Lo sciabordio dolce e monotono delle onde sulla riva sas-
sosa faceva da sottofondo, accompagnando i baci dei corpi
giovani e abbronzati, caldi di sole e passione. Adorava essere
baciata da lui, le piaceva sentire la sua pelle asciutta e com-
patta, i muscoli che le guizzavano sotto le dita. La sua bocca
le faceva nascere la voglia di spingersi oltre, di lasciarsi an-
dare a sensazioni meravigliose.
Era un peccato? No, qualcosa di così bello non poteva es-
serlo e sarebbe bastato arrendersi al desiderio per averne la
certezza. Una richiesta esplicita e eccitante come le carezze
audaci che gli permetteva di farle e che, azzerando la ragione,
le facevano dimenticare che era una brava ragazza e che
avrebbe dovuto respingerlo…
Perché si era sempre fermata a un passo dalla felicità?, si
chiese tornando bruscamente al presente. Quale assurdo co-
dice d’onore le aveva fatto sempre anteporre i suoi doveri di
figlia obbediente e ansiosa dell’approvazione dei genitori al
piacere di essere amata da qualcuno che amava con altrettanto
slancio? Perché annullarsi per gli altri era ormai così naturale
da non considerare quanto le sarebbe costata la rinuncia.
Avrebbe voluto essere egoista, pensò, fissando la sottile lama
di luce che penetrava dalle persiane accostate e disegnava una
linea diritta sul pavimento.
Ora il silenzio della camera era rotto dal lieve ronfare del-
l’uomo che, allungato sul lato sinistro del letto, continuava a
dormire profondamente. Sopra la testiera, appesa alla parete
dall’intonaco azzurro, la riproduzione di una Madonna di Raf-
faello creava un non so che di profano, piuttosto che dare un
senso di misticità. Benché avesse gli occhi gonfi e offuscati
dalle lacrime versate durante la notte, fissò il ritratto della Ver-
gine a labbra serrate, quasi implorando un’inespressa grazia.
Era sempre stata così restia a esigere qualcosa per se stessa da
dubitare comunque di essere esaudita.
Con un sospiro si allontanò dalla finestra e sedette sulla
seggiolina della toeletta. I lineamenti che vide riflessi nello
specchio le parvero quelli di un’estranea. Il viso era spettrale
e l’espressione di tristezza, più che da sposina in luna di miele,
sembrava appartenere a qualcuno in procinto di recarsi a un
funerale. Dio, e non era così?, si disse con lucida rassegna-
zione. Non erano forse stati uccisi tutti i suoi sogni, quella
notte?
Tenne a bada il dolore con uno sforzo di volontà e respirò
profondamente per impedirsi di ricominciare a piangere, men-
tre lo sguardo indugiava sul corpo allungato tra le lenzuola.
Anche se il rilassato abbandono del sonno ne ammorbidiva le
spigolosità, la figura prona denotava un fascino virile che qual-
siasi donna avrebbe apprezzato. La schiena liscia si assotti-
gliava nei fianchi stretti e le gambe forti rivelavano un quoti-
diano esercizio fisico. Ci teneva molto a essere in forma, quel
suo marito dal sorriso scanzonato che le amiche le invidiavano
apertamente. Leo, del resto, riservava più tempo allo sport e
alle esigenze personali che agli affetti. Le attenzioni di cui era
capace le rivolgeva essenzialmente a se stesso, più che a chi
era parte della sua vita. Fania distolse lo sguardo da lui e nella
mente balenarono frammenti della cerimonia di nozze, avve-
nuta il giorno prima.
Il casto abito bianco era di seta, con intarsi di pizzo rica-
vati dalla veste da sposa della bisnonna. La sarta che cuciva
per loro era brava e aveva scelto un modello che slanciava la
sua figura sottile, ma con un seno decisamente mediterraneo.
Sui capelli, un semplice velo di vaporoso tulle fermato da una
coroncina di fiori. Quando lo aveva indossato persino la sua
ipercritica madre le aveva elargito un sobrio cenno del capo.
Donna dal carattere e dalla severità d’altri tempi, raramente
Armida lasciava trapelare i suoi stati d’animo. Le emozioni
non si mettevano in piazza, ripeteva. Erano indice di man-
canza di pudore e di frivolezza morale. E tuttavia, vedere la
propria figlia con l’abito da sposa per un istante aveva scal-
fito la sua inalterabile compostezza esteriore. Armida offriva
agli altri un’immagine standard di se stessa, come lo sfondo
del teatrino parrocchiale del loro quartiere, sempre uguale,
quale che fosse la rappresentazione. Infatti il fugace spiraglio
di umanità lasciato trapelare era svanito in fretta: la cerimo-
nia incombeva e cedere all’emotività era poco opportuno.
Nella piccola chiesa addobbata di fragranti rose bianche, il
brusio degli invitati, quando la sposa era apparsa sul portale
al braccio del padre, aveva turbato Fania anche di più. Nella
sua voce, incontrollabile, era affiorato un tremito durante lo
scambio dei voti nuziali, che don Giuseppe, l’officiante, con
tutta probabilità aveva avvertito. La voce di Leo era invece
riecheggiata calma e sicura. Lui era d’altronde sempre così pa-
drone di sé da indurla a pensare, per il poco che lo cono-
sceva, che esercitare un ferreo controllo sulle proprie reazioni
non gli costasse la minima fatica. Era disinvolto in qualunque
situazione, e quando erano andati dai parenti con gli inviti e
le bomboniere, le sue giovani cugine se lo erano mangiate con
gli occhi quel bel fidanzato dal volto marcato e dai mossi ca-
pelli bruni. Avrebbero voluto essere al suo posto, Fania ne era
consapevole.
Allo sposalizio era seguito un pranzo in un locale di poche
pretese e quasi tutte le donne presenti avevano civettato sfac-
ciatamente con Leo, affatto scoraggiate dall’aria appena infa-
stidita del novello sposo. Si erano poi disputate il bouquet che
lei aveva lanciato alle spalle, pronta a congedarsi da familiari
e ospiti. Dentro, mascherata da un sorriso forzato, cresceva
l’ansia di ritrovarsi sola con un marito con cui non c’era nep-
pure confidenza, conscia di dover dare inizio a una vita co-
niugale e di profonda intimità con quello che, dopotutto, era
un cortese estraneo.
Che stupida era stata ad angustiarsi a quel modo…
Fania chinò il capo e riprese a piangere sommessamente.
Chi l’aveva detto che l’inferno era il castigo riservato dopo
la morte a chi era stato malvagio nel corso dell’esistenza?
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