo, là dove hanno bisogno di me.” Così dicendo si alzò, distolse lo sguardo da lei e lo fissò ostinatamente sulla finestra aperta sul cielo notturno, i pugni stretti, le nocche bianche per la tensione e le labbra tirate dalla disperazione e la rabbia. Margherita balzò in piedi e lo abbracciò. Lentamente sentì la tensione lasciare i suoi muscoli e si ritrovò cinta in un abbraccio stretto e carico di pensieri non espressi per troppo tempo. Dopo qualche minuto, la stretta si fece più morbida e più rilassata e Margherita gli baciò delicatamente il petto all’altezza del cuore. Graham rispose con un leggerissimo bacio sulla testa.

“Conosci il termine gaelico cwtch?” Le chiese con voce sommessa e sognante.
“No, ma è appena entrata nella top ten delle parole meno musicali che abbia mai sentito! Appena sotto Streichholzschächtelchen, una dolcissima parola che indica una scatoletta di cerini in tedesco.” Lo sentì ridacchiare, il petto che si alzava e si abbassava contro la sua guancia. “Cosa significa cwtch?” Lo sollecitò curiosa.
“Indica un tipo speciale di abbraccio, quello in cui ti senti finalmente a casa, al sicuro tra le braccia di una persona amata.” E dopo una pausa aggiunse: “È così che mi sento ora. È la prima volta in tanti anni… non saprei come spiegarlo.”
“Non devi spiegarlo. È questo il bello di uno cwtch.” Assicurò lei ridacchiando e venne premiata con un’altra risata sommessa. “È una serata meravigliosa, il cielo è limpido e le stelle e la luna illuminano il mare.” Commentò guardando fuori dalla finestra.

Lo sentì sospirare. “Sarebbe la serata giusta per baciarti.” Le disse. “Ma non lo farò. Aspetterò un’altra serata perfetta, con meno emozioni forti.”
“Sei un maniaco del controllo?” Chiese lei con fare interessato, cercando di non dare retta al mare di emozioni incontrollate che la sua dichiarazione aveva scatenato: sorpresa, gioia, delusione, preoccupazione.
Una risata sonora accolse le sue parole. Graham allentò l’abbraccio e fece un passo indietro per poterla guardare negli occhi. “Ammetto di sentire l’esigenza di avere la situazione sotto controllo.” Iniziò: “un po’ è l’inclinazione innata, un po’ la formazione da medico che mi ha insegnato a sezionare i problemi e affrontarli un pezzo alla volta e un po’ la sindrome post-traumatica che mi porto appresso dall’esperienza in Siria. Ma il motivo per cui non ti bacerò non è questo.” Proseguì accarezzandole con un dito il viso e fissandole le labbra: “Non voglio che tu creda che il mio sia stato un gesto di debolezza, dettato da un momento particolarmente emotivo. Voglio che tu sappia che ero nel pieno dominio di me stesso e che l’ho fatto perché non potevo controllare la mia attrazione per te. Non ho intenzione di darti alcuna scusa per pensare che non fosse un atto intenzionale.”
 Margherita lo fissava in preda allo stupore. Graham le sorrise con dolcezza e le sfiorò nuovamente la guancia. “Fai un bel respiro e dimmi quello che stai pensando.”

Lei seguì il suggerimento e confessò con voce più sicura di quanto non si sentisse: “Sei sicuro che ci sarà mai una serata più perfetta di questa?”

“Ho la sensazione che ogni serata con te sia perfetta.” Le disse guardandola negli occhi e continuando a sorridere.
“Il tuo sguardo è limpido come il cielo stasera.” Osservò Margherita trasognata.
Graham rise quasi con imbarazzo e rispose: “Sono sereno, come il cielo stasera. E a questo punto credo di dover andare, prima di perdere definitivamente il controllo.”
“Perdere il controllo non è sempre il peggiore dei mali.” Gli assicurò Margherita speranzosa.
“Dopodomani partirò per Londra, dove resterò per un paio di settimane.” Le disse a sorpresa Graham. “Mesi fa ho promesso a un collega che avrei tenuto un corso intensivo alla scuola di specializzazione e ora non posso scappare. Se ancora vorrai, fra due settimane riprenderemo il discorso da dove l’abbiamo interrotto.” Le sfiorò nuovamente la guancia con la mano e se ne andò.
6
Sabato

Margherita

“Fammi capire.” Disse la sua amica Sara a metà tra lo sconvolto e il deliziato. “Questo sexy dottore prima ti confessa di volerti baciare e poi ti molla così di colpo e se ne va a Londra per due settimane?”
“Non prendermi in giro!” sbottò Margherita guardandola in cagnesco attraverso lo schermo del telefono: “Ci sono rimasta di sasso.”
“Buon per te, invece!” Continuò la sua ex-coinquilina. “Non ti sei mai buttata con i ragazzi. Non dopo averli visti appena due volte, almeno. Raccontami ancora degli occhi e delle spalle di questo esemplare di maschio adulto.”
“Oh, cosa devo dirti, è un figo pazzesco.”
“Batte Lanzotti?”
Margherita rise: “Non prendermi in giro! Lanzotti aveva carisma da vendere!”
“Sarà, ma era un vegliardo. Quanti anni ha il bel dottore?”
“Non lo so, non gliel’ho chiesto. Un paio di anni più di me? Trentacinque al massimo.”
“Evvai!” Esclamò Sara felice. “Allora?”
“Allora… cosa ti devo dire… è bellissimo. Ha i capelli castano scuro, come il cioccolato fondente. Ci passa spesso una mano quando è nervoso e ha gli occhi grigi, con un contorno scuro. È così strano: ha uno sguardo intenso e penetrante, che dà un senso di sicurezza e di calma. Ha delle spalle meravigliose. Chiaro, non come il tuo vichingo giocatore di football ma a me bastano e avanzano. E le mani… sai quando si dice mani da chirurgo? Ecco, un polso solido, dita lunghe e affusolate, un palmo largo ma non troppo con dei calli appena sotto all’attaccatura delle dita e un dorso morbido ma non troppo. Si vede che sono il suo strumento di lavoro.”
“E le unghie come sono?”
“Ah, sono corte e curate! Come piace a me… aspetta, mi stai prendendo in giro per caso?”
Sara scoppiò a ridere divertita: “Marghe, mi avevi a capelli color cioccolato fondente. Molto prima della descrizione accurata di ogni carpo e metacarpo.”
“Sono un caso umano, vero? Ho passato troppo tempo a lavorare e studiare e non sono uscita abbastanza.” Si lamentò Margherita sconsolata.
“Presente all’appello! Guarda me. A volte il destino aiuta noi secchione e ti fa piombare il vichingo direttamente in casa.”
“Tu hai avuto un culo pazzesco. È uno di quegli eventi che non si ripetono due volte in un secolo.” Spiegò Margherita pragmatica. “Davvero, quando mai ti capita di trovarti uno schianto di giocatore di football americano, con un cervello e un’intelligenza emotiva sviluppata direttamente in salotto?”
“Nel tuo caso ti è capitato uno schianto di dottore scozzese sul ciglio della strada. Non può essere una coincidenza. A parte essere stato scolpito da Fidia in persona, cosa mi sai dire di lui?”
“Ha un senso dell’umorismo asciutto, ha girato il mondo con i Medici senza Frontiere, una cicatrice sulla schiena, e per fortuna solo quella, causata da una ferita ricevuta durante il bombardamento di Aleppo due anni fa… Sara, ho perso la testa. Sono seria. Mi è capitato di balbettare mentre parlavo con lui.”
“Non ti credo. La tua arte oratoria avrebbe fatto impallidire Cicerone in persona.” Commentò incredula l’amica. Sara aveva condiviso con lei la stanza durante gli anni di Università. Erano una strana coppia, l’archeologa e l’astrofisico, ma andavano d’amore e d’accordo fin dal primo giorno. Entrambe avevano viaggiato molto negli ultimi tempi ma non si erano mai perse di vista e si sentivano ogni settimana con la puntualità di un orologio svizzero.
“Te lo posso assicurare. Te l’ho detto. Sono fuori di testa.” Garantì Margherita. “Forse ho bisogno di un po’ di distanza. Queste due settimane di separazione non possono che farmi bene.”
“Mi sa che il nostro Highlander di magnetico non ha solo lo sguardo. Sembri proprio cotta.” Dichiarò Sara soddisfatta.
“Sono pazza, vero? Devo stare qui fino a fine settembre. Sono a malapena quattro mesi. E poi? Dovrei stargli alla larga il più possibile e basta.”
“Marghe, non ci pensare neanche!” Disse con enfasi l’amica: “Guarda a questo incontro come a una chance. Sono ormai due anni che hai rotto con Giulio e ti sei buttata a capofitto nel lavoro. Non fraintendermi, ti capisco. L’ho fatto anche io. Ma adesso hai la possibilità di lasciare tutto alle spalle. L’highlander sa che sei lì solo per quattro mesi e non sembra che la cosa lo turbi più di tanto. Esci con lui, divertiti, goditi un po’ la vita e se son rose fioriranno, altrimenti ciccia. Sarà stata solo una bella avventura. Ma è un peccato lasciare intoccata quell’abbondanza di muscoli e terminazioni nervose che il tuo Adone sembra esibire con tanta grazia.”
“Ci penserò su.” Rispose Margherita: “E a te come va la vita a New York?”
“Va molto meglio, grazie!”
Margherita sorrise dell’entusiasmo di Sara. I primi mesi in America erano stati duri, lo sapeva bene. Nathan, il suo ragazzo, si stava a fatica riprendendo da un brutto infortunio alla spalla e non voleva più giocare come quarterback professionista ma aveva scoperto suo malgrado che ritirarsi dal campo e appendere il casco al chiodo non era così semplice come avrebbe desiderato. Nel frattempo Sara aveva iniziato un nuovo lavoro alla Columbia e aveva trovato un ambiente in parte ostile. “La stronza dei pianeti ha levato le tende?”, chiese.
“La planetologa polacca, intendi? Sì, per fortuna si è trasferita a Zurigo un paio di mesi fa. Non la reggevo più. Da quando se n’è andata si respira un’aria molto più rilassata da queste parti. Ma non cambiare discorso. Cosa farai adesso?”
Margherita sorrise suo malgrado. “Mi concentrerò sul lavoro e mi assicurerò di aprire il museo in tempo e con un’esposizione sensata. Poi, fra due settimane, ci penserò.”
“Giusto, una cosa per volta. Basta che quando Adone torna da Londra tu non te lo faccia scappare. Controlla bene cos’ha sotto il kilt, mi raccomando!”
“Non porta il kilt!” Esclamò inorridita Margherita: “O almeno non credo… dici che porta il kilt?”
“Spero di sì! Che scozzese è altrimenti? Mi raccomando, assicuratene! Ora devo andare ma ci sentiamo presto. Un bacione, bella!”
“Ciao, Sara, a presto!”

7
Sabato

Graham
Graham aspirò a fondo l’aria sottile della notte e si godette la nota salmastra e umida che proveniva dal mare. Nelle sere di bel tempo passeggiava spesso nel porto e lungo i moli. Il rumore delle barche cullate dall’acqua e le strida dei gabbiani erano i compagni perfetti per riflettere e rilassarsi. Queste sue passeggiate serali erano meglio di qualunque terapia, pensò guardando l’hotel di Bonnie, inizio e fine della sua camminata. Decise di fare un salto da Ewan per controllare come stesse la gamba. Si era fatto male al cantiere ma, testardo com’era, non si era preso nemmeno un giorno di malattia e sua moglie era preoccupata. Forse un buon whisky e una chiacchierata tra amici lo avrebbe dissuaso dall’andare al lavoro il giorno seguente. Chiuse gli occhi e fece una pausa. La leggera brezza che soffiava dalla terra verso il mare lo avvolgeva e lo faceva sentire in pace con se stesso e con il mondo.

Quella stessa pace era stata però sconvolta in modo inaspettato dall’arrivo della dottoressa Margherita Ricci. Aveva provato a togliersela di mente in tutti i modi ma sembrava essere ovunque in quel minuscolo paesino. Accidenti a lui per quando aveva deciso di rilevare lo studio medico. Avrebbe dovuto trasferirsi in una città a caso e godersene l’anonimato, invece di fare l’hippie che vive vicino al mare e vuole a tutti i costi una routine rilassata.

Era arrivata da poco. Una settimana, dieci giorni al massimo. E già non riusciva a smettere di pensare a lei,  di pregustare il momento in cui l’avrebbe rivista. Le mattine erano diventate infinite. Contava i secondi che lo separavano dal momento in cui avrebbe potuto varcare la soglia dello studio e andarsene a pranzo. Per uno scherzo del destino, infatti, la dottoressa Ricci aveva scelto lo stesso bar che lui frequentava da sempre e la incontrava puntualmente lì, al bar di Marinella, nella sua pausa pranzo. Da bravo stalker fingeva di essere assorto nella lettura mentre la ascoltava parlare nella sua lingua musicale con la barista. Non parlava italiano. Conosceva solo un paio di parole, per la maggior parte improperi imparati da colleghi sul campo, e Margherita non sembrava farne uso. Il tono dolce e sommesso che caratterizzava la sua voce lasciava volentieri spazio a una risata allegra e musicale che riempiva l’aria e il suo cuore. 

Più cercava di concentrarsi sulla rassicurante routine  giornaliera che si era creato negli ultimi anni, peggio sembrava andare. L’aveva persino incontrata al pub con Bonnie il martedì sera, quando usciva per una pinta con la sua ristretta cerchia di amici. John non l’aveva lasciata in pace un momento, avvolgendola in un fiume di ciarle come suo solito. La cosa l’aveva infastidito non poco, con suo stupore. Provare gelosia per una persona che non si conosce affatto è l’atto meno razionale a cui si possa pensare. Per non parlare del fatto che John era felicemente sposato con Felicity e che voleva solo essere cordiale. Cosa che lui non era riuscito a essere, si rammentò. Si era alzato bruscamente, aveva mormorato una scusa qualunque ed era andato a passeggiare sul molo per schiarirsi le idee. In perfetto stile teenager timido, quello che lui non era mai stato, tra l’altro. Il Graham diciassettenne che conosceva l’avrebbe deriso, probabilmente. L’avrebbe invitata uscire, con il fascino della sua spensieratezza, l’avrebbe sedotta e sarebbe andato avanti con la sua vita da adolescente senza macchia e senza paura.

Ora invece di macchie e di paure ne aveva fin troppe. O forse era troppo tempo che non faceva sesso e stava solo impazzendo per quel motivo. Era tanto che non faceva visita a Ian al suo club Vendome, a Edinburgo. Si tirò una pacca sulla fronte per scacciare immediatamente il pensiero di ciò che avrebbe potuto fare con la direttrice del museo se l’avesse portata lì. Senza successo.

Non si sarebbero fermati nella members’ lounge, questo era poco ma sicuro. Sarebbero immediatamente scesi al piano di sotto, ma non avrebbero ballato, non avrebbe potuto aspettare. L’avrebbe condotta per mano attraverso la sala dove la gente si muoveva come in trance al ritmo della musica, cibandosi dell’energia reciproca, della sensualità reciproca. Sarebbe riuscito a malapena ad entrare nella stanza prenotata per lui e a chiudere la porta a chiave. Non le avrebbe nemmeno dato il tempo per notare l’elegante scelta del mobilio o l’opulenza ricercata delle lenzuola di seta color crema e delle soffici coperte di lana che li avrebbero di lì a poco accolti sul letto. Le avrebbe coperto la bocca con la sua in un bacio appassionato.

Finalmente avrebbe conosciuto il sapore di quelle labbra piene e sensuali che lo tormentavano ogni volta che la vedeva. Finalmente avrebbe potuto infilare entrambe le mani in quei capelli castani, ricci e lunghi, che sembravano indomabili e le davano un’aria sbarazzina e intrigante al tempo spesso. Avrebbe finalmente potuto spogliarla e assaggiarne la pelle abbronzata dal sole della Sicilia, vederne il corpo tonico e morbido al tempo stesso. E… e l’avrebbero dovuto radiare dall’ordine. Ma come si può essere ossessionati a tal punto da una donna che si è vista solo un paio di volte e che sembra provare una sorta di repulsione nei tuoi confronti?

L’aveva persino intravista una mattina in cui preso dall’esigenza di calmare i suoi bollenti spiriti si era deciso dopo secoli ad andare a fare jogging.

Cambiare aria gli avrebbe fatto bene. Andare per un po’ a Londra non poteva che aiutarlo a rimettere le cose in prospettiva.   

“Aiuto! Aiuto!”
Una giovane donna correva verso di lui sbracciandosi.
“Dottor MacKay, aiuto!” Era Gwendolyn, la nipote dei custodi del museo cittadino. Le guance paonazze e gli occhi sbarrati tradivano uno stato di agitazione e paura.
Le mise una mano sulla spalla mentre lei riprendeva fiato e puntava un dito dietro di sé, in direzione dell’altra metà del porto.
“Gwendolyn, stai bene? Cosa è successo?” Chiese preoccupato.
“Non volevo!” Rispose Gwendolyn piangendo. “Sono appena uscita dal pub. Stavo tornando a casa dai nonni e c’erano dei ragazzi appena voltato l’angolo. Ero da sola e loro erano ubriachi. Hanno iniziato a dirmi cose oscene e mi hanno spinta contro un muro. Hanno iniziato a toccarmi e ho urlato. Allora è arrivata la dottoressa Ricci e mi hanno lasciata andare ma lei è ancora lì. Ha bisogno di aiuto!”
Non le lasciò nemmeno terminare la frase che già aveva il telefono in mano e stava chiamando Ross.
“Dove?”, le chiese soltanto.
Gwendolyn indicò nuovamente una parte del porto poco distante.
“Entra da Bonnie e non ti muovere da lì. Torno a controllare che tu stia bene tra poco.”, e così dicendo si mise a correre verso il punto da lei indicato.
“Ross, esci di casa in fretta, c’è un’emergenza, un’aggressione a due passi da te, nel porto, fuori dal pub. Chiama la polizia. Io sono lì tra un attimo.”
La trovò accerchiata da almeno cinque ragazzi, palesemente ubriachi e palesemente pericolosi. Non erano ancora riusciti a immobilizzarla. L’archeologa aveva in mano un pezzo di legno che brandiva a mo’ di spada. Era un pezzo di legno vecchio e fragile, consumato dall’acqua, che non avrebbe fatto male proprio a nessuno. Per fortuna quei criminali erano così ubriachi da non essersene accorti.
“Sembri un animale in gabbia. Dai, che ci divertiamo. Non fare la guastafeste.” Le disse uno di loro tra le risa sguaiate degli altri. Sfruttando la sua distrazione uno di loro la afferrò da dietro, seguito a ruota dagli altri. Il bastone cadde per terra con un tonfo sordo.
“Non sei di qui, vero?” Continuò l’uomo. “Da dove vieni? Dalla Spagna?”
“Mi piacciono le spagnole! Caliente!” Gli fece eco un altro, accompagnando le sue parole con un movimento esagerato del bacino. Un altro si avvicinò e le infilò una mano nell’elastico dei pantaloni mentre lei si divincolava cercando disperatamente di liberarsi dalla presa degli altri due. “Questi non ti serviranno per un po’”, disse sghignazzando minacciosamente.
La sua risata si spezzò bruscamente, non appena un calcio ben assestato lo raggiunse in mezzo alle gambe.

Graham approfittò del tumulto per entrare in azione e urlò a gran voce di lasciarla andare. Nello stesso istante arrivò Ross accompagnato da Joe, suo fratello poliziotto, e dal suono di una sirena in avvicinamento. Le grida e il rumore li distrassero a sufficienza perché Graham potesse raggiungere Margherita e assestare un pugno all’uomo che ancora la teneva bloccata. La prese per un braccio e corse via con lei, portandola al riparo dietro alla volante che era appena arrivata. Joe e i suoi due colleghi dichiararono i cinque uomini in arresto. Uno di loro sanguinava dal naso, che sperava di non aver rotto per non aver grattacapi legali, uno faceva smorfie di dolore, probabilmente per il calcio di Margherita e tutti e cinque si guardavano intorno con occhi vacui e aria confusa, come se non capissero cosa stesse succedendo.

“Non ti facevo pugile, dottor MacKay”, scherzò Joe mentre ammanettava l’ultimo degli aggressori.
“Uno sporco segreto dei miei tempi da studente a Oxford.” Ammise Graham senza distogliere lo sguardo da Margherita. Aveva le guance arrossate, gli occhi lucidi e lo sguardo fisso sulla volante della polizia.
“Non sono di qui.”, le assicurò.
E Joe aggiunse: “Sono di un paese vicino. Non è la prima volta che vengono a Eyemouth a ubriacarsi, ma è la prima volta che aggrediscono qualcuno. Dovrò chiederle di venire a fare una deposizione, dottoressa.”
“Può aspettare domattina, Joe. La dottoressa e Gwendolyn hanno bisogno di riposarsi.”, si intromise. Il poliziotto annuì comprensivo e la invitò a presentarsi in commissariato l’indomani.
“È stata coraggiosa.” Ross aveva appena telefonato a Bonnie per avvisarla che la sua ospite era sana e salva e la donna gli aveva raccontato di come si fosse esposta per difendere Gwendolyn e le avesse permesso di scappare e chiamare i soccorsi. “Non tutti avrebbero avuto il suo sangue freddo.”
“Per fortuna siete arrivati in mio aiuto.” Mormorò Margherita. “Non sapevo come reagire. È stato l’istinto a farmi intervenire per aiutare Gwendolyn, ma mi sono cacciata in un bel pasticcio.”
“Per fortuna si è difesa. Le hanno fatto del male?” Chiese con tatto il pompiere. L’attenzione di Graham si concentrò su di lei, su ogni piccolo gesto, ogni fremito delle labbra, come alla ricerca di segnali preoccupanti.
“No, non credo. Forse qualche graffio. Mi deve scusare.” Rispose Margherita con voce ferma: “Sono furibonda. Dovrei essere spaventata, immagino. Forse domani o stanotte mi accorgerò di quanto è successo e di quanto io abbia rischiato. Per ora sono solo furiosa. Erano in cinque contro una. Avevano spinto Gwendolyn contro un muro e le loro intenzioni erano più che chiare. E quando sono intervenuta io, invece di piantarla, hanno semplicemente deciso che una valeva l’altra.” Tremava per lo shock e la rabbia e Graham si offrì di accompagnarla a casa. Una volta giunti all’hotel vennero accolti da Bonnie che aveva preparato un tè bollente e un bicchiere di whisky per entrambi. Gwendolyn era sconvolta. Si era spaventata moltissimo e a ragione. Non si aspettava di venire aggredita così alle otto di sera nel suo quieto paesino e su una strada abbastanza bene illuminata.
“Per fortuna non è successo nulla.” Commentò calma Margherita, i cui nervi erano saldi come l’acciaio, come aveva appena potuto constatare. Nei cinque minuti a piedi che li separavano dall’hotel era riuscita a dominare lo spavento e la rabbia, o quantomeno a nasconderli in maniera impeccabile. Dopo poco Ewan accompagnò la ragazza a casa dai suoi nonni e Margherita dichiarò di volersi accomiatare. Bonnie gli lanciò un’occhiata eloquente, che lo minacciava di serie ripercussioni se avesse avuto il coraggio di lasciarla da sola. Graham si alzò con lei, prese i due bicchieri di whisky e la seguì fino al suo appartamento.
“Non sono certa che bere un superalcolico mi possa aiutare.” Commentò l’archeologa che non si era opposta alla sua compagnia.
“Credi al professionista del settore. Bere non aiuta mai a dimenticare. Ma in questo caso può aiutare i nervi del tuo povero medico a calmarsi un po’.” Ribadì Graham scherzosamente mentre posava i bicchieri sul piano dell’isola della cucina. Se l’era vista brutta. Se solo fossero arrivati con qualche minuto di ritardo… non osava pensare a ciò che le sarebbe potuto succedere.
Joe stava cenando a casa di Ross, che abitava a due passi dal luogo dell’incidente, quando Graham aveva chiamato e così erano potuti arrivare in tempo per aiutarlo. A volte la fortuna era dalla parte giusta.
“Se devo inferire qualcosa dalla mia breve esperienza scozzese, direi che questa città è un luogo molto pericoloso. Auto che prendono fuoco, bande di hooligans ubriachi che ti attaccano fuori da un pub, medici che ti istigano all’alcolismo…”
Quella ragazza era sorprendente. Riusciva a fare dell’ironia anche in quella situazione. Graham si gustò per un paio di secondi il sapore di fumo e di cuoio invecchiato del suo whisky preferito. Bonnie lo conosceva bene ed era un’ospite eccezionale. Non sbagliava un colpo.
“Non sono bravo in queste situazioni.” Ammise con onestà. “Ho un caro amico italiano, il collega che visiterò a Londra nelle prossime settimane, che saprebbe cosa dire e cosa fare adesso. Ti lascerò il suo numero di telefono. Io invece non so come reagire.” Fece una pausa e le si avvicinò con lentezza. “Vuoi che ti guardi quei graffi di cui hai parlato a Ross?”
“Non è niente.” Rispose Margherita scuotendo la testa. “Avrò qualche livido sulle braccia, probabilmente. Niente di più. Spero solo che non li rilascino tanto presto.”
“Con i precedenti che sicuramente hanno, due aggressioni con come scopo uno stupro di gruppo e numerosi testimoni a provarlo, ne dubito.”, rispose senza pensare Graham. La vide sobbalzare e chiudere gli occhi e si diede del cretino. Le si avvicinò ulteriormente e le sussurrò: “Sto per accarezzarti.” Lei annuì e tenne gli occhi chiusi. Le sfiorò delicatamente la guancia e vide le sue spalle rilassarsi appena.
“Sto per abbracciarti. Posso?”
Margherita non aprì gli occhi ma rispose: “Stringimi forte a te, per favore.” E così lui fece.

L’aveva tenuta stretta a lungo. Alla fine aveva ceduto alla stanchezza e allo spavento e aveva pianto tra le sue braccia. Lui l’aveva stretta ancora più a sé e l’aveva lasciata sfogare per tutto il tempo che le era servito per sentirsi meglio. Dopodiché l’aveva accompagnata in bagno, le aveva legato i capelli dietro la schiena e le aveva pulito il viso con una salvietta bagnata in acqua tiepida. Erano stati in silenzio per tutto il tempo, godendosi la quiete e la compagnia reciproca. Le aveva preparato una camomilla e si era rifiutato di lasciarla sola.
Dopo averle assicurato che i propri bagagli erano pronti e che non l’avrebbe incontrato l’indomani, si era preparato un letto di fortuna sul divano con un cuscino e una coperta di lana.


8
Dalla seconda alla quarta domenica di giugno

Margherita
Era andata a letto con un misto di incredulità, gratitudine, stanchezza e tristezza e al suo risveglio non l’aveva trovato. Su tavolo un bigliettino con un numero di telefono, un nome, Marco, e l’ordine perentorio: Chiamalo.

In un paese le notizie, si sa, viaggiano alla velocità della luce e così in breve tutti sapevano della coraggiosa archeologa italiana che aveva salvato Gwendolyn. Quella domenica ci fu un gran viavai dall’hotel. I nonni di Gwendolyn erano venuti a ringraziarla personalmente dopo che erano entrambe state al commissariato di polizia per la denuncia. La moglie di Joe era passata di prima mattina per assicurarsi che stesse bene, Felicity e John erano venuti per pranzo, Ross aveva telefonato dicendo che i bambini si erano svegliati entrambi con la febbre e che non sarebbero riusciti a passare ma che l’avrebbero fatto al più presto. Verso le due Bonnie decise che la sua ospite aveva bisogno di riposo e iniziò a invitare tutti a tornare nei giorni seguenti.

Nella sua tragicità, quell’esperienza servì per farla integrare nella comunità. La gente la fermava per strada mentre andava al lavoro e si presentava come avrebbe fatto con una celebrità. Venne persino a trovarla in ufficio il direttore della scuola locale, il quale la invitò a tenere un discorso su come sia importante mantenere la calma in situazioni così drammatiche e su come sia sempre essenziale denunciare alla polizia qualunque forma di aggressione o sopruso. Decise di accettare affinché da quell’esperienza, che dopo giorni ancora le disturbava il sonno, nascesse anche qualcosa di buono. Lo stesso affetto che circondava Gwendolyn si era riversato su di lei e ne era grata. Fece così la conoscenza di molte persone e si ritrovò invitata a numerose cene di famiglia.

Il tempo passava velocemente. Tra giornate fitte al lavoro e serate in compagnia aveva poche occasioni per pensare. Una di queste fu una domenica, due settimane dopo la sventata aggressione e più di un mese dopo il suo arrivo, quando decise finalmente di approfittare del giorno di chiusura del museo e prendersi una giornata di pausa per esplorare i dintorni di Eyemouth.

Aveva scelto il giorno perfetto, rifletté mentre scendeva dalla Polo presa a noleggio da Joe. E un’auto tedesca era quanto meno più sicura del catorcio che le avevano rifilato a Cambridge, si disse. Il sole splendeva nel cielo terso e donava alla brughiera un verde brillante punteggiato da spruzzi di erica viola. Il mare era calmo e le mille sfumature di blu venivano accentuate dal contrasto con la sabbia dorata da una parte e la roccia rossa ricoperta d’erba smeraldo dall’altra. Ross le aveva suggerito di iniziare il suo tour della Scozia dalla vicina Coldingham Bay e dal percorso costiero del Berwickshire e non poteva che essere contenta del suggerimento.

Una delle cose che più amava del proprio lavoro da archeologa era la solitudine. Solitudine nello studio e nella ricerca, soprattutto. Anche negli scavi poteva spesso godere di momenti di calma e riflessione. Sorrise pensando al periodo trascorso a Roma da studentessa. Lì non c’era calma. In compenso si era divertita tantissimo e aveva conosciuto molti colleghi, alcuni dei quali erano diventati amici fidati. Aveva poi deciso di dedicarsi allo studio del mondo greco e quindi non tornava spesso a Roma ma ricordava quel periodo con affetto. Si guardò intorno e si beò della solitudine che quella baia a soli dieci minuti di macchina da Eyemouth le offriva inaspettatamente. Il profumo del mare le riempiva le narici e la brezza leggera la avvolgeva come un abbraccio dispettoso e le scompigliava i ricci indomabili.

Le era sempre piaciuta la Scozia ma non avrebbe mai pensato di potervisi sentire a casa. Era arrivata da poche settimane e già sentiva che una parte di lei si struggeva all’idea di ripartire. La colpa era in buona parte attribuibile all’affascinante medico del paese, non lo negava, ma il lavoro da direttrice del museo la stimolava e la divertiva. Contro ogni previsione, lei, topo da biblioteca di quelli da record, aveva scoperto che le piacevano il contatto con il pubblico e il caos chiassoso e allegro delle scolaresche in visita. Le dava un senso di soddisfazione infinita poter assistere allo sguardo rapito di un bambino di fronte alla leonessa di pietra arenaria al piano terra e si era sinceramente divertita a raccontare a una signora anziana del ventaglio di epoca jacobita esposto ora al primo piano. Lei, nemica giurata dello small-talk, si lasciava coinvolgere in chiacchierate lunghissime dai visitatori del museo. Visitatori che tornavano, si disse compiaciuta. Originariamente aveva pensato di tenere chiuso il museo per tre settimane. Voleva essere certa di avere il tempo per imparare a conoscere le collezioni e provare un paio di soluzioni di allestimento diverse prima di prendere la decisione definitiva. Una volta messasi al lavoro, però, si era quasi immediatamente convinta che la soluzione ottimale potesse essere il seguire l’ordine cronologico. A volte le soluzioni più semplici sono anche le più efficaci. Gwendolyn era stata un’assistente fantastica e in poco tempo avevano riorganizzato tutto il museo rinnovando la presentazione dei reperti. L’aggressione che avevano subito al porto aveva accelerato la riapertura al pubblico, dato che ricevevano numerose visite di persone preoccupate per la loro salute ogni giorno. Aveva quindi deciso di lasciare entrare tutti coloro che fossero interessati al museo o alle loro vicissitudini. In una settimana e mezza avevano ricevuto moltissime visite e altrettante donazioni. A questo punto doveva solo decidere cosa fare con la collezione misteriosa e avrebbe già fatto buona parte del lavoro che si era prefissa di portare a termine durante la sua sostituzione al dottor MacLachlan.

La passeggiata lungo il mare e sulla spiaggia era ristoratrice. Ci sarebbe tornata volentieri con Graham. Non sapeva per quanto tempo sarebbe stato a Londra, né aveva un suo contatto ma era ormai decisa a esplorare la possibilità di una relazione, lunga o breve che fosse, con quell’uomo dal sorriso e dal comportamento disarmante. Invece di lasciarle il proprio numero di telefono, le aveva lasciato quello del giovane vice primario del reparto di psichiatria dell’ospedale universitario londinese. Senza dirglielo, ovviamente. Dopo averne discusso a lungo con Sara e aver sviscerato tutti i possibili scenari, entrambe erano giunte alla conclusione che questo collega di Londra fosse uno psicologo e che fosse una reazione un po’ eccessiva da parte di Graham, ma erano d’accordo sul fatto che un uomo premuroso fosse attraente. Quindi si era decisa e lo aveva chiamato. Quando le aveva risposto al telefono, era scoppiato a ridere.

“Tipico di Graham.”, aveva detto con voce allegra. E si era presentato passando immediatamente a parlare italiano. Marco Albani. Neuropsichiatra di Padova, da dieci anni a Londra.
“Devo essergli sembrata un caso disperato.” Aveva commentato la ragazza tra l’imbarazzato e il divertito.  “Sai quando ti dicono che ti serve uno bravo?” Aveva riso di gusto. “Non è stato così drammatico, davvero.” Iniziò subito a schermirsi.
L’amico di Graham doveva essere bravo sul serio perché nel giro di pochi minuti gli aveva descritto a grandi linee cosa era successo al porto, gli aveva raccontato in quale rapporto fosse con Graham e gli aveva spiattellato la triste quanto banale fine della propria storia con Giulio, il noiosissimo avvocato di Bologna che si era rivelato essere un traditore seriale. Sara l’aveva messa in guardia, gli aveva detto, ma non le aveva dato retta. Al sentire pronunciare il nome di Sara il medico era sembrato sorpreso e Margherita si era accorta di avergli rovesciato addosso una marea di informazioni difficili da sgarbugliare. Aveva iniziato a scusarsi ma lui l’aveva interrotta subito.
“Non pensarci neanche. È tutto più sensato di quanto tu non creda al momento. Facciamo così: chiamami domani all’una e mezza e ricominciamo da qui.” E così aveva fatto. Lo chiamava ormai da una settimana e mezza. Parlava con lui di tutto ciò che le passava per la mente, un quarto d’ora al giorno per sviscerare problemi, raccontarsi del tempo e della vita in Gran Bretagna.

Il giorno prima si era come risvegliata da una trance.
“Ma non gli racconterai mica di quello che ti sto dicendo, vero?”, aveva chiesto cercando disperatamente di ricordare se gli avesse confidato pensieri bizzarri o eventi imbarazzanti e dandosi cordialmente della scema.
La risposta l’aveva tranquillizzata: “Non sa che mi chiami e non lo saprà mai, se così vorrai. Per quanto riguarda il contenuto delle nostre conversazioni, le mie labbra sono sigillate, puoi fidarti di me.”
“Puoi dirgli che ti ho chiamato. È stato lui a darmi il tuo numero dopotutto. Solo mi fa strano chiacchierare con uno psichiatra.”
“Pensa a me. Da giorni parlo con un’archeologa.” Dopo aver riso di cuore, aveva aggiunto con dolcezza: “Non pensare al mio titolo o al mio lavoro. Non sono certo il tuo psichiatra. Non sei malata. Hai solo bisogno di parlare con un estraneo, qualcuno che non ti conosca da tempo e che non abbia già un’opinione su di te.”
“Non hai un’opinione su di me?”, si era ritrovata a chiedere con stupore.
“Mi stai simpatica.”, le aveva risposto con il sorriso nella voce.
“È già qualcosa.”, aveva ribattuto lei. “Anche tu mi stai simpatico.”
“Ne sono lieto. Perché non mi richiami domani a quest’ora e continuiamo la nostra conversazione?”, le aveva chiesto. E così decise di fare. Stese un telo sulla sabbia e si sedette con i piedi nudi a toccare la sabbia dorata.

“Buongiorno.”, esordì. “Ti sto chiamando da una spiaggia semideserta negli Scottish Borders.”
“Non sai come vorrei essere lì in questo momento.”, rispose la voce calda e tranquilla di Marco. “Ho passato una notte d’inferno in reparto. Sembrava che fossero tutti impazziti.”
“Sei tu che lavori in Psichiatria, non io.”, rispose non riuscendosi a controllare Margherita. Lo sentì esplodere in una risata franca.
“Hai ragione anche tu. Me la sono cercata.”, e continuò a ridere.
“Preferisci che ti richiami domani?”, chiese con tatto: “Non vorrei disturbarti.”
La risposta non si fece attendere: “Oh, ma non mi disturbi affatto. Queste nostre brevi chiacchierate quotidiane sono diventate un appuntamento imperdibile. In reparto ti chiamano “la mia una e mezza” e mi lasciano in santa pace per quindici minuti. Credimi, quando e se smetterai di chiamarmi, fingerò per giorni che tu mi stia chiamando lo stesso, solo per avere un po’ di quiete.”
“Oggi è domenica, però. Sei sicuro di non volere del tempo per te?”
Dopo un breve silenzio, Marco le chiese: “Cosa non mi stai dicendo, Margherita? O meglio, cosa vorresti non dirmi?”.
Diamine, è davvero bravo come dice Graham, pensò la ragazza arricciandosi nervosamente una ciocca di capelli attorno a un dito e fissando un gabbiano che volava alto nel cielo.
“Niente di speciale.”, iniziò titubante: “Ho solo fatto un incubo ieri notte e mi sono svegliata nel panico. Non è esagerato? Insomma, alla fine non è successo nulla.”
“Raccontami di questo incubo.”, le chiese lui senza farsi dirottare dalle sue elucubrazioni.
“Ho rivissuto quello che è successo al porto. Solo che non è arrivato Graham e nessuno ha fermato quei… non so nemmeno come chiamarli… bulli? E… sì… insomma, sono andati a fondo con le loro minacce.”
Lo sentì prendere fiato dall’altra parte della cornetta: “Margherita, è più che normale fare degli incubi. Il tuo cervello sta rielaborando quello che è successo. Dici che non è successo nulla, ma ti sbagli. Quello che è successo è che Gwendolyn è stata aggredita sotto casa, tu sei intervenuta in suo soccorso, salvandola, e così facendo hai messo te stessa in pericolo. Sei stata generosa e avventata e il tuo corpo ti sta mettendo in guardia. È stata un’esperienza intensa e traumatica in cui ti sei dovuta difendere, hai dovuto fare i conti con il terrore più che giustificato di venire stuprata o uccisa. Non minimizzare ciò che è accaduto. So che la parte razionale di te vuole farlo, è comprensibile, ma devi dare tempo a tutta te stessa di abituarsi all’idea.”
“Quale idea?”, chiese con un filo di voce.
“L’idea che degli uomini ti abbiano immobilizzato e minacciato, giusto per dirne una. Non è facile accettare l’idea che qualcosa ci venga fatto senza il nostro consenso. È per questo che io non li chiamerei bulli, ma aggressori. Bullismo è una parola che viene usata per identificare degli atti violenti compiuti da bambini o da giovani. Ma si rischia di sminuirne la portata. Invece dovremmo iniziare a parlare di quello che realmente è: violenza, desiderio di sopraffazione, malvagità. Una brava persona non fa certe cose, né le dice. Nemmeno sotto l’effetto dell’alcool.”
“È successo anche a te?”, la domanda le uscì di bocca così rapidamente da non darle il tempo di pensare. Filtro, mai che usi quel maledetto filtro, si ammonì.
Ci fu improvvisamente silenzio dall’altro capo del filo.
“Scusami,” provò a rimediare.”Non sono affari miei. Non volevo…”
“Non scusarti.”, la rassicurò il medico con gentilezza. “Ti sto facendo domande personali da quasi due settimane. Non c’è ragione perché non me ne faccia anche tu.”
“Non devi dirmi nulla.”, ripeté Margherita. C’era qualcosa nella voce di Marco che la rendeva cauta.
Marco rise e rispose: “Vedi, la mia circospezione è uno dei problemi di un medico. Tu mi puoi raccontare ciò che vuoi e so che non andrò a dirlo in giro. Ne va della mia deontologia. Ma come posso fidarmi di te?” Era una domanda retorica e Margherita non lo interruppe: “Siamo un gruppo di snob, noi medici. Vero? Ad ogni modo, sì, per rispondere alla tua domanda. Mi è successo. È stato l’evento più traumatico della mia vita e se posso parlarne con calma oggi lo devo soprattutto a Graham. Quell’uomo ha l’abitudine di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Ci conoscevamo solo di vista e ci rispettavamo come colleghi ma è così che siamo diventati amici. Un giorno forse ti potrò raccontare l’intera vicenda. O forse te lo racconterà Graham. Chiedigli pure di farlo, se vuoi. Per ora, sappi che capisco come ti senti e che la tua reazione non è esagerata. In compenso, ti posso assicurare che passerà e che ti rialzerai più forte di prima.”
“Quando smetterò di avere degli incubi?”, gli chiese.
“È l’approccio corretto. Chiedere quando, non se. Perché smetterai di avere incubi e non credo ci vorrà molto. Datti tempo e vedrai che passerà. Ora raccontami di questa spiaggia da sogno dove ti trovi e fammi morire d’invidia.”


9
Primo venerdì di luglio

Graham
Graham gettò nuovamente lo sguardo all’orologio e scosse il capo. I suoi colleghi a Londra l’avevano convinto a restare per una settimana più del previsto, così da poter seguire un corso di aggiornamento guidato da un luminare americano. A malincuore aveva accettato ma aveva passato ogni momento libero di ogni giorno a pensare a Margherita, l’affascinante archeologa che aveva sconvolto la sua vita con il suo arrivo a Eyemouth. Se gliel’avessero detto un mese prima non ci avrebbe creduto. Prendersi una cotta del genere non era proprio da lui. Perché era evidente che si fosse preso una cotta, la peggiore che si ricordasse, tra l’altro. I sintomi c’erano tutti: palpitazioni, respiro irregolare, mani fredde, farfalle nello stomaco, euforia. Aveva persino inciso sulla sua professionalità. Lui, che non si faceva mai distrarre da nulla, che riusciva a mantenere il controllo e il sangue freddo‚ in qualunque situazione. Aveva operato sotto le bombe, diamine! E invece con lei si era comportato come uno studentello alle prime armi.

Era stato adulto a sufficienza da decidere di compiere il suo dovere e controllare se stesse bene. E invece di andarci con calma, si era praticamente dichiarato a lei dopo sì e no mezz’ora trascorsa insieme. Per sua fortuna, la biochimica era dalla sua parte e Margherita sembrava sentire la stessa potente attrazione che lui provava nei suoi confronti. Almeno si era risparmiato una figuraccia, pensò. Era stato quasi un sollievo poterle dire che sarebbe stato via per due settimane. La lontananza lo avrebbe aiutato a rimettere le cose nella giusta proporzione, aveva pensato. Ora, dopo tre settimane, poteva tranquillamente dire che non era servito a un bel nulla, se non a farlo impazzire ancora di più.

Di solito era entusiasta quando veniva a Londra. Una metropoli brulicante di vita che ti entra dentro non appena arrivi e ti fa suo. Potevi sempre sentire la sua energia scorrerti nelle vene, un umore denso e pulsante che si nutriva di te e ti nutriva. Di giorno in corsia e la sera per musei, teatri e pub. Londra non dormiva mai. Nemmeno lui dormiva, soprattutto a causa dei turni massacranti che si faceva in ospedale. Il suo amico Marco era un despota e lo faceva caricare di lavoro come un mulo quando veniva in città.

A dire la verità, gliene era grato. I casi che vedeva a Eyemouth erano quasi spesso banali e non riusciva a passare all’ospedale di Edimburgo più di un giorno o due alla settimana.  Avrebbe potuto tornare nella sua città natia a lavorare a tempo pieno, questo lo sapeva. Il primario del pronto soccorso glielo aveva offerto più volte e i suoi genitori sarebbero stati al colmo della gioia, sapendo che finalmente aveva messo la testa sulle spalle e aveva deciso di tornare a vivere nella capitale. Finora però non era riuscito a decidersi. Manteneva buoni rapporti con molti medici sia a Edimburgo che a Londra che a Oxford e avrebbe potuto andare ovunque volesse. Era maledettamente bravo nel suo lavoro ed era maledettamente bravo a insegnare ad altri. Per questo erano tutti molto comprensivi con lui e gli perdonavano l’eccentrica scelta di lavorare per metà settimana in un paesino sperduto sul mare. Un giorno forse si sarebbe trasferito, si disse. Un giorno forse avrebbe trovato la forza di ritornare a vivere in una grande città ma per ora si godeva la rassicurante tranquillità di Eyemouth, con la visita del lunedì mattina alle 8 alla signora Robertson che gli offriva il tè prima di andare all’ambulatorio e la visita del mercoledì sera al signor Reid prima del viaggio verso Edimburgo dove si faceva un turno di trentasei ore filate. La sua vita era scandita da un ritmo prevedibile e tutto sommato quasi rilassato.

“Sei proprio cotto a puntino.” Lo aveva preso in giro Marco la sera precedente davanti a un buon bicchiere di Laphroaig, il suo whisky preferito. “Non ti ho mai visto così distratto.”, aveva aggiunto ridendo il suo amico italiano. “Hai sentito anche solo una parola di quello che ti ho detto?” Graham aveva dovuto ammettere di essersi perso una buona parte del racconto. Marco aveva rotto con il suo ragazzo, un famoso chef e un uomo divertente e attraente come non mai, un anno e mezzo prima. Erano rimasti in ottimi rapporti, per fortuna. Era difficile trovare qualcuno più piacevole di Dan. Ma, come spesso succede, non cercavano la stessa cosa. Erano ora buoni amici. Finalmente Marco aveva trovato un partner che soddisfaceva del tutto le sue esigenze. Avevano appena festeggiato il loro primo anniversario e Marco era al settimo cielo per la felicità.
“No, non ho sentito molto, lo confesso.” Aveva risposto divertito: “ma non credo che te ne importi. Si vede lontano un miglio che Will soddisfa tutte le tue più astruse perversioni sessuali.”
“E gli piacciono anche gli stessi film!” Aveva confermato ridendo Marco. “Senti, ma questa ragazza che ti ha rubato il cuore l’hai sentita in questi giorni?”
Aveva riso impacciato: “Mi credi se ti dico di non avere il suo numero? Né la sua email?” Aveva poggiato la fronte sulla mano aperta e aveva aggiunto: “Sono un caso disperato, vero? Per anni ho rincorso soltanto il sesso sicuro e occasionale ed ecco che la vita mi presenta il conto. Mi sto comportando da adolescente.”.
“Non dirlo nemmeno per scherzo!” Immediatamente Marco si era fatto serio, il bel volto addolcito da un sorriso fraterno: “Graham, dopo quello che hai passato, è comprensibile che tu non ti volessi lanciare nella mischia dei rapporti d’amore. E, credimi, ci comportiamo tutti come adolescenti.”
“Quello che fai tu, non lo fa nessun adolescente.” Lo canzonò. Era un gioco innocuo tra loro, punzecchiarsi a vicenda sulle rispettive abitudini sessuali. Marco era un sub rodato e sapeva ciò che cercava in un dom e Graham era tutto fuorché inesperto quando si parlava di sesso.

“Spero proprio di no!” Aveva esclamato Marco fintamente inorridito: “Hai ragione, faccio cose che sono di certo inadatte agli adolescenti ma mi devi credere se ti dico che quando si tratta di sentimenti… È tutto diverso. Con Will mi sentivo un ragazzino alle prime armi, non saprei descriverlo meglio. Era tutto più intenso di come l’avevo sperimentato prima di allora. Con Dan avevo un rapporto meraviglioso ma non è mai stato così profondo. Con Will sento sempre un’energia violenta ardermi nelle vene, alterno momenti in cui mi sento sull’orlo del precipizio a momenti di straordinaria domesticità. E tutto questo sentendomi sempre al sicuro. Capisci ciò che voglio dire?”

“Intendi dire che non pensi sempre e solo a scopare?” Aveva domandato con studiato aplomb.
Marco era scoppiato a ridere fragorosamente, aveva bevuto un sorso del suo whisky e aveva ammesso di pensarci sempre: “Ma con una profondità diversa. Lo guardo e so che voglio passare il resto della mia vita con lui.”
“Fai quasi paura.” Aveva ammesso Graham. “Non posso nemmeno immaginarmi un sentimento del genere, è terra sconosciuta per me.”
“Prenditi il tempo che ti serve, amico mio. Credimi, se quello che provi per la tua archeologa è dello stesso stampo, lo saprai molto presto.”
Finalmente l’ultimo giorno della sua visita londinese era giunto e aveva potuto lasciare la città e con essa il suo amico Confucio.

*****

Ci aveva messo più del previsto. L’aereo da Londra a Edimburgo era riuscito a collezionare un ritardo record di tre ore che, su un’ora al massimo di viaggio effettivo, sono un numero di tutto rispetto. Per fortuna non aveva trovato traffico, si disse mentre varcava il portone rosso del museo. James gli aveva raccontato che la scelta di quel colore era stata argomento di dibattito in città per settimane dopo la ristrutturazione che aveva organizzato anni prima. Gli abitanti di Eyemouth non amavano le novità, ma l’originale color grigio topo non era stato una perdita insopportabile per la maggior parte della popolazione. A dire la verità non erano poi così conservatori. I suoi concittadini erano stati sorprendentemente aperti nei suoi confronti quando si era trasferito lì e lo erano con tutti i forestieri che chiamavano Eyemouth casa. Marinella gli aveva raccontato di quanto l’avessero aiutata quando con suo marito e i figli piccoli si era trasferita lì dalla Puglia. Avevano aiutato i bambini a imparare la lingua e lei e il marito ad ambientarsi in pochissimo tempo. Lo stesso avevano fatto con lui quando aveva sostituito l’anziano medico del paese anni prima. C’erano un paio di vecchiette che l’avevano guardato con sospetto per un paio di mesi ma ora era acqua passata. 

Sorrise vedendo la nipote dei custodi affaccendata all’ingresso. “Buonasera, Gwendolyn. Sono ancora in tempo per la visita guidata?” Chiese alla giovane guida.
“Mi dispiace, dottor MacKay, il museo chiude tra poco. Lunedì ci sarà un’altra occasione per visitare la nuova esposizione.”
“Allora tornerò lunedì.” Promise il medico. “La dottoressa è nel suo studio?”
“Sì. Di solito resta per un po’ dopo la chiusura.” Assicurò la ragazza. James aveva fatto bene a darle fiducia. Era disciplinata, curiosa, interessata e decisamente meglio organizzata di molte ragazze della sua età.
Margherita aveva lavorato intensamente in quelle tre settimane e il frutto del suo lavoro traspariva al primo sguardo. Doveva aver scelto di seguire un percorso cronologico nell’esposizione perché la sala centrale al pianterreno era dedicata ai reperti archeologici e dominata da una gigantesca statua di un leone intento a sbranare un uomo. Graham salì al primo piano e si diresse verso l’ufficio del direttore.
Margherita stava ancora lavorando e non si accorse per un po’ che la stava osservando dalla porta. Era chinata con la testa su un libro spesso come un mattone e dalla stessa probabile consistenza.
“Stai ancora cercando informazioni su improbabili rappresentazioni falliche?”
“Ah, non te lo dimenticherai mai, vero?” Fece lei scoppiando a ridere. Era stanca ma sembrava soddisfatta.
“Hai tempo per mostrarmi quella stanza di cui mi parlavi?” Aveva riflettuto a lungo durante la sua assenza da Eyemouth e aveva discusso per ore, se non per giorni, dell’attraente archeologa italiana con Marco. D’altronde quella vecchia volpe faceva lo strizzacervelli di lavoro, non ci provava nemmeno più a tenergli nascosto qualcosa. Dopo avergli dato del paranoico e del cervellotico un centinaio di volte, gli aveva detto di smetterla di farsi film mentali e di iniziare a vivere la sua vita. Tanto valeva dargli retta per una volta.
“Sì, perché no? Tanto il museo ora è chiuso. Continuerò domani.” Rispose allegramente Margherita raddrizzando le spalle e cercando di sciogliere la tensione accumulata durante il giorno. Era bellissima, e non sapeva di esserlo. I ricci ribelli le ricadevano sulle spalle e incorniciavano il viso ovale illuminato dallo sguardo profondo e intelligente degli occhi color nocciola. La giacca chiara, dal taglio maschile, sottolineava il suo stile sportivo ed elegante e i jeans scuri che le fasciavano le gambe assicuravano un tocco di femminilità. Lo condusse al piano interrato e aprì una porta di legno scuro.
“Vedi?” Spiegò indicando i manufatti esposti in bell’ordine nella stanza del mistero. “È una strana combinazione di strumenti di tortura e di oggetti dalla forma fallica.”, aggiunse corrucciando la fronte spaziosa.

Graham scoppiò in una risata fragorosa prima di chiarire: “Scusa, non volevo ridere ma conosco questa stanza. Ne ho discusso a lungo con James, mi aveva chiesto un parere personale al riguardo. È una collezione destinata a fare scalpore e non riusciva a decidersi sul da farsi. Non si tratta di strumenti di tortura, ma di piacere.”
“Ma se questi sono ceppi!” Esclamò Margherita perplessa mostrandogli delle spesse ganasce di legno preposte al bloccaggio dei piedi e delle mani di un prigioniero.
“Sì, questi sono ceppi e quello è un birching table. Sai di cosa si tratta?” Confermò Graham.
Margherita scosse il capo in segno di diniego.
“È un tavolo per la fustigazione con un fascio di ramoscelli di betulla, salice o nocciolo privati di foglie. Nel Regno Unito la fustigazione è stata usata come forma di punizione corporale fino alla fine degli anni ’40 e sull’Isola di Man addirittura fino a metà degli anni ’70. Il birching table era un dispositivo usato soprattutto in Scozia. Aveva due fori all’altezza delle braccia e una cinghia per bloccare il condannato sopra la vita. Il resto del corpo era libero.”
“Ah, l’apoteosi del romanticismo, vedo.” Commentò Margherita beffarda.

Graham rise di gusto. “Vedo che capisci. Questi implementi appartenevano a una dama di Edimburgo che aveva un bordello specializzato in flagellazione e punizioni di vario tipo.  Vennero trasportate a Eyemouth da un nipote alla sua morte e sono passati di generazione in generazione fino a che non vennero donati al museo. Quello che vedi là è una versione del cavallo di Berkley, una specie di tavolo da flagellazione di epoca vittoriana, quell’altra è una panca da spanking ante litteram. Da quella parte puoi ammirare una collezione di falli di svariati materiali, vetro, ceramica, pietra. Ognuno con diametri e lunghezze differenti e con propositi differenti.”

“Interessante.” Fece Margherita aggirandosi con curiosità per la stanza e osservando da vicino i vari manufatti. “È una collezione a dir poco singolare ma incredibilmente ben conservata e gli implementi, come li hai chiamati tu, sono di ottima fattura, con intarsi e materiali semipreziosi. Sarei curiosa di sapere se ci sono anche lettere che documentino le attività di questa dama. I suoi clienti devono essere stati persone abbienti.”
“James ha delle lettere da qualche parte, mi sembra di ricordare.” rispose Graham. “I clienti facevano parte dell’alta borghesia e dell’aristocrazia scozzese.” E dopo una breve pausa aggiunse: “Ciò che più mi stupisce è il fatto che tu reagisca a queste informazioni come se stessimo parlando del più e del meno e non di qualcosa di pruriginoso e tabù.”
“Ah, capisco. Dovrei arrossire come una scolaretta e possibilmente scappare da questa stanza a gambe levate, vero?” Ribadì divertita l’archeologa. “Devo ricordarti di essere specializzata in storia antica e archeologia, dottore? Credi che una manciata di dildi colorati e un paio di tavoli dove dei vittoriani bacchettoni si stendevano per farsi sculacciare mi metta a disagio forse? Si vede che non hai idea di cosa combinassero gli antichi.” E scoppiò a ridere, seguita da Graham.
“No, hai ragione, non ne ho idea. Non nel dettaglio per lo meno. So che i Greci erano più rilassati di noi in quanto a morale sessuale, o così credo di ricordare.”

“Trovo sempre difficile discutere questo argomento.” Rispose Margherita con serietà: “Il problema che abbiamo noi è che tendiamo a fare raffronti tra ciò che riteniamo etico oggi e ciò che veniva accettato nelle diverse culture antiche. C’è sempre l’enorme rischio di incorrere in un giudizio anacronistico e antistorico. La nostra morale è completamente differente da quella degli antichi Greci, ad esempio. Pensa solo al modo di considerare i rapporti sessuali tra uomini e ragazzi o tra uomini e donne. Un ragazzo poteva decidere di concedersi a un adulto degno di stima e questo rapporto veniva considerato non solo naturale ma anche fonte di elevazione per il ragazzo e la sua istruzione. Se decideva di non concedersi veniva altresì stimato. Il rapporto con una donna era invece visto come meramente volto alla procreazione, come qualcosa di più animalesco e meno spirituale. Ora, i rapporti con bambini e fanciulli sono una follia e un’aberrazione se li guardi dalla prospettiva odierna. E onestamente sono lieta che la pedofilia sia vietata per legge, ma se tu avessi chiesto a Socrate o ad Aristotele, avrebbero sicuramente difeso il loro approccio all’amore.”

“Non consideravano l’interesse per un sesso o per l’altro un identificatore sociale.” Riassunse lui.
“Esattamente. Ciò che contava era il ruolo all’interno della coppia. L’essere passivi o attivi sia nel rapporto che nell’atto sessuale vero e proprio era il criterio dominante in un rapporto e si rispecchiava nello status sociale dei partecipanti.” Spiegò Margherita convinta mentre osservava più da vicino i vari dildi.
“E tu?” Le chiese Graham abbracciandola da dietro e sussurrandole all’orecchio: “Qual è il tuo ruolo preferito? Passivo o attivo?”

10
Venerdì

Margherita
Tutto il fiato le abbandonò istantaneamente i polmoni. 
Per sua fortuna, la sua amica Sara aveva ragione. Quando si trattava di parlare non era seconda a nessuno. Avrebbe dovuto fare l’avvocato, si disse. Avrebbe guadagnato di più e non si sarebbe trovata in certe situazioni. Fece un respiro profondo per ritrovare la calma e replicò: “E se mi piacessero entrambi?”
Lo sentì ridacchiare divertito. “Non mi dispiacerebbe.” Le sussurrò nuovamente all’orecchio: “Mi piace l’idea di dare e ricevere.”

Come non detto, l’affascinante medico scozzese l’aveva battuta al suo gioco. Il cuore ricominciò a battere all’impazzata nel petto e l’immaginazione volò. Se lo vide legato mani e piedi al suo letto, nudo e ansante, lo sguardo leggermente velato dall’euforia e dall’eccitazione. Si sarebbe presa tutto il suo tempo. Lo avrebbe tormentato con calma, a lungo, partendo dalle guance ruvide, scendendo lungo il collo fino alla clavicola e ai capezzoli per poi strofinare le guance sul suo petto e… Quest’uomo aveva la capacità di stimolare la sua fantasia come nessuno prima. Non aveva nemmeno mai pensato che un uomo legato a un letto potesse essere sexy ed eccola qua, moderna Dominatrix, a pianificare una notte tutto fuorché innocente.

Una mano le accarezzò i capelli: “Qualcuno sta viaggiando con la fantasia.”, rise sommessamente Graham: “Perché non rendi partecipe delle tue elucubrazioni anche il resto della classe, dottoressa Ricci?”

Margherita si liberò dal suo tocco virile e si voltò verso di lui facendo un passo indietro. Ogni centimetro di distanza le permetteva di pensare con maggior chiarezza. Al diavolo quel suo profumo da uomo, da cos’era distillato? Agrumi, sandalo e feromoni allo stato grezzo? Qualcuno doveva fare qualcosa! Una protesta nelle piazze per renderlo illegale, per esempio! 
“D’accordo, Casanova. Facciamo un bel respiro e ricominciamo da capo. Come è andato il viaggio?”.  Si lanciò convinta nel tentativo di riacquistare il suo solito autocontrollo.
Graham scoppiò a ridere. “Troppo intenso?”, chiese.
“Da cosa l’hai intuito?” Margherita si unì alla risata.
“D’accordo, dottoressa.” Disse il medico ridendo e prendendole la mano. “Hai voglia di unirti a me per cena? Anne cucina benissimo.”
“Chi è Anne?”, domandò Margherita confusa dall’inversione di rotta improvvisa.
“Non vedo l’ora di presentartela.” Assicurò Graham con convinzione.

Anne era la proprietaria del ristorante più chic della città, con vista sul porto e a due passi dall’hotel di Bonnie. Il menù cambiava tutti i giorni, a seconda della disponibilità di materie prime e dell’umore della cuoca. Si poteva scegliere sempre tra due primi, una zuppa e una pasta, due secondi, un piatto di carne o di pesce e uno vegetariano, un contorno sempre rigorosamente di stagione e un dessert. Il marito di Anne, Joe, li accolse con calore al loro arrivo e prese le loro giacche. Il ristorante era intimo e accogliente, arredato con un gusto tipicamente nordico che ben si addiceva all’imponente vetrata che dava sul porto e sui moli. Margherita contò una decina di tavoli, incluso quello accanto alla finestra verso il quale vennero condotti da Joe. Al suo sguardo inquisitore Graham rispose che aveva un tavolo riservato per lui tutti i venerdì sera. Teneva aperto lo studio dal lunedì al mercoledì. Il giovedì e il venerdì lavorava quasi sempre all’ospedale di Edimburgo e il sabato era il suo giorno libero. Quando non rimaneva bloccato in corsia, si godeva una cena rilassata con vista mare da Anne e Joe. Anne lo viziava con i suoi manicaretti e gli preparava sempre il suo dolce preferito, la crostata di ricotta e cioccolato.

“Non è molto scozzese come dessert.” Commentò Margherita, divertita da questa ammissione. “Anzi, è piuttosto italiana come scelta.”
“Anche la ricetta è italiana.” Spiegò serio Graham. “Me l’ha data la madre di un collega di Napoli. L’ho conosciuta durante un breve soggiorno in Sicilia con Medici Senza Frontiere. Una donna fantastica, con un dono: sa fare delle torte pazzesche. Era venuta a trovare suo figlio e si è portata dietro questa meraviglia. Non posso più vivere senza. Un paio di anni fa Anne mi chiese quale fosse il mio dolce preferito e io le diedi la ricetta. Da allora me la prepara tutte le settimane. Ormai i suoi clienti si sono abituati e la ordinano sempre il venerdì.”, dichiarò quasi con timidezza, le mani incrociate davanti a sé e lo sguardo fisso sulle sue dita affusolate.

Margherita si perse ad osservare le sue mani curate e maschili, le vene in evidenza sul dorso magro. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa si provasse a vivere le esperienze che aveva vissuto lui. Le scene di guerra che passavano al telegiornale, lui le aveva viste dalla prima linea. Aveva assistito pazienti che avevano subito atrocità inimmaginabili, a volte vincendo, a volte perdendo. Quando si era iscritta all’Università, la possibilità di iscriversi a Medicina non le era passata nemmeno per l’anticamera del cervello. Non faceva per lei. Significava avere sempre a che fare con persone che stavano lottando. Contro una malattia inguaribile, contro se stessi, contro un malessere tale da sentire il bisogno di chiedere aiuto a un medico. Bisognava avere tatto e comprensione e, allo stesso tempo, bisognava essere armati di una corazza d’acciaio per poter andare avanti, senza lasciarsi distruggere da ciò che si vedeva ogni giorno. In più bisognava prendere decisioni a volte irrevocabili, e alla svelta. Quell’uomo che si stava godendo un piatto di pasta all’amatriciana davanti a lei non solo aveva scelto come specializzazione Medicina d’Urgenza (e lo dice il nome che non hai tanto tempo per decidere cosa fare), ma aveva dedicato anni della sua vita ad aiutare persone nelle situazioni più precarie e pericolose. E invece di essere un pallone gonfiato - avrebbe potuto esserlo con tutte le cose che aveva fatto e sapeva fare - eccolo lì a combattere il demone dei sensi di colpa. Una colpa inesistente, tra l’altro.

“Come ti senti?”, le chiese all’improvviso risvegliandola dalle sue riflessioni. Non c’era bisogno di preamboli, sapeva a cosa si riferiva.
“Meglio, grazie. Parlare con Marco in questi giorni mi ha aiutato molto. Non ho più incubi ormai.” Una mano si poggiò sulla sua. Dallo sguardo stupito che incontrarono i suoi occhi le fu chiaro che Marco non gli aveva detto nulla. “Non sapevi degli incubi?”
“No.”, disse dispiaciuto: “E non sapevo che parlassi con Marco, ma sono lieto che tu lo faccia. È un caro amico e un ottimo ascoltatore.”
“Gli parlo tutti i giorni. Stiamo al telefono quindici minuti. La domenica a volte più a lungo. Mi ha detto che sarebbe rimasto tutto tra di noi ma… Non so, forse non gli ho creduto veramente.” Spiegò con un’alzata di spalle.
“Marco è un professionista serio e un uomo onesto e leale. Se ti ha promesso di mantenere il segreto su ciò che vi dite, mi puoi credere, non parlerà nemmeno sotto tortura.” Fece una pausa e aggiunse con tatto: “Come va con gli incubi?”
“Non ne ho più da giorni, ormai. Credo che sia tutto passato. Mi spiacerà non parlare più con Marco, è una persona fantastica.”, confessò. “Anche se, lo devo ammettere, mi ha obbligata a parlare di eventi o sensazioni tutt’altro che piacevoli.”
Graham le rivolse un sorriso d’intesa e annuì: “È la sua specialità. Quell’uomo sarebbe capace di far parlare un albero, credimi.”
“È per questo che mi hai lasciato il suo contatto?”, si azzardò a chiedere. “Perché do l’impressione di aver bisogno di parlare con qualcuno?”
“So che hai molti amici.” Iniziò lui anticipando la sua critica: “Non devi fraintendere questo mio gesto come un atto di pietà o di crudeltà. Devi prenderlo per quello che è. Un’ammissione di colpevolezza. Avrei potuto lasciarti il mio numero di telefono e chiederti il tuo, ma l’avresti potuto fraintendere per un tentativo di usare quello che era successo in mio favore. In più non ti saresti mai lasciata andare con me e non mi avresti parlato francamente come immagino tu abbia fatto con Marco. Sono un medico. Sono abituato ad ammettere di non essere esperto in un campo o nell’altro. L’empatia non è il mio forte. Lavoro in un ambito in cui è essenziale la prontezza di riflessi e tendo a non soppesare le parole quando parlo. Marco invece è un maestro nell’arte dell’attesa. È capace di prendere decisioni nell’arco di pochi secondi, certo, ma quello che lo rende unico è la pazienza che dimostra sempre quando si tratta di aiutare le persone ad affrontare un problema.”

“Gli ho chiesto… Mi ha detto che avrei potuto parlarne con te.” Sapeva che stava per fare una domanda molto personale. In qualche modo l’aveva intuito dalle parole di Marco. “Mi ha detto che siete diventati amici perché l’hai salvato da un’aggressione, che eri al momento giusto al posto giusto. Così come è stato per me. Non ha detto altro. Al momento ho avuto la sensazione che non me ne avesse voluto parlare per tutelare la tua privacy.”

“Marco è molto aperto con i suoi amici e molto riservato con gli altri. In questo caso, sì, stava proteggendo la mia privacy.” Per un momento parve indeciso sul da farsi e poi continuò: “C’è un club, a Edimburgo. È proprietà di un mio amico, un produttore di whisky, e mio al 30 percento. È un club molto esclusivo e molto attento a garantire riservatezza ai propri membri. Al pian terreno c’è un bar molto raffinato e al piano di sotto si va per ballare e divertirsi. Ci sono anche stanze che si possono prenotare per appartarsi con un partner. Sono poche, attrezzate con qualunque cosa ti possa servire e possono essere prenotate solo da membri senior del club, di cui sappiamo di poterci fidare.”
“Hai il 30 percento di un club?”, chiese con genuina curiosità.
Graham annuì. “Sono l’orgoglioso possessore della tessera numero uno. Ho aiutato il mio amico a scegliere il locale, a scegliere un concetto e ho investito nel club. Per anni sono stato lontano da Edimburgo e quando sono tornato, per un periodo, l’ho frequentato assiduamente. Cercavo qualcosa che non potevo trovare.” Scosse il capo e ricominciò: “Ad ogni modo, ho aiutato Ian a fare ricerca sul campo, prima di lanciarci nell’impresa. Abbiamo visitato insieme molti club simili, tra Edimburgo e Londra. In uno di questi ho incontrato Marco. È vero ciò che ti ha raccontato. Ci conoscevamo già di vista, ci eravamo incrociati a un paio di conferenze ma non eravamo in confidenza. Ian e io avevamo un appuntamento in un club BDSM a Londra. Volevamo informarci sull’attrezzatura necessaria, i costi e sulle norme di sicurezza e il proprietario ci aveva accolto a braccia aperte. Ci aveva mostrato tutto durante il giorno ma ci aveva consigliato di frequentare il club come osservatori per un paio di sere, giusto per vedere con i nostri occhi di cosa si trattasse e se faceva per noi. Ci aveva avvisato che tutto ciò che avremmo visto era perfettamente consensuale, che una safe word era sempre discussa prima di ogni atto e che c’era un livello di sicurezza impeccabile. Anche così, devo dire, fu uno shock per noi. Eravamo giovani e con esperienza solo in relazioni tradizionali, se così le possiamo chiamare, e il nostro interesse era puramente dovuto al fatto che volevamo essere inclusivi nel nostro concetto di club. Be’, che dire. È quella sera che ho scoperto di non sapere proprio niente di sesso e di sessualità. E ho anche scoperto di essere molto meno aperto di quanto non credessi.” Rise di gusto al ricordo, prima di continuare a raccontare di quell’esperienza: “Eravamo seduti al bar,  ipnotizzati da tutto quello che stavamo vedendo e sentendo, quando il proprietario del locale venne da noi e ci propose di seguirlo in un tour. Diede un nome alle varie pratiche che vedevamo, ci spiegò il significato di gesti e parole, ci iniziò a delle sottoculture di cui non avevamo mai neppure sentito parlare. A un certo punto vidi un uomo nudo e legato, in chiaro stato di sofferenza. Il proprietario ci spiegò che era un sub ed era rodato, che aveva un livello di sopportazione del dolore molto elevato. Non so cosa sia stato, forse la mia abitudine a reagire al minimo segnale di emergenza, forse la mia attenzione ai dettagli ma ne riconobbi l’angoscia e la disperazione. Non c’era consenso in ciò che gli stava venendo fatto, non c’era accordo. Li fermai prima che potessero fargli qualcosa di irreparabile. Il proprietario rimase così sconvolto quando scoprì che dei dom avevano abusato del proprio potere su un membro del club che lo chiuse per un mese e riammise i membri solo dopo un’attenta selezione e un periodo di prova di sei mesi.”

“L’uomo di cui parli, quello che hai salvato, era Marco?”

“Sì, era Marco. Lo curai, lo accompagnai a casa e ci restai per qualche giorno, finché non fui certo che stesse meglio. Da allora siamo molto amici. L’ho visto nel periodo più disperato della sua vita e lui ha visto me. Quando sono tornato, mi ha aiutato ad affrontare il trauma di ciò che ho vissuto in  Siria, mi ha aiutato a capire che la soluzione ai miei problemi non l’avrei trovata nei rapporti occasionali che cercavo sempre più spesso e in maniera sempre meno accorta fino a sei mesi fa e mi aiuta tuttora facendomi sgobbare come un mulo quando vado a Londra da lui. Sa che trovo un proposito nel lavoro.” Fece una pausa e allungò una mano, come per metterla sopra alla sua sul tavolo, ma la ritrasse all’ultimo momento, aggiungendo: “Sarò onesto. Lavoro come un pazzo, fino allo sfinimento. E fino a pochi mesi fa ho evitato qualunque tipo di relazione. Sono pulito e mi tengo sotto controllo e ho sempre usato un preservativo, se può essere di consolazione. Ma non sentivo proprio nulla, oltre al momentaneo distacco dalla realtà. È per questo che ho aspettato con te, non volevo smettere di provare quello che provo, non volevo scoprire che ciò che provo non è profondo quanto credo.”

“Hai paura di perdere interesse in me se mi baci?”, chiese a metà tra il divertito e il commosso. Non aveva alcun problema con la sua promiscuità. Non erano ragazzini, era normale che avessero entrambi fatto esperienze. Chiaramente lui ne aveva fatte più di lei, ma non le importava.

“Margherita,” le strinse le mani tra le sue e la guardò con una profondità che per un attimo le fece perdere il treno dei propri pensieri: “non ho mai incontrato qualcuno che mi interessasse più di te. Credimi se ti dico che non sarà un bacio né una notte, né un anno intero a cambiare la mia opinione su di te. Ne sono certo come non sono mai stato in vita mia.”

E si ritrovò immediatamente con le guance in fiamme. “Se siamo in vena di confessioni, devo dirti che sono un paio d’anni che non ho una relazione. Ho conosciuto il mio ragazzo alla fine dell’Università. Siamo stati insieme qualche anno, un rapporto a distanza che credevo funzionasse, finché non ho scoperto che mi tradiva con mezza Bologna. Da allora ho avuto un paio di flirt occasionali e sono uscita una volta con un collega francese un paio di mesi fa. Niente di più.”

“A questo punto, dottoressa Ricci, credo sia giunto il momento di fare una romantica passeggiata lungo il molo. Mi devi scusare se ti metto fretta ma non riesco a smettere di pensare al fatto che desidero prenderti tra le mie braccia e baciarti.

E così dicendo si alzò dal tavolo e andò a pagare da Joe, lasciando che lei si potesse gustare un’ultima volta la vista del porto di sera.

Una volta usciti dal ristorante l’euforia si impossessò di lei. Erano anni che non si sentiva così, leggera e piena di vita, consapevole che qualcosa di elettrizzante stava per accadere e impaziente di sperimentarlo. Un braccio di Graham la avvolse, l’altra mano le sfiorò la guancia.

“Per tre settimane non sono riuscito a pensare ad altro”, le sussurrò con dolcezza avvicinandosi alle sue labbra. “I tuoi occhi splendono come ambra dorata alla luce della luna e sono settimane che mi chiedo come sia il tuo sapore.” E così dicendo la baciò. Non fu come con Giulio o con i suoi passati amanti. Non ci fu un primo tentativo goffo, un cercare la posizione più comoda. Fu come se l’avesse sempre baciata, come se la conoscesse da sempre. La strinse a sé, le arruffò i capelli in una carezza affettuosa e si impossessò di lei e della sua bocca. Fu quello il primo vero bacio della sua vita, non ciò che fino a quel giorno aveva per inesperienza chiamato tale. Perse la cognizione del tempo e dello spazio e si abbandonò al suo tocco e alle sue labbra che la facevano lentamente e  inesorabilmente sua.

Si ritrovò a staccarsi da lui, senza fiato e senza parole. “Parliamo di te, fifona.” Un tono leggero e disteso la accarezzò.
“Fifona, io?” Chiese incuriosita. “Si vede che non mi conosci affatto, spilungone.”
“Neghi di essere una fifona?” Replicò Graham con una sfumatura di scommessa nella voce.
Margherita si sporse impercettibilmente verso di lui e abbassò la voce con fare cospiratorio: “Lo nego.”
“Lo vedremo presto.” Rincarò Graham avvicinandosi ulteriormente a lei e sussurrando: “Appena saremo soli non ti lascerò scappare. Intendo studiare il tuo corpo centimetro per centimetro. Sarai stupita di quanto io sia diligente.”
“Mmmh,” finse di riflettere lei: “Sono molto esigente con i miei studenti, dottor MacKay. Cosa le fa pensare di essere in grado di passare il mio esame? Mi dicono che l’anatomia femminile sia piuttosto complicata.”
“Per fortuna tua sono un medico. Ci hanno pensato anni di studi e di specializzazione ad assicurarsi che conoscessi bene l’anatomia femminile. Tra poco potrai mettermi alla prova, dottoressa.”
10
Venerdì

Graham
Quando richiuse dietro di sé la porta di casa e la vide in piedi nella propria cucina, vicino alla sua fidatissima macchina del caffè, Graham seppe con chiarezza che Marco aveva ragione. Non ci voleva un genio della psichiatria per capire che ciò che provava non era un’infatuazione transitoria. Quella breve parola che lui rifuggiva da anni gli risuonò nella testa. Mai e poi mai avrebbe pensato di trovarlo a Eyemouth. Lui, così razionale, così scettico, così saldamente ancorato a terra, stava sperimentando la cosa più simile a un colpo di fulmine che si potesse immaginare. Cercò di dirsi che non poteva ufficialmente trattarsi di colpo di fulmine perché, sì, gli era piaciuta da subito ma la cosa si era sviluppata nel tempo, seppur breve, della loro conoscenza. Si ricordò il calore che l’aveva inondato alla sua vista, il fastidio provato nel vederla sfidare la sua auto in panne nel tentativo di salvare dei libri che avrebbe potuto tranquillamente ricomprare su Amazon o ordinare in biblioteca, l’angoscia che aveva provato nell’apprendere da Gwendolyn che l’archeologa generosa si trovava in pericolo e il sollievo nel vederla sana e salva tra le sue braccia, nel respirare il suo profumo misto a sudore e paura. Pensò al conforto che aveva trovato nel suo abbraccio, nel suo sguardo e nelle sue parole e sorrise al ricordo della sua prontezza di riflessi e dell’arte oratoria che esibiva con tanta sbarazzina ironia.

Le guance deliziosamente arrossate dal bacio e dall’eccitazione, Margherita aveva cercato di trovare una scusa per tornare a casa sua. Il cellulare aveva la batteria scarica. Non aveva avvisato Bonnie. Aveva bisogno di una doccia dopo una lunga giornata al lavoro. Aveva dimenticato il gatto sulla pentola a pressione, come ripeteva spesso Nicola, l’infettivologo napoletano che aveva lavorato con lui in Sicilia e in Uganda.

Inutile aggiungere che non aveva faticato a convincerla a venire da lui. E ora era lì che si guardava intorno, stupita dalle linee pulite dei suoi mobili chiari e dai colori sgargianti dei quadri appesi alle pareti.
“Ti piace?”, le chiese dopo qualche istante di contemplazione: “È il mio rifugio dal mondo.”
“È molto bella, più… internazionale di come immaginavo.”
“Ammettilo, dato che sono scozzese, ti immaginavi che ci fossero tartan ovunque a casa mia.”
“E bottiglie di whisky, cornamuse, maggiordomi… Porti il kilt?”, gli domandò all’improvviso, prima di arrossire.
Sorrise e le si avvicinò: “Hmm, quello che dovresti chiederti è: cosa porto sotto?” E la baciò nuovamente, sussurrandole: “Non vedo l’ora di sentirti gemere sotto di me.”
La sentì trattenere il respiro e contrarsi: “Cosa ti fa credere che succederà?”.
Rise e le rispose onestamente: “So riconoscere il desiderio quando lo incontro.”
“La protervia è un peccato, non te l’hanno mai detto?”, sbottò lei seria prima di esplodere in un risolino spezzato.
“Hmm”, continuò lui imperterrito baciandole il collo e prendendola per mano: “Vieni con me.”
E così dicendo la condusse verso la camera da letto, senza darle il tempo di fabbricare ulteriori scuse strampalate.

La fece passare attraverso la porta laccata di bianco e si fermò davanti al letto perfettamente rifatto con lenzuola candide e alla panca imbottita ai suoi piedi, dopodiché ricominciò a baciarla con passione. Era riuscito a trattenersi a fatica per settimane e ora non sembrava essere in grado di smettere.

Margherita gli posò le mani aperte sul maglione di lana azzurra che aveva indossato in fretta e furia prima di correre al museo quel pomeriggio e spinse leggermente.
“Non stiamo correndo un po’ troppo? Non sono certa di voler immediatamente… insomma, sai cosa intendo.”
Graham la strinse nuovamente a sé e la baciò.
“Mi verrà una paresi a furia di sorridere. Non riesco a fare altro quando penso a te e quando ti posso avere tra le mie braccia.”, le confessò: “ad ogni modo, non siamo qui per il letto, non ancora almeno.”

Margherita spalancò gli occhi per la sorpresa e lui si affrettò ad aggiungere: “Siamo qui perché sono in viaggio da stamattina alle nove e tu hai dichiarato poco fa di avere bisogno di una doccia. Dato che è un’esigenza di entrambi, suggerisco di partire da quella.”

E così dicendo la lasciò interdetta e imbarazzata e andò in bagno ad assicurarsi che il termosifone fosse caldo a sufficienza. Era una premura inutile. Quando era passato di corsa da casa nel pomeriggio per lasciare la valigia, aveva programmato il riscaldamento in modo da potersi fare una buona doccia la sera quando sarebbe rientrato, ma non si sapeva mai. Si accertò che ci fossero degli asciugamani soffici sullo scaldasalviette e ritornò in camera.

Margherita era ancora lì, impalata come uno stoccafisso in mezzo alla stanza, chiaramente incerta sul da farsi. Decise di agire immediatamente, per evitare ulteriori tentativi di fuga. La prese tra le braccia e posò le labbra sulle sue. Si dischiusero con un gemito. Le esplorò con calma e con ardore. Non si sarebbe mai stancato di lei, del suo corpo che sembrava modellato per le sue mani e le sue braccia, dello sguardo vivo e intelligente che lo studiava e lo penetrava. Le passò una mano nei capelli e le tirò con delicatezza in giù la testa per scoprire il collo dalla pelle liscia e morbida. Vi posò la mano aperta, immobile per un istante a sentire il respiro accelerato e il battito eccitato del cuore. Dopodiché scese con un dito lungo lo sterno e iniziò a disfare i bottoni della giacca di pelle chiara. Gliela sfilò con destrezza prima di dedicarsi alla camicia. Aprì un bottone di madreperla dopo l’altro fino ad arrivare al bottone dei jeans attillati. Non si trattenne e lo sfilò dall’asola, per poi far scorrere la cerniera verso il basso sfiorando con il pollice il morbido cotone degli slip.

L’emozione di Margherita traspariva dal respiro irregolare, dagli ansiti e dal rossore che le colorava le guance. “Aspetta”, gli disse. “Mi stai spogliando.”
“L’obiettivo è quello. Sai, la doccia è molto più piacevole se la si fa nudi.”, spiegò ridendo.
Lei scoppiò a ridere impacciata e ribadì: “Non pensavo dicessi sul serio.”
“Sono serissimo. E ti suggerisco di toglierti le scarpe perché intendo sfilarti questi pantaloni al più presto.”, e così dicendo le tolse la camicia rivelando un reggiseno di cotone e pizzo bianco che metteva in risalto le sue forme con discrezione.
 Margherita si divincolò per scivolare fuori dalle scarpe e afferrò con decisione l’orlo del suo maglione: “È il caso che ti spogli anche tu, allora.”, dichiarò spavalda.

Graham l’aiutò a togliergli prima il maglione e poi la camicia e quando rimase a petto nudo si abbassò baciandola sulla pancia e le sfilò i jeans. Era in ginocchio davanti a lei e poteva rimirare le sue gambe lunghe e affusolate. Le accarezzò con dolcezza fino a raggiungere l’orlo degli slip che le abbassò lentamente. La sentì sussultare ma non aveva alcuna intenzione di andarci piano. Si alzò in piedi e le slacciò il gancetto del reggiseno, che si aprì liberando i seni sodi e rotondi che avrebbe tormentato di lì a poco. Margherita si affrettò a slacciare i bottoni dei suoi jeans e lui se li sfilò insieme ai boxer neri. La prese in braccio, la portò in bagno ridendo del suo gridolino di sorpresa e la depositò con delicatezza sul soffice tappeto bianco che li aspettava all’uscita dalla doccia. Aprì il getto d’acqua e si assicurò che la temperatura fosse piacevole, prima di prenderla nuovamente tra le braccia e invitarla ad entrare tra le risate e i baci.

L’acqua era perfetta, calda al punto giusto, e Margherita era splendida, una dea greca, con i capelli sciolti e bagnati che le ricadevano sulle spalle in folte ciocche scure e lucenti, gli occhi che brillavano di curiosità e il corpo tonico e abbronzato.
“Hai il segno della maglietta ma non dei pantaloni.”, osservò facendo scivolare un dito lungo il suo corpo.
“Sai, noi archeologi non lavoriamo in bikini, o mio pallido Scozzese.”, ribatté facendolo ridere di gusto. “Piuttosto, dimmi, hai l’abitudine di fare la doccia con tutti i tuoi ospiti?”
Scosse il capo divertito mentre l’acqua gli massaggiava le spalle e la schiena: “Sei la prima donna che porto in questa casa e la prima con cui faccio la doccia, il che mi ricorda di una cosa.” E così dicendo afferrò il flacone dello shampoo e se ne versò una dose generosa sul palmo della mano: “Spero che ti piaccia l’aroma di sandalo, perché saprai di esso dopo che avrò finito con te.”
“Spero che piaccia a te.”, replicò l’archeologa. “Sarai tu a dovermi sopportare.”
“Accetto la sfida. E ora chiudi gli occhi e lasciami fare.”
“Senza balsamo mi si arrufferanno tutti i capelli”, commentò inorridita.
Mentre le massaggiava la cute le assicurò: “Domani andremo a comprarlo, promesso.”

Ed era una promessa verso se stesso, prima di tutto. La promessa di una vita nuova, finalmente completa di senso. Perché una cosa gli era chiara: quella doccia non stava lavando via la stanchezza del viaggio o dei turni in pronto soccorso. Quella doccia stava lavando via tutto il dolore e l’autocommiserazione, la perdita e la disperazione. Quando ne sarebbe uscito, l’avrebbe fatto con una certezza: quella di poter essere un uomo migliore, di poter fare del bene nel mondo senza essere più solo. Aveva finalmente trovato il pezzetto mancante alla sua anima e la chiave di volta della sua vita.


Epilogo

Quattro mesi dopo, a Londra

Margherita
“Mi daresti un’altra fetta di quella torta stratosferica, per piacere?”, le chiese Marco dall’altra parte del tavolo. Dopo tre mesi a Eyemouth l’aveva finalmente incontrato. Avevano mantenuto la loro abitudine di chiamarsi per quindici minuti, anche se lo facevano due volte a settimana e non ogni giorno. Non ne avevano bisogno, in realtà. Da quando Graham e lei si erano trasferiti a Londra si vedevano molto spesso.
“Allora, come sta andando il nuovo lavoro?”. William, il ragazzo di Marco e suo dom, l’aveva accolta subito a braccia aperte, come un carissimo amico, e tale era diventato.
“Scherzi, vero? È un sogno che si avvera!” Esclamò Margherita entusiasta.
“Non ti manca la Scozia?”, le chiese.
“Uh, attenzione a cosa dici, amica mia. Graham ti fa a fettine se dai la risposta sbagliata! Non toccargli la Scozia o si trasforma in Rob Roy!”, interloquì Marco.

Margherita esplose in una risata cristallina prima di rispondere onestamente: “A volte mi manca la quiete e mi mancano le persone, ovviamente. La vita a Eyemouth era pacifica, scandita da un ritmo meno stressante e più naturale. Mi sono sentita subito a mio agio con tutti e mi piaceva il mio lavoro. Ma è sempre stato chiaro sin dall’inizio che si sarebbe trattato di un’esperienza con un inizio e una fine. Avevo ancora qualche mese di contratto a Cambridge e volevo usare quel periodo per scrivere un proposal per dei fondi o per mandare la mia candidatura per un postdoc… Mai e poi mai avrei creduto di ottenere una fellowship al British Museum. Se non fosse per le insistenze di Sara, non avrei mai nemmeno mandato il curriculum. Attraversare quelle colonne, tutti i giorni, è una gioia indescrivibile. A volte mi sembra di poter scoppiare dall’entusiasmo.”
“Sara sa che sei una testona ma sei bravissima. Per fortuna, ti ha spronato a lanciarti.” Le disse Graham dandole un fugace bacio sulla guancia prima di alzarsi per andare a prendere una bottiglia di passito di Pantelleria in cucina.
Doveva restare in Scozia per solo quattro mesi. Se lo era ripetuta fino alla nausea per le prime cinque settimane della sua permanenza, fallendo alla grande e capitolando la prima sera fuori con lui. E lo aveva fatto in modo epico: iniziando dalla doccia e finendo con il restare a letto per due giorni filati, con brevi pause per il bagno o il cibo. L’aveva preso come una lezione di vita. Mai pensare di poter pianificare tutto in anticipo, mai credere che il tuo destino sia già scritto nella pietra.

I quattro mesi erano passati ed era passato altro tempo. La sua vita era cambiata radicalmente e non a causa del lavoro. La sua carriera procedeva come prima anche se inaspettatamente bene. Ciò che era cambiato era la sua vita privata. Si era ormai rassegnata a dedicarsi solo al suo lavoro, la sua passione, e aveva accettato l’idea di non poterla condividere con nessuno. Poi era arrivato Graham: medico, scozzese, perfettamente controllato e sicuro di sé in corsia e insicuro nella vita. Avevano entrambi imparato molto di se stessi in quei mesi ed erano al colmo della gioia pensando di poter aprire questo nuovo capitolo della loro vita insieme. Avevano traslocato entrambi in fretta, appena saputo della fellowship di Margherita. Graham era rimasto ancora un mese e mezzo a Eyemouth per trovare un sostituto che rilevasse lo studio medico e aveva fatto avanti e indietro da Londra nel fine settimana. Ora avevano svuotato tutti gli scatoloni ma non avevano ancora appeso i quadri alla parete. Potevano però ufficialmente dire di vivere insieme. Graham aveva accettato un posto al pronto soccorso dell’University College Hospital dove già lavorava parecchie settimane l’anno, con l’accordo di insegnare un corso a semestre alla UCL Medical School.
“Raccontaci ancora della collezione del mistero. Cosa ha deciso di fare il direttore del museo di Eyemouth?”, le domandò William interessato.
Margherita rispose con entusiasmo: “Ne abbiamo parlato a lungo. Mi ha dato accesso a tutte le carte, le lettere e la documentazione e scriverà un articolo al riguardo con me e un collega esperto del periodo vittoriano. Dopodiché organizzeremo una mostra e testeremo l’interesse del pubblico. Se ci sarà sufficiente affluenza, entrerà a far parte della collezione esibita in maniera permanente al museo.”
“Direi che è il momento di brindare.” Interloquì Graham sollevando il calice e guardando Margherita con occhi lucidi e pieni di emozione: “Alle auto in panne e ai vittoriani disinibiti! A voi va la mia eterna gratitudine perché mi avete donato l’amore della mia vita e un nuovo inizio!”

FINE

****
CHI E' L'AUTRICE...
Nora June Peebles dice di sè: sono cresciuta in una città ai piedi delle montagne e me le porto nel cuore ovunque io vada. Dopo il liceo classico ho studiato Fisica e la mia passione per le stelle mi ha portato in giro per l'Europa. Le stelle mi hanno anche portato a conoscere il mio personale vichingo alle 9 di mattina del mio primo giorno di lavoro. Cinque giorni dopo il nostro primo appuntamento mi sono trasferita da lui e da allora siamo inseparabili. Undici traslochi dopo, ho lasciato la scienza, ci siamo sposati e ora ci godiamo il nostro lieto fine movimentato con un pulcino di tre anni e mezzo che crede di essere un pompiere, parla tre lingue mischiandole tutte insieme e sogna di uccidere un drago e sposare una principessa. Viviamo in Germania, dove lavoro per una grande azienda, e scrivere mi aiuta a non dimenticare il mio amato italiano. Qualche anno fa ho scoperto La Mia Biblioteca Romantica e ho realizzato di non aver mai capito cosa fosse veramente il romance, e quanto mi piacesse! Da allora ho letto molti libri e racconti, di qualunque sottogenere, fidandomi delle vostre recensioni e non pentendomene mai. 
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2 commenti:

  1. Un racconto carino che mischia sentimento e cultura senza tralasciare il tour in luoghi incredibili. L'ho letto volentieri e tutto d'un fiato . Godibilissimo!

    RispondiElimina
  2. Mi è piaciuto molto questa short story! Ben scritta ed anche documentata. Avrebbe potuto, con un po' di sforzo in più essere un libro vero e proprio ma va benissimo così!

    RispondiElimina

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