LA STORIA: Margherita Ricci, archeologa postdoc a Cambridge, accetta di sostituire per quattro mesi il direttore del piccolo museo di Eyemouth, negli Scottish Borders, per fare un piacere al suo professore, sacrificando così le tanto agognate e meritate vacanze al mare. L'auto presa a noleggio per arrivare ad Eyemouth, però, va in panne a un passo dalla meta e Margherita fa in questo modo la conoscenza del burbero medico del paese, il dottor Graham MacKay. Graham si è trasferito nella remota cittadina scozzese in seguito a una traumatica esperienza che lo ha segnato nel profondo. Sarà l'archeologa italiana, piombata nella sua vita come un fulmine a ciel sereno, a dargli la forza per ricominciare a vivere?
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1
Sei mesi prima
Graham
Graham
si diresse verso il bancone e ordinò una Caledonian. Non era il tipo da fare lo
schizzinoso ma da quando era tornato indulgeva nei sapori forti delle ales
scozzesi. Questa in particolare faceva al caso suo, stasera. Non troppo
alcolica, dal sapore denso e onestamente amaro, era il drink che ci voleva
prima della caccia. Un sorriso beffardo gli si allargò sul volto magro e
coperto da un’ombra di barba mentre se la portava alle labbra. Era stanco oggi, ma non abbastanza da poter
tornare a casa e farsi una bella dormita. Aveva bisogno di azione per poter
mettere a tacere i demoni che lo tormentavano, almeno per qualche ora.
Casa.
Per qualche strano scherzo del destino aveva finalmente trovato un posto nel mondo,
un luogo che gli desse una parvenza di stabilità. Sapeva che non sarebbe stato
per sempre, nella sua vita niente lo era, ma non aveva fretta di cambiare. Le
relazioni stabili non facevano per lui: l’aveva imparato sulla propria pelle
anni prima. Il suo lavoro diventato una missione l’aveva condotto nei più
remoti angoli del mondo e aveva richiesto un pesante tributo. Il suo volto
rilassato si distorse per un attimo per lasciare spazio all’orrore del dolore e
della perdita. La quiete domestica, tanto decantata dai suoi amici, non
riusciva proprio a raffigurarsela. Quello in cui riusciva bene erano i
rapporti. Consenzienti. Maturi. Della durata di una notte. Niente legami
duraturi, niente letto condiviso con qualcuno. Nessuno da spaventare con gli
incubi che lo torturavano e coi sensi di colpa che lo tenevano sveglio la
notte. Sapeva di non avere colpe. E tuttavia c’erano dei bambini senza padre
che non avrebbero sofferto se lui non avesse chiesto una sostituzione a quel
collega, quel maledetto giorno di due anni prima. Aveva operato senza darsi
tregua. È normale prendersi una pausa. Marco glielo aveva ripetuto fino allo
sfinimento. È stata una coincidenza, si ripeteva lui. Non poteva immaginare che
avrebbero bombardato l’ospedale da campo proprio quel giorno. Gli aveva chiesto
solo di coprirlo per qualche ora mentre lui si rimetteva in forze. Eppure era
successo l’inimmaginabile. No, meglio non avere legami. Niente moglie, figli,
persone che ti piangano.
Sorseggiò
il liquido scuro con la calma di un abile predatore. Il club di Edimburgo che
frequentava era affollato come al solito il venerdì sera. Una volta o due al
mese, ultimamente più spesso, veniva qui a cercare una distrazione dai pensieri
che lo attanagliavano. L’anonimato era garantito dai rigorosi controlli che
faceva il proprietario del club prima di rilasciare una tessera, il cui costo
esorbitante assicurava che solo la clientela più motivata lo frequentasse.
Niente perditempo o giornalisti. Niente droga o bevitori incalliti. Qui si
veniva per trovare cose diverse: c’era chi veniva per bersi un buon whisky in compagnia
di amici nella members’ lounge al piano di sopra, con le
pareti ricoperte da sontuosi pannelli di legno, tavoli intarsiati e divanetti
in soffice velluto color petrolio
ad accoglierti come in un abbraccio, e chi veniva per scatenarsi e ballare
nella moderna club room al piano di sotto. C’era chi cercava uno svago dalla
propria quotidianità e dai problemi di tutti i giorni per dimenticarsi momentaneamente della
propria vita noiosa, un’avventura galante o un effimero
scambio di baci, chi invece l’eccitazione di una
notte in una delle poche stanze riccamente decorate riservate a un ristretto
numero di membri e perfettamente equipaggiate per soddisfare ogni loro
fantasia. C’era chi cercava tutto questo, e altro ancora. E c’era lui, un
cacciatore esperto e paziente, in attesa di una preda interessata.
Non
dovette aspettare a lungo. Un profumo di donna lo avvolse ben presto, deciso e
sensuale. Lunghi capelli biondi gli solleticarono il collo, seguiti da uno
sguardo volutamente ammiccante. Aveva già notato la ragazza, fasciata in un
vestito bianco che si sarebbe potuto definire sobrio se non fosse stato
scandalosamente corto. Il seno generoso era messo in risalto dalla scollatura a
cuore e dalle collane lunghe che vi si poggiavano sopra. Si stava divertendo,
si vedeva. Ballava con gli amici e celebrava la vita con noncuranza. Aveva
incrociato il suo sguardo poco prima e l’aveva sostenuto sufficientemente a
lungo per sapere che lo stava studiando da capo a piedi e che ciò che vedeva le
piaceva. Era giusto, dopotutto. Si sarebbero divertiti entrambi quella sera.
2
Il primo giovedì di
giugno
Margherita
“Ma chi me l’ha fatto fare?” Si chiese Margherita guardando
sconsolata l’auto che aveva preso a noleggio a Cambridge, irrevocabilmente
ferma sul ciglio della strada. Come in
ogni farsa che si rispetti, l’infausto mezzo di trasporto aveva dato forfait a
pochi chilometri dalla sua destinazione, il remoto villaggio sulla costa
scozzese che non aveva mai sentito nominare fino a una settimana prima.
Non era bastato che dovesse guidare quel catorcio di auto
cinese (la più economica che aveva trovato) per cinquecento e passa chilometri,
attraversando l’Inghilterra per la lunghezza e sobbalzando a ogni irregolarità
del manto stradale. Non era stato sufficiente che si fosse fatta tre ore di
coda tra Leeds e York e questo sedendo dalla parte sbagliata della macchina e
viaggiando dal lato sbagliato della strada. Chiaro. L’orrenda vettura si era
decisa a esalare l’ultimo respiro quasi alla fine di quel viaggio infernale. E
non in modo discreto. No. Con un bel rivolo di fumo denso e scuro che usciva
dal cofano del motore e saliva senza fretta verso il cielo plumbeo.
“Un benvenuto con i fiocchi. Manca solo che piova”, mugugnò
arrabbiata mentre si affrettava a scaricare tutte le proprie cose dal
bagagliaio e a portarle al sicuro vicino al guard-rail, un po’ distante
dall’auto. La prudenza non è mai troppa, diceva sempre sua nonna, e sua nonna
aveva sempre ragione. Per fortuna, era riuscita ad accostare in tempo e a
mettere il triangolo per segnalare di essere in panne prima che l’auto
esplodesse, si disse.
Stava scaricando a fatica l’enorme zaino da montagna in cui
custodiva maglioni, calzini e intimo e si stava sgridando tra sé e sé perché, a
voler essere razionali, sarebbe dovuta essere la prima cosa da salvare, non
l’ultima, quando un’Audi grigio-scura accostò a poca distanza davanti al suo
catorcio fumante. Nel tentativo di spostare quello zaino gigantesco, fece un
movimento sbagliato e sentì un dolore lancinante alla spalla. La sua giornata
andava di male in peggio si disse mentre, ansimando come una dannata, mollava
lo zaino vicino alla valigia e correva incurante del dolore verso l’auto
agonizzante.
“Cosa sta facendo?” Chiese la voce burbera e roca di un
uomo. Margherita non si voltò nemmeno per rispondere a tono, concentrata
com’era nel salvataggio di un libro di storia scozzese che era, non si sa come,
finito sul fondo del bagagliaio dell’odiato veicolo.
“Venga, si deve mettere al riparo!” La voce si fece urgente
e una mano possente la afferrò per un braccio e trascinò fino ai suoi bagagli.
Margherita fu presa così alla sprovvista che non cercò nemmeno di divincolarsi
da quella presa insistente e una volta raggiunta la piccola pila dei suoi averi
osservò con apprensione il sottile filo di fumo che proveniva dal cofano.
D’accordo, forse sottile non era l’aggettivo corretto in questo caso. Si
era allargato e aveva assunto un’aria preoccupante.
“Ross, c’è una Geely bianca in panne sulla A1107 a un paio
di miglia dalla B6355. Temo che possa prendere fuoco a breve e la prudenza non
è mai troppa.” Una pausa. “Una passeggera. Sembra in salute. Ha tolto tutte le
sue borse dal veicolo, sprezzante del pericolo.” Un’altra pausa. “Adesso
controllo. Vi aspettiamo.”
Margherita fissava impietrita la sua auto, in attesa che
venisse divorata dalle fiamme. L’epilogo perfetto per quel viaggio infinito. Si
sarebbe dovuta prendere un giorno o due di pausa prima della partenza, per
essere fresca e riposata, e invece aveva lavorato come una dannata fino
all’ultimo secondo per assicurarsi che tutti i saggi degli studenti fossero
stati corretti e valutati e che tutta la documentazione fosse a posto. Era
appena tornata da una campagna di scavi in Sicilia e si stava già lanciando a
capofitto in una nuova avventura. Aveva dormito sì e no tre ore prima di
mettersi a guidare verso nord. Quando avrebbe imparato a prendersi una pausa?
Non aveva più vent’anni, si ammonì. Altro che uno o due giorni. Sarebbe dovuta
andare in vacanza per almeno una settimana prima di incominciare questo nuovo
lavoro. Le sue amiche si erano organizzate per andare in Sardegna. Perché non
era andata con loro? Perché era una maniaca del lavoro, ecco perché.
“Signorina. Signora.” Nessuna risposta. Una mano le si posò
con cautela sulla spalla.
“Signorina.” Ripetè l’uomo con delicatezza.
“Dottoressa.” Rispose a quel punto Margherita senza pensare
e senza guardarlo. “Non capirò mai perché quando parlate a una donna pensate
sempre e solo a definirla in base al suo stato civile.”
“È una collega?” Chiese la voce profonda e virile con un
malcelato tono di sorpresa.
Margherita si voltò finalmente a guardarlo. Non l’avesse
mai fatto. Se Adone fosse nato nelle Highlands e se avesse fatto un turno in
pronto soccorso di trentasei ore di fila, sarebbe stato esattamente così:
sguardo limpido e intelligente negli occhi grigi, un’aria stanca sul volto
magro e incorniciato da una barba non fatta da almeno un paio di giorni, i
capelli scuri che ravviava con la mano dalle dita affusolate e robuste, le vene
in evidenza. Eccolo lì, davanti a lei, il cliché del sexy medico scozzese.
Alto, snello, spalle larghe, jeans e camicia azzurra con le maniche arrotolate
fin sotto al gomito.
“No. A meno che lei non abbia un dottorato in storia antica
e una specializzazione in archeologia.” Rispose Margherita, divertita suo
malgrado: “Lei ha l’aria di preferire l’azione delle corsie d’ospedale alla
meditazione. Nel mio mondo, l’azione è finita da un pezzo.”
“Quindi è dottore in Storia antica, eh?” Chiese Adone con
aria beffarda.
“Non vorrà mica giocare al gioco di chi è più dottore tra
noi, vero? Lei è medico, io sono un’archeologa. Ci siamo entrambi rotti la
schiena sui libri per un numero esagerato di anni. Non le è sufficiente?”
Mentre metteva il medico saccente al proprio posto, i pompieri arrivarono a
sirene spiegate e si diressero immediatamente con l’estintore sguainato verso
l’auto in panne.
“È stata fortunata. È una macchina così scassata che non è
riuscita nemmeno a prendere fuoco come si deve.” La rassicurò un pompiere
dall’aria simpatica dopo qualche minuto.
“È molto pratica. Non dovevo nemmeno premere la frizione
per cambiare marcia.” Spiegò Margherita sarcastica. E presa da un moto di
sconforto aggiunse: “E ora come la porto all’autonoleggio? Chissà quanto dovrò
pagare di danni…”
“Non si preoccupi.” Fece il pompiere convinto: “Chiamo io
il carro attrezzi e la faccio portare da Joe, all’autonoleggio di Eyemouth.
Sono sicuro che gli basterà un’occhiata per assicurarle che l’hanno fregata e
che quest’auto non era idonea a viaggiare per una distanza superiore ai due
chilometri. Per non parlare del fatto che non penso sia nemmeno un modello
legale in Europa. Non so come abbiano potuto importarla.”
Margherita annuì assente, continuando a osservare desolata
il suo veicolo abbandonato.
“Ross.” Interloquì Adone. “La dottoressa è sotto shock. La
porto all’ambulatorio e la visito per accertarmi che stia bene. Dopodiché la
accompagno da Bonnie. Mi dai una mano a caricare i suoi bagagli in macchina,
per piacere?”
“Venga, dottoressa. La porto allo studio.”
“Ho un appuntamento tra un’ora al massimo con la signora
Armstrong a Eyemouth…” iniziò Margherita confusa ma il medico le mise una mano
aperta sulla schiena e la spinse con delicatezza e decisione verso la propria
auto, mentre i pompieri caricavano la sua valigia, il suo zaino e un paio di
buste nel portabagagli dell’Audi.
Una volta salita a bordo Margherita cercò di fissare la
cintura di sicurezza ma Adone la precedette e si sporse su di lei per
allacciarla. Quindi fece il giro della vettura e si accomodò al posto di guida.
“Non era necessario.” Iniziò a protestare Margherita
imbarazzata.
“Eccome se lo era.” La contraddisse arcigno il medico: “Ha
una spalla danneggiata, forse dal trasportare quelle borse piene di macigni.”
“Sono libri, non sassi.” Ribadì Margherita offesa.
“Fra un attimo saremo all’ambulatorio. La visiterò e poi la
lascerò in pace.” Proseguì imperterrito il medico come se non l’avesse nemmeno
sentita.
Margherita azzardò
un’occhiata indagatrice. Osservò con curiosità
il suo salvatore: il profilo severo, il naso diritto, la bocca
leggermente piegata all’insù come a segnalare una prontezza innata al sorriso,
le guance ruvide e lo sguardo concentrato sulla strada davanti a sé, dava
l’impressione di una persona dall’intelligenza acuta e dallo spirito brillante.
Si domandò come doveva essere vederlo sorridere e si sgridò immediatamente. Era
in Scozia per ragioni importanti e serie e non aveva intenzione di lasciarsi
distrarre dal belloccio del villaggio. Soprattutto non da un medico saccente
che molto probabilmente la reputava stupida e si riteneva meglio di lei solo
perché aveva studiato una disciplina diversa dalla sua.
Il viaggio continuò in silenzio fino a Eyemouth, il
villaggio sperduto in cui si stava trasferendo per qualche mese a dirigere il
museo locale. Quando il suo professore a Cambridge aveva accennato alla
possibilità di sostituire l’anziano direttore del museo delle Highlands
dell’est per l’estate ci aveva pensato su all’incirca cinque secondi. Aveva
soppesato il fatto di non essere specializzata affatto nel periodo storico di
cui quel museo aveva reperti, non sapere granché della storia scozzese (in
nessun secolo) e il fatto di rinunciare definitivamente a fare quelle tanto
agognate e meritate vacanze al mare che rinviava ormai da tre anni. E aveva
risposto di sì. Museo piccolo o meno, scozzese oppure no, ma pur sempre di
un’esperienza di direzione e (sperava) curatela si trattava. Avrebbe fatto bene
al suo curriculum e al suo spirito di avventura. E il suo professore le aveva
chiesto un favore personale, dato che conosceva il direttore del museo, un tale
Dr. James McLachlan che ci aveva lavorato per gli ultimi venti anni e che ora
voleva andare quattro mesi nel sud della Francia a trascorrere del tempo con la
figlia che aveva appena avuto un bambino. Come poteva dire di no?
Era così persa nei propri pensieri che quasi non si accorse
che il suo accompagnatore aveva parcheggiato.
“Aspetti e non si muova.” Le intimò. E così dicendo uscì
dall’auto e facendo il giro venne ad aprirle la portiera. Margherita fece per
slacciare la cintura di sicurezza quando una fitta la bloccò all’istante. “Cosa
le avevo detto?” Ribadì aspro il medico mentre la liberava e l’aiutava ad
uscire dalla vettura.
Si erano fermati davanti a una casa di due piani dipinta
d’azzurro con le finestre circondate da un bordo blu oltremare, il tetto a
punta e le tapparelle chiare. Se non fosse stata così stanca e confusa,
l’avrebbe trovata deliziosa.
Margherita lo seguì fino alla porta dell’ambulatorio come
in trance e poi dentro lo studio. Era chiaro che quel giorno era stato chiuso.
Le serrande erano abbassate, le luci spente e la scrivania dell’assistente
nella sala d’attesa perfettamente in ordine.
“Si accomodi, prego.” La invitò il medico, avviandosi verso
una finestra. Premette un interruttore e le tapparelle si alzarono
automaticamente in tutta la stanza, inondandola di luce e rivelando una
scrivania di legno scuro, delle sedie imbottite, uno scaffale pieno di trattati
medici e un lettino per le visite. Il dottore si era lavato le mani con cura e
lei stava ancora soppesando la possibilità di scapparsene a gambe levate quando
si sentì dire: “Prego, si tolga la camicia.”
“Cosa? No!” Reagì d’istinto Margherita incrociando le
braccia sul petto. “Non se ne parla nemmeno! Secondo lei io vado in giro così,
a spogliarmi davanti a gente che non conosco? Lei potrebbe anche essere un
maniaco per quel che ne so!"
Lo vide spalancare gli occhi grigi per la sorpresa e vide
un sorriso sornione allargarsi sul suo volto stanco. Diamine, con un sorriso
così poteva stendere chiunque, pensò Margherita
tra l’incantato e l’infastidito.
“Il mio nome è Graham MacKay e, come ha intuito poco fa, ho
il privilegio di essere il medico di questo paese. Mi creda, non mi eccito a
guardare pazienti nude e doloranti.”, le assicurò.
Si ritrovò ad arrossire fino alla punta dei capelli. “Mi
chiamo Margherita… Margherita Ricci. Sono…”
“L’archeologa venuta da Cambridge a sostituire il vecchio
McLachlan mentre visita Annie a Tolone. È un paese piccolo, questo. La
conoscono già tutti.” La interruppe Graham.
“E ora, per cortesia, la smetta di tergiversare e mi permetta di
visitarla. Può trattarsi solo di uno stiramento o di qualcosa di più grave.
Devo decidere se farle una radiografia.”
Margherita slacciò i bottoni della camicia e dei polsini e
fece per togliersela quando il medico si fece avanti e la aiutò a spogliarsi.
“È gentile da parte sua ma avrei potuto farcela da sola.”
ribatté sempre più imbarazzata.
“Non ne dubito. Ma non ho ragione di aspettare mezz’ora e
assistere alle sue smorfie di dolore. Lei è stanca e io sono a pezzi.” Rispose
Graham. “Ora faccia un bel respiro e rilassi il braccio e le spalle.”
Margherita chiuse gli occhi e lasciò che le tastasse prima
la spalla destra e poi la spalla sinistra con mani fresche e asciutte e che le
muovesse il braccio sinistro con delicatezza in un paio di direzioni fino a che
si trovò ad esclamare per il dolore. Le tastò il polso e il gomito per
controllare il battito cardiaco e le fece domande sulle sensazioni che provava
mentre le toccava la pelle del braccio, della mano e delle dita, spiegandole
che nell’area della spalla ci sono molti vasi sanguigni e nervi.
“Non è grave.” Sentenziò infine il medico in tono
rassicurante. “Non abbiamo bisogno di radiografie. Sono certo che non si sia
rotta nulla e che non sia una lussazione. È uno stiramento fastidioso ma non
grave. Le prescriverò del Voltaren e dell’ibuprofene per il dolore e
l’infiammazione. Massaggi con cura la spalla tre volte al giorno. Torni da me
lunedì mattina e controlleremo il suo stato di salute e decideremo se ha
bisogno di una fascia.”
Margherita annuì, troppo stanca per controbattere. Le nove
ore di viaggio e l’eccitazione dovuta alla prematura dipartita della sua
vettura scassona stavano iniziando a farsi sentire.
“C’è altro?” Le chiese Graham guardandola con
preoccupazione: “Sente dolore da qualche altra parte? Si sente debole o le gira
la testa?”
Margherita scosse il capo in segno di diniego e fece per
prendere la carica e iniziare a rivestirsi. Nuovamente il medico la aiutò a
infilare le maniche, prima di tornare a lavarsi le mani e darle un po’ di
privacy per sistemarsi. Dopo un momento ritornò da lei e le posò entrambe le
mani sulle spalle: “Dottoressa, ho l’impressione che non si senta affatto bene.
Non mi dà l’idea di essere una persona così taciturna di solito, sbaglio?”
Margherita scosse nuovamente il capo e chiuse gli occhi. Si
stava per addormentare in piedi.
“Immagino che siano solo la stanchezza del viaggio e
l’adrenalina a causarle questa reazione. O la sto annoiando, per caso?”
L’archeologa aprì gli occhi di colpo e lo fissò per un
attimo prima di balbettare un no sconcertato. L’espressione seria sul
volto del medico si trasformò a poco a poco in un sorriso divertito e poi in
una risata franca.
“Venga, la accompagno da Bonnie. Mangi qualcosa, si faccia
una doccia calda, dorma per quattordici ore filate e vedrà che si sentirà come
rinata.”
3
Da venerdì a lunedì
Margherita
La signora Armstrong si era rivelata da subito una persona
gentilissima e un’ospite squisita. Era la proprietaria dell’hotel del paese e
aveva convertito le stanze di un’ala dell’albergo in appartamenti da affittare
a turisti che volevano un po’ di comfort in più o che si intrattenevano in
città per lunghi periodi. Si era presentata come Bonnie e aveva immediatamente
rotto il ghiaccio e bandito ogni formalità. Le aveva fatto trovare lenzuola
fresche, tulipani gialli in un vaso e un piatto di deliziosa sheperd’s pie
fatto in casa.
Margherita l’aveva ringraziata a profusione e aveva
mangiato con calma, godendosi i primi momenti di tranquillità da una settimana
a quella parte. Dopo cena si era fatta una
lunga doccia ristoratrice e si era massaggiata la spalla con la crema
che le aveva prescritto l’arrogante medico sexy. Mentre faceva assorbire la
pomata con lenti movimenti circolari si ritrovò più volte a pensare al loro
incontro. Quel bellimbusto era proprio il contrario del suo tipo ideale. Un
adone strafottente che ostentava il proprio disprezzo degli altri e che
dispensava condiscendenza con provocatoria noncuranza. Ma chi si credeva di
essere? Dr. House, forse? Che diritto aveva di trascinarla nel suo studio e
farle anche la ramanzina? Certo che per
essere un damerino era affascinante. Era scostante e prepotente ma anche
gentile e premuroso. Probabilmente aveva solo paura di venir denunciato per
omissione di soccorso, si disse Margherita, ma non riuscì a non pensare al
tocco deciso e fresco delle sue mani. Aveva sempre avuto un debole per le belle
mani, accidenti a lei. C’era un qualcosa di attraente nella loro poliedricità,
nelle infinite abilità che le contraddistinguevano. Le mani portano con sé
l’abilità di creare. Da loro nasce la musica, l’arte, la sperimentazione che
conduce all’invenzione e alla scienza e, perché no, anche la buona cucina. Le
mani rappresentano anche il senso del tatto, notò con interesse, mentre
indossava una camicia da notte di cotone leggero e si infilava sotto le
coperte. Si addormentò quasi all’istante, cercando di non immaginarsi come
sarebbe stato intrigante farsi fare un massaggio da lui e sperimentare le sue
mani eleganti e salde sulla sua pelle.
La mattina seguente verso le dieci si svegliò ristorata e
pronta a esplorare la sua nuova città. L’appartamento che le aveva dato Bonnie
era pratico e attrezzato alla perfezione. Due stanze con le pareti dipinte di
un bianco luminoso, una camera da letto confortevole e spaziosa con un letto di
legno chiaro, un armadio più che sufficiente a custodire le sue cose, uno
specchio grande e una scrivania alla finestra che dava sul porticciolo di
Eyemouth. La stanza principale fungeva sia da cucina che da soggiorno, con una
piccola isola centrale, un tavolo quadrato, un divano e un mobile tv con
annessa libreria. La scelta dei colori era rilassante, sui toni del bianco e
dell’azzurro e rifletteva il colore del cielo e del mare che poteva godere
dalle ampie porte finestre che si spalancavano su un piccolo terrazzino
affacciato sul porto. Il luogo perfetto per sedersi a sorseggiare un caffè e
godersi qualche momento di pausa. Si preparò e scese nella sala comune
dell’albergo dove Bonnie le aveva assicurato che avrebbe potuto sempre fare
colazione. Venne accolta da un sorriso smagliante. La proprietaria le preparò
del tè e le portò dei soffici scones, della marmellata alle fragole e del
burro. Dopo aver apparecchiato la tavola per due e portato della spremuta di
arancia e dei bicchieri, si sedette a farle compagnia.
“Non ti dispiace se faccio una pausa con te, vero?”, le
chiese gentilmente. Aveva l’aria tipicamente scozzese, la pelle diafana
spruzzata di lentiggini, i capelli rossi mossi e lunghi fino a sotto le spalle
e gli occhi che riflettevano il verde intenso della brughiera. Parlarono a
lungo come due amiche che non si vedevano da tempo. Bonnie aveva quarantadue
anni, era nata e cresciuta a Eyemouth e aveva sposato un suo amico d’infanzia,
Ewan Armstrong, quando aveva diciannove anni. Ewan lavorava con suo padre come
muratore e si era occupato della ristrutturazione della locanda quando i
genitori di Bonnie avevano deciso di andare in pensione e lasciare a lei la
direzione dell’hotel. Avevano due figli, di ventidue e vent’anni, John e Percy,
entrambi all’Università.
Margherita sfruttò l’occasione e le chiese informazioni
sulla cittadina, gli orari del supermercato e della farmacia, si informò sul
tempo e sulle attrazioni turistiche che avrebbe potuto visitare il fine
settimana. Il museo sarebbe stato chiuso per due o tre settimane, per darle il
tempo di ambientarsi, studiare la collezione e decidere se voleva apportare
modifiche all’esposizione. Il suo professore le aveva anche rivelato che, date
le dimensioni e la scarsa affluenza di visitatori, il museo era aperto solo una
domenica al mese e sempre chiuso al sabato, quindi sperava di potersi prendere
un po’ di tempo per esplorare quell’angolo di Scozia. Al termine della
colazione, Bonnie si offrì di accompagnarla al museo e presentarle i suoi
futuri collaboratori.
La breve passeggiata attraverso Eyemouth si rivelò molto
istruttiva. La cittadina di tremila e qualcosa abitanti conservava gran parte
del proprio carattere originario di villaggio di pescatori, con le sue stradine
strette, il porto e le imbarcazioni di legno colorate che sfidavano ogni notte
il mare per ritornare la mattina cariche di pesce fresco da vendere. Bonnie la
presentò a un paio di passanti che incontrarono sulla strada per il museo e le
mostrò un caffè gestito da una coppia di italiani che erano approdati lì
quindici anni prima per poi restare.
“Non so se sia un cliché ma fanno un ottimo caffè e hanno
dei croissant farciti alla marmellata che io trovo buonissimi”, aggiunse con
tatto Bonnie.
Margherita rise e rispose: “No, non è un cliché! Adoro il
caffè e le brioches alla marmellata. Credimi, mi hai dato un’informazione
preziosissima!”
Bonnie rise con lei e le promise di portarla a fare
colazione lì il giorno dopo, dato che il sabato mattina in genere era molto
tranquillo all’hotel.
Giunsero al museo dopo una passeggiata di pochi minuti e si
fermarono a rimirarlo dall’esterno. Era una larga costruzione su due piani, con
il tetto di ardesia scura e un portone d’ingresso laccato di un rosso vivace
che accoglieva i visitatori sulla piazza principale del paese.
“Allora,” chiese Bonnie curiosa: “cosa ne pensi?”
Margherita lo osservò per un attimo in silenzio prima di
rispondere: “Lo trovo affascinante. Non vedo l’ora di entrare!”
L’ingresso si apriva su un atrio con la biglietteria e un
guardaroba, entrambi deserti. Dopo aver attraversato l’atrio si accedeva
direttamente alle collezioni del piano terra: al primo sguardo sembrava che si
trattasse principalmente di una collezione di armi, ventagli e stampe. Il Dr.
McLachlan aveva ragione: un nuovo allestimento più moderno non poteva che
giovare a questo piccolo museo di provincia. In compenso, le sembrava che
avesse fatto un ottimo lavoro e la collezione pareva offrire ai visitatori
pezzi interessanti. Bonnie la condusse al primo piano lungo delle larghe scale
di legno scuro con i corrimano in ferro
battuto. Lì vennero accolte da un uomo sulla sessantina in un completo di tweed
dall’aria severa.
“Benvenute. Io sono William Fisher, il guardiano del
museo.” Iniziò l’uomo stringendo con cordialità la mano a Margherita e a
Bonnie. “Mia moglie Caroline e mia nipote Gwendolyn ci aspettano nell’ufficio
del direttore.” E così dicendo le accompagnò verso una porta di legno lucido
sul fondo della sala.
Margherita prese un bel respiro e si preparò. In fin dei
conti era qui per sostituire il direttore e doveva apparire competente e
preparata, anche se rimpiangeva il non aver avuto tempo sufficiente per
studiare le collezioni del museo con l’attenzione che avrebbe desiderato poter
dedicare loro.
Caroline era una donna all’incirca dell’età del marito,
vestita con un abito verde scuro lungo fino alle caviglie e i capelli color
cenere stretti in una crocchia severa dietro al capo. Le sorrise con gentilezza
e le presentò una ragazza di non ancora vent’anni, anche lei sorridente e in
evidente imbarazzo, Gwendolyn. Gwendolyn era la nipote dei due custodi e il
direttore le aveva offerto la possibilità di imparare il mestiere dai nonni. Aiutava
al museo tutti i fine settimana e d’estate. Aveva appena finito il liceo e
sarebbe andata a studiare storia dell’arte a St. Andrews in autunno.
“D’accordo.” Iniziò Margherita dopo le presentazioni:
“Mettiamoci al lavoro! Non vedo l’ora di conoscere i tesori di questo museo.”
Bonnie si congedò e le ricordò che la cena sarebbe stata servita alle sette.
Lavorò senza sosta per giorni, senza fare pause il sabato o
la domenica. Si fece guidare da William e Caroline attraverso le sale, fece
domande su tutti i reperti, notando con piacere l’interesse e la competenza che
i guardiani dimostravano. Le indicarono le principali attrazioni, raccontarono
leggende in proposito e le mostrarono i cataloghi e i dettagliati appunti del
Dr. McLachlan, come lo chiamavano sempre. Margherita fu positivamente colpita
dalla perizia del direttore e la sua impressione iniziale venne confermata. La
dovizia di particolari con cui descriveva ogni singolo pezzo era encomiabile.
Aveva anche preso nota di varie possibili soluzioni di allestimento in
alternativa a quella attuale e di tecniche museologiche all’avanguardia. Per
essere il direttore di un piccolo museo locale di un paesino sperduto negli
Scottish Borders, la sapeva decisamente lunga. Sotto la sua direzione il museo
aveva acquisito pezzi interessanti e di richiamo, come un delicato ventaglio di
epoca jacobita, dipinto a mano e montato su sottili stecchi di avorio
intagliato provenienti dalla Cina, un borsello di pelle di cervo che si
riteneva fosse appartenuto al celebre bandito scozzese Rob Roy MacGregor e il
reperto più significativo: un’enorme leonessa di pietra arenaria ritratta
mentre divorava il corpo di un uomo, probabilmente un Caledone, membro della
temibile tribù che diede per lungo tempo filo da torcere ai Romani, arrivando
persino a sfondare il Vallo di Adriano.
I primi giorni li dedicò allo studio minuzioso della
collezione. Alle sei e trenta in punto ogni sera lasciava il museo e tornava
all’hotel dove l’aspettavano Ewan e Bonnie. La cena per gli ospiti veniva normalmente
servita tra le cinque e le sette e mezza ma gli avventori erano pochi e per lo
più scozzesi, quindi verso le sei e mezza avevano già finito di mangiare tutti.
Bonnie aveva pensato, a ragione, che per la sua ospite italiana sarebbe stato
decisamente troppo presto e le aveva offerto di unirsi a lei e al marito. Ewan
era un uomo sui quarantacinque anni, prestante e disinvolto, con il volto e le
braccia abbronzate dal sole. Dopo quattro giorni Margherita poteva già parlare
di routine. Faceva colazione con Bonnie, un pranzo veloce al caffè italiano,
dove Marinella si premurava sempre di farle trovare insalate, piadine o piatti
di pasta perfetti, accompagnati dal caffè migliore che avesse bevuto da quando
si era trasferita in Gran Bretagna sette anni prima. A cena veniva accolta dai
sorrisi stanchi e cordiali dell’oste e suo marito che non vedevano l’ora di
farle domande sulla sua avventura al museo e di raccontarle storie divertenti
accadute al cantiere o in hotel.
Il lunedì mattina alle sette stava facendo colazione in
veranda con Bonnie quando vide il dottor MacKay passare di corsa lungo il molo
e si ritrovò a rimirare la sua forma slanciata, le spalle larghe, i folti
capelli scuri e i muscoli tesi delle gambe esposte dai pantaloncini corti.
“È un bel vedere, o sbaglio?” Chiese divertita Bonnie
guardandola di sottecchi.
Margherita sospirò prima di rispondere: “Mentirei se
dicessi che è l’uomo più brutto che abbia mai incontrato.”
“Mi hai posto molte domande in questi giorni ma non mi hai
chiesto nulla del tuo salvatore.” Continuò la padrona di casa.
“Non vedo cosa dovrei chiedere.” replicò Margherita. “Mi ha
trovata mezza stordita al bordo della strada, chiamato i pompieri e portata
qui, dopo un’imbarazzante sosta al suo ambulatorio condita da una ramanzina del
tutto non necessaria.”
“Una volta mi ha confessato di essere sempre piuttosto
brusco nelle situazioni che percepisce come potenzialmente pericolose. Non vuoi
sapere chi è o cosa lo ha portato a Eyemouth?” Chiese curiosa Bonnie.
“No, grazie Bonnie. Probabilmente pensa che io sia
un’imbranata completa. Meglio non indagare ulteriormente. Cercherò di stargli
alla larga e continuare a lavorare in pace.” Concluse l’archeologa con
convinzione. A cosa le avrebbe giovato sapere qualcosa in più sulla vita del
medico? Non avrebbe fatto altro se non alimentare il suo insano e
adolescenziale interesse nei suoi confronti. No, ne sarebbe stata alla larga.
Lontana da lui, dai suoi muscoli allenati, dalle sue spalle diritte e dalle sue
meravigliose mani. In fin dei conti, avrebbe dovuto resistergli solo quattro
mesi. Poteva farcela.
4
Da martedì a venerdì
Margherita
Stare alla larga dal medico di un paese che conta a
malapena tremila anime non è l’impresa più semplice da compiere. Soprattutto se
il medico in questione, accidenti a lui, fa jogging la mattina davanti a casa
tua, beve il caffè al bar dove vai per pranzo e beve una birra con gli amici la
sera al pub dove ti accompagnano i tuoi ospiti pensando di favorire la tua
integrazione. Non pensare all’uomo più affascinante che avesse mai incontrato -
senza contare il professor Lanzotti - risultava estremamente difficile.
Lanzotti, il mito dei suoi anni dell’Università, era la
ragione per la quale aveva frequentato il corso di Epigrafia greca,
potenzialmente una noia mortale e a tutti gli effetti uno dei corsi migliori
che avesse mai sperimentato. Ma la sua infatuazione immortale per lui non
contava perché Lanzotti aveva all’incirca trecento anni per gamba.
Sembrava destinata a incontrare il dottor MacKay ovunque
andasse, a qualunque ora del giorno o della notte. Il prossimo che le diceva
che i medici lavoravano tanto l’avrebbe sentita. Questo esemplare scozzese
trovava tutto il tempo di fare la pausa pranzo da Marinella, esattamente
all’ora in cui ci andava lei. Certo, si sarebbe potuta portare un panino in
ufficio ma come sopravvivere tutto il pomeriggio senza un caffè decente? Si
ripromise di adibire uno sgabuzzino con la finestra che aveva visto al primo
piano del museo, proprio accanto al suo ufficio, a cucinotto e di piazzarci una
bella piastra a induzione, così da poter mettere in azione la sua fidatissima e
rodatissima Bialetti bianca.
C’erano molti aspetti di lei che non si conformavano
all’identità della classica italiana all’estero, questo l’aveva sempre saputo.
Non cercava la compagnia di altri italiani, ad esempio. Se capitava, bene,
altrimenti si godeva il caos multicolore dei colleghi internazionali, stranieri
come lei in terra d’Albione, e dei colleghi britannici più aperti. Ma quando si
parlava di caffè era irremovibile. In questo era italianissima. E Bonnie aveva
avuto fiuto nel parlarle di Marinella. La barista di Otranto faceva un caffè
straordinario, tostato al punto giusto, e lo accompagnava con quell’ospitalità
gradevole ma non invadente che piaceva a lei.
L’unica nota positiva di questi numerosi quanto involontari
incontri giornalieri era che il dottore non sembrava intenzionato a parlare con
lei. Si scambiavano dei saluti cortesi o dei cenni del capo, niente di più.
Dopodiché lui si rituffava a leggere il libro che aveva sempre con sé e lei si
godeva una mezz’ora di pausa dal lavoro, assaporando con calma i manicaretti
della sua connazionale e discutendo con lei di politica e delle comuni
preoccupazioni da emigranti per il rischio di una Brexit senza accordo che
facevano eco dalle pagine dei quotidiani nazionali. Il medico scozzese non
faceva alcun tentativo di scambiare due parole con lei. Mangiava leggendo, poi
metteva da parte il suo libro con cura e si beveva una tazzina di caffè nero in
religioso silenzio. Dopodiché si alzava, salutava Marinella con calore, faceva
un cenno a Margherita e se ne andava.
La sera del martedì seguente al suo arrivo, Ewan e Bonnie
l’avevano invitata a fare due passi fino al Cheerful Chub e a bere una pinta con
loro. E il copione si era ripetuto come a pranzo. Il dottor MacKay era già al pub con un gruppo
di amici quando entrarono. Bonnie la prese per mano e la condusse direttamente
da loro, mentre Ewan andava a fare due chiacchiere con il proprietario e a ordinare
le loro birre. Nonostante il nome ridicolo, il Cheerful Chub era un pub di
tutto rispetto. Con il bar a un lato della stanza, tavoli e sedie lungo le
pareti coperte di legno, tv al plasma localizzate in punti strategici per
permettere agli avventori di godersi le partite di cricket e calcio più
importanti e uno spazio dedicato alle band scozzesi che si esibivano qui il
sabato sera, il locale preferito di Ewan ti accoglieva con la sua atmosfera
rilassata e tradizionale al tempo stesso.
“Tu sei la famosissima Margherita!” esordì un uomo sulla
quarantina con i capelli brizzolati e l’aria serena di chi è in grado di
affrontare la vita senza farsi troppe paturnie. “Bonnie non vedeva l’ora di
conoscerti!”.
John, questo il suo nome, era stato nella RAF per quindici
anni prima di ritirarsi a vita privata e tornare alla natia Eyemouth con la
moglie Felicity. Insieme avevano rilevato l’emporio e si godevano la vita
civile. Margherita fu grata della loro presenza. John era socievole e
estroverso e aveva viaggiato molto. Era stato a lungo in Spagna e in vari paesi
del Nord Africa, prima di essere mandato in Afghanistan e di fare ritorno in
Scozia. Lui e Felicity monopolizzarono la conversazione per tutta la serata,
mentre Graham non proferì quasi parola e si congedò presto.
Nonostante l’evidente disinteresse e probabile disprezzo
del medico nei suoi confronti, Margherita non poteva fare a meno di esserne
attratta. La mattina seguente al loro incontro al pub, si svegliò persino da un
sogno non del tutto innocente che coinvolgeva l’antipatico Adone e del gelato
al cioccolato. Si ammonì con un Tirati insieme! direttamente tradotto
dal dialetto bergamasco della nonna materna, si fece una doccia inutilmente
fredda e si buttò a capofitto nel lavoro. Per fortuna, quello le riusciva
benissimo e le permetteva di scordarsi quelle folli e surreali fantasticherie
post-adolescenziali che l’accompagnavano da quando aveva messo piede a
Eyemouth. Non era proprio da lei perdersi in fantasie erotiche e questa
stranezza la confondeva. In genere era un tipo molto pragmatico e amava andare
subito al sodo. Al tizio in questione non piaceva per niente, oltre al fatto
che continuava a non essere il suo tipo. A lei piacevano strambi, cervellotici
e senza abilità pratiche, se doveva usare la (piuttosto breve) lista dei propri
partner passati come indizio. Questo medico dal corpo tonico e dai muscoli
torniti come quelli di un eroe greco e lo sguardo da intellettuale che
trasudava mascolinità da ogni poro non rientrava affatto nella categoria dello
sfigato intellettualmente dotato ed emotivamente disadattato con cui finiva
sempre per ritrovarsi. Per non parlare del fatto che il gelato al cioccolato
non le era mai nemmeno piaciuto. Concentrarsi del tutto sul lavoro era la
scelta migliore che potesse prendere, si disse. Era una grande occasione, dopo
tutto. Non c’era motivo di sprecarla.
Il venerdì, dopo poco più di una settimana di studio
approfondito e analisi delle più svariate opzioni per un nuovo allestimento, si
avventurò nel primo tentativo di modifica alla disposizione dei reperti.
L’accordo con il Dr. McLachlan e il suo professore era proprio quello di
portare una ventata di aria fresca nel piccolo museo e cercare di rendere più
accessibile e comprensibile l’esposizione. Si fece aiutare da Gwendolyn
nell’impresa: la aiutò a spostare oggetti da una sala all’altra, discusse con
lei possibili nuovi allestimenti e la seguì nei primi tentativi di migliorare
quello esistente. Alle cinque la loro prima giornata di preparativi si concluse
con un buon tè ristoratore. Verso le sei Margherita si ritirò nuovamente nello
studio del direttore per indagare su alcuni reperti che aveva trovato in
magazzino un paio di giorni prima e cercare su Google qualche informazione a
riguardo.
5
Il secondo venerdì di giugno
Margherita
“Non è anatomicamente corretto.” Fece una voce profonda
alle sue spalle: “Se posso permettermi di esprimere un’opinione professionale.”
Margherita era ancora molto assorta nelle proprie
riflessioni e iniziò: “Non credo fosse quello l’intento del…” prima di
congelarsi all’istante.
“Graham… Dottor MacKay,” si corresse alzandosi dalla sedia
e andando a stringergli la mano: “a cosa devo il piacere di questa visita?”,
disse con il tono più professionale che riuscì a evocare.
“Sono venuto a controllare di persona come si sentisse,
dottoressa Ricci.”, rispose il medico con fare severo. “Le avevo chiesto di
tornare all’ambulatorio dopo un paio di giorni dall’incidente ma non si è fatta
vedere per più di una settimana. Ho chiesto notizie di lei a Bonnie e mi ha
detto che è stata molto impegnata con il lavoro qui al museo. Non sono molti i
pazienti ribelli da queste parti.”
Margherita intravide un sorriso beffardo e replicò: “È
molto cortese da parte sua ma sto bene. È per questo che non sono venuta da
lei. Ho pensato che non fosse necessario.”
“Ah, i pazienti che pensano sono i miei preferiti.”,
rispose con un ghigno poco rassicurante. “Se davvero sta così bene, mi spiega
come mai protegge il lato sinistro?”
“Ho detto che sto bene,” ribatté Margherita con fastidio:
“non ho mai detto che la mia spalla sia tornata del tutto a posto. Ma non credo
che un po’ di ibuprofene e di Voltaren possano fare dei miracoli in così poco
tempo. Immagino che ci vorrà un po’ di pazienza.”
“Non ho mai sostenuto di poter compiere miracoli. Ma sono
il suo medico, anche perché non ne può trovare un altro da queste parti, e ho
il dovere di seguire il decorso…”
“Il suo senso del dovere è encomiabile.” Lo interruppe
Margherita stizzita. Non aveva voluto dare quel tono acido alla sua risposta ma
era capitato. Inspiegabilmente, l’idea di essere solo un to-do sulla
lista del medico la infastidiva.
Il dottor MacKay non le sembrò offeso, quanto piuttosto
divertito. Le sorrise con gentilezza e cambiò argomento anche se solo per un
attimo: “Parliamo del manuale di istruzioni di quel dildo medioevale che stava
studiando. Poi torneremo a parlare della sua spalla e del perché lei abbia
chiaramente sollevato dei pesi nonostante il dolore e contrariamente alle
istruzioni del suo medico.”
“Non…” Margherita decise che era meglio lasciare perdere.
Quell’uomo era uno squalo, non avrebbe mai mollato la presa comunque.
“Innanzitutto, non è di epoca medioevale ma risale agli inizi-metà
dell’Ottocento.” iniziò. “In secondo luogo, questo non è un manuale di
istruzioni, ma una scheda per la catalogazione di un reperto facente parte di
una collezione museale.”
“È molto precisa nel suo lavoro, o sbaglio?” Di nuovo quel
sorriso divertito.
“La precisione è essenziale nel mio lavoro. E se sta per
iniziare con la solfa su quanto possa essere noioso catalogare reperti, mi
creda, l’ho già sentita.”
“È noioso?”, chiese il medico con tono neutro.
“Trova affascinante studiare parti del corpo, analizzarle e
catalogarle?” Chiese lei di rimando.
“Dipende dalla parte del corpo di cui stiamo parlando.”
rise Graham.
“La catalogazione e registrazione sistematica di dati e documentazione relativa a un bene museale è qualcosa di simile. È uno strumento di indagine imprescindibile che fornisce un potente supporto sia alle attività di conservazione e valorizzazione sia alla gestione più prettamente amministrativa delle collezioni. Per non parlare del fatto che ci permette di individuare una relazione tra il bene in questione e il contesto storico-culturale che l’ha prodotto.” Recitò praticamente a memoria. Aveva tenuto le lezioni del corso di museologia a Cambridge per i due anni precedenti. Perché ci tenesse a fare la figura della secchiona noiosa proprio non lo sapeva. Era un ruolo che le dava sicurezza, che la faceva sentire meno vulnerabile.
“Nel caso di quel dildo sovradimensionato, per esempio?”
Chiese con fare interessato il medico, che sembrava non preoccuparsi di quanto
nerd fosse la sua interlocutrice.
“Nel caso in questione stiamo parlando di un fallo
ornamentale, una riproduzione di un bronzo antico.” Replicò Margherita.
“Ci sono falli ornamentali sovradimensionati nella
collezione del museo?” Chiese nuovamente Graham senza mollare la presa.
“La sua ossessione per le dimensioni di questo oggetto non
depone a suo favore, dottore.” Ribatté Margherita ormai divertita dal
battibecco.
“Sono pronto a fugare ogni dubbio al riguardo.” Rispose il
medico fissandola negli occhi con aria di sfida.
Margherita vacillò per un secondo prima di ribattere: “No,
grazie. E comunque non abbiamo falli ornamentali nella nostra collezione.”
Decise di cambiare argomento tornando a parlare della collezione del museo. “In
questi giorni ho studiato i reperti esposti e sto pensando di modificare il
percorso espositivo per aggiornarlo e renderlo più fruibile al pubblico. Sono
anche andata a investigare nei magazzini per vedere cos’altro appartiene alle
collezioni del museo. Non c’è molto di non esposto. A parte una stanza piena di
reperti che non riesco a inquadrare…”
“In che senso?” Il medico ora sembrava genuinamente
interessato alle sue considerazioni e Margherita decise di raccontargli della
scoperta fatta in magazzino.
“Ho trovato una stanza al piano interrato. È bene
organizzata e i reperti sono esposti secondo un ordine che non sembra casuale.
Sembrano in parte strumenti di tortura, in parte… non saprei. Non è esattamente
il mio campo.” Ammise. “Ad ogni modo, non voglio annoiarla.”
“Non mi annoia, anzi, mi ha incuriosito.” Replicò il dottor
MacKay. “Sarei curioso di vedere questa stanza. Forse posso esserle utile.
Credo di sapere di che parte della collezione si tratta. Tornerò quando avrà un
po’ di tempo per mostrarmela. Nel frattempo, mi racconti della sua
spalla.”
“Non c’è molto da raccontare. Fa male. Soprattutto la sera
e di notte se mi giro sul lato sbagliato. Ma credo stia migliorando.” Rispose
onestamente Margherita.
“Davvero non vuole che ci dia un’occhiata?” Chiese il
medico serio.
“Mi dia ancora un paio di giorni. Le prometto che verrò
subito da lei in caso il dolore non si attenui o peggiori.”
“E sia.” Concesse paziente il dottore passandosi una mano
tra i folti capelli castani. “Ma non faccia la coraggiosa. Non c’è
assolutamente ragione di tollerare del dolore senza motivo.”
“C’è mai una ragione valida per sopportare del dolore?”
Chiese incuriosita Margherita.
Il dottor MacKay rise di gusto e rivelò una fossetta sulla
guancia destra appena velata di barba. “Si vede che è un’archeologa! Certo che
sì. Mai sentito parlare di parto?”
“Mai sentito parlare di epidurale?” Rispose lei senza
pensarci.
Il medico rise nuovamente di gusto. “Devo averla sentita
menzionare da qualche parte.” E tornando serio aggiunse: “Purtroppo non elimina
del tutto il dolore del parto ma, ha ragione, elimina la parte peggiore.” La
osservò per qualche secondo in silenzio prima di dirle: “Sento l’impulso di
porle alcune domande, ma credo che sarebbero inappropriate, soprattutto nel suo
luogo di lavoro.”
Margherita fu a dir poco sorpresa da questa sua confessione
e, invece di svicolare con grazia ed evitare il pericolo, si ritrovò a
invitarlo a casa sua per parlarne ulteriormente. Mai che riuscisse a collegare
il filtro cervello-bocca! Come c’era da aspettarsi in una situazione del
genere, Graham sorrise e accettò di buon grado. Il percorso dal museo fino a
casa le sembrò particolarmente lungo. Come al solito quando era in imbarazzo
parlò a vanvera per riempire il silenzio carico di disagio che era certa ci
sarebbe stato. Gli raccontò della sua ultima campagna di scavi, della fatica di
lavorare a maggio sotto il sole già infuocato della Sicilia, della stanchezza
feroce che si impossessava delle membra dopo quattordici ore di lavoro
ininterrotto, del sollievo serale quando finalmente poteva concedersi una
doccia e lavare via la sabbia e il sudore sotto lo scroscio dell’acqua tiepida,
della dolcezza della brezza marina che si godeva al tramonto in quell’angolo
incantato di mondo.
Il medico si rivelò un ascoltatore attento e interessato.
Le chiese del suo lavoro, dei ritrovamenti fatti e dei suoi interessi
professionali. Se al loro primo incontro le era sembrato disprezzare la sua
formazione, ora sembrava genuinamente affascinato dal suo racconto. Giunti
davanti all’hotel le chiese se non la stesse per caso disturbando. Erano quasi
le sette e Bonnie gli aveva raccontato che spesso cenavano verso quell’ora.
“È molto cortese da parte sua.” Rispose Margherita. “Ma
stasera avevo deciso di cenare da sola. Sono stata al supermercato ieri e ho
fatto provviste. Cenare con Bonnie e Ewan è piacevole ma è uno dei pochi
momenti che possono trascorrere insieme e non mi va di essere d’intralcio. La
mattina faccio spesso colazione con Bonnie, invece, perché Ewan esce molto
presto. Stasera intendevo preparare della pasta al pesto. Le piace?”
Graham espresse tutto il suo apprezzamento per la scelta
del menù e la seguì fino al suo appartamento.
Una volta entrati piombarono nel tanto temuto silenzio.
Dopo averlo invitato a mettersi comodo, Margherita si affrettò ad aprire le
porte finestre che conducevano al terrazzino affacciato sul porticciolo,
inspirò a fondo la frizzante aria salmastra e si mise a trafficare nella
graziosa cucina a vista. Riempì una pentola d’acqua, preparò il sale, la pasta,
il vasetto del pesto, lo scolapasta e stava per accendere il piano cottura a
induzione quando sentì una mano calda posarsi sulla sua spalla destra.
“Prima che lei inizi a cucinare, possiamo parlare?” Le
chiese Graham a voce bassa, una voce profonda, armoniosa e mascolina che la
lasciò per un momento interdetta. Annuì nervosa e lo seguì poco distante dai
fornelli.
“Innanzitutto le chiedo di permettermi di controllare lo
stato della sua spalla.” Iniziò lui, sorprendendola. “Le prometto che sarò
rapido ed efficiente, ma voglio essere sicuro di non aver trascurato una
paziente, non ci sono abituato.” Margherita annuì di nuovo, fece un respiro
profondo e chiuse gli occhi, lasciando che il medico le tastasse la spalla e
che le muovesse il braccio avanti e indietro e dietro la schiena. “Le fa male
così?” Chiese il dottor MacKay con interesse.
“Un po’.” Rispose Margherita con onestà, e si affrettò ad
aggiungere: “Non come settimana scorsa, molto meno.”
“Bene.” Concluse Graham: “Ora che mi sono accertato che lei
non abbia bisogno di me in quanto medico, posso chiederle il privilegio di
parlarle in modo meno formale?”
Lo sguardo di Margherita si fissò sul suo volto, illuminato
da un sorriso che la sua amica Sara avrebbe senza dubbio descritto come sorriso
killer: uno di quei sorrisi devastanti che ti fanno perdere il senso del tempo
e dell’equilibrio e che dovrebbero essere proibiti per legge.
“C… Certo.” Balbettò quasi, ma si riprese velocemente:
“Permesso concesso.”
Quel sorriso la stese per la seconda volta in meno di
trenta secondi.
“Posso chiamarti per nome?” Si accertò lui.
“Certo, Graham.” Rispose, prendendolo in giro.
“Mi piace come arrotoli la erre, quasi ad assaggiare il mio
nome, Margherita.” Replicò Graham sorprendendola di nuovo e non storpiando
affatto la pronuncia del suo nome italiano come facevano i colleghi di
Cambridge. “La gente della zona di Edimburgo dove sono cresciuto usa una erre
vibrante come la tua.” Spiegò, divertito dallo stupore che le si era stampato
in volto.
“Hai detto di sentire il bisogno di pormi delle domande.”
Lo interruppe Margherita che preferiva sempre andare dritta al punto. Girare
attorno a una questione scottante non faceva per lei, prolungava solo l’agonia,
dal suo punto di vista.
Graham annuì e si passò una mano tra i capelli in un gesto
che tradiva un’insicurezza che non gli avrebbe mai attribuito.
“Hai ragione.” iniziò: “Posso chiederti quanti anni hai?”
“Trentuno.” Rispose perplessa.
“Quindi ti è già capitato di venire visitata da un medico.”
Continuò lui.
Non le era chiaro se si trattasse una domanda o
un’affermazione, quindi rispose di sì. Ovviamente aveva incontrato dei medici
prima di quel momento, anche se non era mai stata in ospedale.
“Posso chiederti come mai reagisci così al contatto
fisico?”
“Così come?” Questa era decisamente una domanda strana.
“Come se provassi un senso di repulsione e angoscia.”
Margherita sbarrò gli occhi per la sorpresa. Stava per obiettare quando lui la
interruppe e continuò: “Lascia che mi spieghi meglio: serri gli occhi come se
stessero per torturarti, il tuo cuore inizia a battere all’impazzata e ti
irrigidisci all’istante. È una reazione al concetto di visita in sé o è
repulsione che provi nei miei confronti soltanto?”
“Cosa? No!” Esclamò alzando la voce più di quanto avrebbe
voluto: “Non c’entra niente la repulsione, credimi!”
“Non devi giustificarti con me.” Aggiunse Graham con
delicatezza: “Ma se volessi spiegarmi, mi aiuteresti a capire se faccio
qualcosa di sbagliato.”
“Non fai nulla di sbagliato. Sono… sono io che sono
stupida. Scusami.”
“Innanzitutto permettimi di dissentire. Se c’è qualcuno di
non stupido in questa stanza, sei tu. In secondo luogo, non c’è ragione per cui
tu ti debba scusare.”
“Oh sì, sì che c’è!” Dichiarò con enfasi e il filtro che
avrebbe dovuto funzionare si inceppò come al solito quando era nervosa: “Non
dovrei reagire così ma non riesco a evitarlo. È normale che un medico ti tocchi
una spalla e di solito non mi agito ma con te… non riesco… non riesco a vederti solo come un medico… mi
sembra di essere una ragazzina alla prima cotta…” e si paralizzò all’istante,
non appena si accorse di cosa si era lasciata sfuggire. Guardò con orrore il
bel volto stupito di Graham passare dallo sconcerto a un quieto divertimento.
“Provi attrazione nei miei confronti?” Le chiese con voce
bassa e seducente. Margherita sentì l’impulso di fare un passo indietro nella
speranza di essere ingoiata da una voragine apparsa come per magia nel
pavimento, ma un braccio solido bloccò il suo improbabile tentativo di fuga.
“Rispondimi.” Le intimò con voce ferma e virile.
“Sì. Non so come scusarmi. Non è qualcosa che mi capita…
Potresti essere sposato con figli per quanto ne so.”
“Non sono sposato e non ho figli. E mi sembra di averti già
detto che non hai ragione di scusarti.” Spiegò il medico sfiorandole la guancia
con il dorso della mano. Ci fu un momento di silenzio e poi Graham ammise:
“Normalmente non avrei lasciato un paziente soffrire da solo per una settimana
senza controllare come si sentisse, indipendentemente da quanto cocciuto possa essere
il suddetto paziente o leggero il suo infortunio.”
Margherita, che aveva iniziato a fissare ostinatamente il
pavimento e desiderare di svanire in una nuvola di fumo dato che l’agognata
voragine tardava a spalancarsi, sollevò di scatto gli occhi su di lui.
“Se l’ho fatto è perché non mi sono mai trovato in una
situazione del genere prima.”, aggiunse passandosi nervosamente la mano tra i
folti capelli scuri. “Di solito non vedo che un paziente davanti a me, un
problema da comprendere, un’emergenza da risolvere… Con te è tutto diverso.
Vedo una donna, attraente e intelligente. Sento i tuoi muscoli fremere, il
battito del tuo cuore accelerare e vorrei stringerti forte a me, consolarti e
rassicurarti.” Margherita si sforzò di chiudere la bocca, perché era certa di
fissarlo come un’ebete. “Ed è qualcosa di totalmente inaspettato. Ho cercato
con poco successo di evitarti per una settimana, pensando che fosse stata solo
la stanchezza di un turno di troppo in pronto soccorso e la straordinarietà del
nostro incontro che mi faceva provare qualcosa di diverso nei tuoi confronti.
Ma rivederti stasera concentrata davanti al computer e ascoltare il tuo
racconto appassionato ha confermato i miei sospetti. Se la cosa ti disturba,
ovviamente, posso riferirti a una collega a Berwick. Non è comodo come avere un
medico nel paese ma non è distante da qui, sono al massimo tredici chilometri.”
“Stop!” Intimò Margherita. “Perché mai dovrebbe
disturbarmi? Ti ho appena confessato una cotta adolescenziale, dopotutto.” E
scoppiò una risata a metà tra il nervoso e il divertito. Graham rise di gusto,
lasciò la presa e fece un passo indietro.
“D’accordo, teenager troppo cresciuta, prepariamo questa
pasta al pesto, mettiamoci a tavola e ricominciamo tutto da capo.”
*****
L’iniziale imbarazzo si sciolse presto in una conversazione
piacevole e rilassata. Graham studiò con attenzione ogni sua mossa durante la
preparazione della pasta. Si mostrò stupito e soddisfatto quando la vide
mescolare un po’ dell’acqua salata di cottura con il pesto che aveva
distribuito nei due piatti fondi e quando lei gli rivelò di lasciare cuocere la
pasta sempre per uno o due minuti di meno rispetto al tempo suggerito sulla
confezione.
“Questa pasta sembra deliziosa!” Esclamò entusiasta dopo
che si furono seduti a tavola, inspirando a fondo il profumo intenso ed erbaceo
del pesto che li avvolgeva invitandoli ad assaggiare. “Buon appetito!”
Prese una forchettata con tre penne e se le infilò in
bocca, chiudendo gli occhi grigi in un moto di appagamento che la fece
sorridere. Il burbero medico bacchettone era scomparso per lasciare posto a un
uomo allegro e spensierato che si godeva la vita una penna alla volta.
“Lo ammetto.” Disse dopo i primi tre o quattro bocconi
masticati in religioso silenzio: “Quando ho visto il pacchetto di pasta Barilla
e il vasetto di pesto non mi aspettavo questo risultato.”
“È ovvio,” ribatté lei sorridendo: “le trofie e il pesto
fatti a mano sono meglio, ma se non le sai cucinare viene comunque fuori un
pasticcio appiccicoso. Non dovresti mai sottovalutare il potere di una cottura
al dente e di esperienza in cucina, mio giovane Padawan.”
“E mai più li sottovaluterò, o saggio Yoda.” Replicò divertito. “Sei bravissima. Non vedo
l’ora di provare a riprodurre questo capolavoro! Non sapevo che si dovesse
mettere l’acqua della pasta nel pesto.”
“Lo ammetto: non so se sia considerato un crimine da
ergastolo in Liguria. Io lo faccio sempre. È un trucco che mi ha insegnato mia
nonna.” Spiegò Margherita. “Mi piace ottenere un sugo cremoso, anche quando non
posso farlo in casa. La pasta al pesto è una di quelle cose facili da preparare
anche se hai solo un fornellino a gas o se vivi in un appartamento in affitto
con una cucina dell’anteguerra divisa con altri quattro studenti.”
“Un pasto degno di un re, cucinato con gli attrezzi di un
servo.” Asserì Graham, al quale il buon cibo sembrava stimolare lo spirito
filosofico.
“Esattamente.” Rise Margherita divertita. “Da noi si dice fare
di necessità virtù.”
“In inglese diciamo che la necessità è la madre
dell’inventiva.” Spiegò il medico.
“E, dimmi, cosa ti ha spinto a creare la necessità?” Chiese
Margherita curiosa, prima di rendersi conto che non tutti si erano trovati in
situazioni nelle quali bisognava essere creativi e che una domanda del genere
poteva essere male interpretata. “Aspetta, non intendevo suggerire che…”
“Non ti preoccupare.” La tranquillizzò Graham posando una
mano sulla sua. “Ho capito cosa intendi.” E continuò senza spostare la mano.
“Vengo da una famiglia piuttosto benestante di Edimburgo. Ho studiato medicina
a Oxford e mi sono specializzato in medicina d’urgenza a Londra. I miei
genitori mi hanno finanziato gli studi, generosamente devo aggiungere, e non ho
mai vissuto in un appartamento con altri quattro studenti o dovuto lottare con
una cucina dell’anteguerra. A Oxford avevo una stanza singola con il bagno e la
mensa del Christ Church College era più che accettabile e a Londra mi potevo
permettere il mio appartamento vicino all’ospedale. In compenso, ho avuto a che
fare con fornellini a gas e con un rancio degno della Legione Straniera durante
la guerra d’Algeria mentre ero via con i Medici senza Frontiere.”
“Eri nei Medici senza Frontiere?” Chiese stupita
Margherita. Una scelta decisamente non convenzionale per qualcuno con
un’educazione così raffinata e una famiglia così facoltosa. Lavorava a
Cambridge e conosceva i costi per gli studenti. Qualcosa che di certo i suoi
genitori, entrambi insegnanti, non si sarebbero mai potuti permettere.
“Sì.” Rispose annuendo: “Ho iniziato come volontario al
terzo anno di università. I miei genitori si sono opposti per un po’ ma non mi
sono lasciato distogliere dal mio proposito. C’era una componente egoistica nel
mio desiderio di partire. Da una parte volevo aiutare persone meno fortunate di
me, dall’altra, lo ammetto, ero curioso di vedere come funzionavano gli
ospedali in altre parti del mondo, ero impaziente di fare esperienza sul campo
e non volevo aspettare.” Lo sguardo si perse nel vuoto mentre raccontava e
ricordava: “Mi mandarono in Sudan. Il mio compito era aiutare i medici in un
ambulatorio ginecologico. Fu un’esperienza che mi aprì gli occhi. Incontrai
volontari fantastici, che lottavano con le unghie e con i denti per
salvaguardare la vita delle proprie pazienti, o quel che ne restava. Assistei
ai tentativi quasi disperati di aiutare delle ragazze violentate dai soldati di
forze governative e alle battaglie burocratiche che ne seguirono. Da quel
momento in poi passai ogni estate e ogni momento di vacanza in missione. Dopo
la laurea e la specializzazione ho lavorato per due anni con MSF. Sono stato in
Uganda, Rwanda, Yemen, Sicilia, Cecenia e Siria.”
“Sono impressionata.” Lo interruppe Margherita. “È un
lavoro meraviglioso e pericoloso allo stesso tempo, se si può parlare di
lavoro. Mi ricordo come fosse ieri le immagini del bombardamento ad Aleppo in
cui venne anche colpito un ospedale di MSF. Sei un uomo molto coraggioso.” E si
bloccò quando vide il volto rilassato di Graham contrarsi in un’espressione
addolorata.
“Ti chiedo scusa,” si affrettò a correggersi: “non volevo
ricordati un episodio così doloroso. È stata una mancanza di tatto
imperdonabile da parte mia.” E decise di raccontare a Graham di Khaled:
“Conoscevo di vista Khaled al-Asaad, il direttore del sito archeologico di
Palmira che venne torturato e poi decapitato tre anni fa. Ci andai un paio di
estati per lavorare alla mia tesi di laurea. Era sempre indaffarato, aveva un
ufficio piccolissimo pieno di libri, articoli e scartoffie di ogni tipo. Facevi
fatica a trovare una sedia libera per parlare con lui, eppure era sempre
disponibile a discutere con gli studenti di archeologia e ad aiutarli con il
loro lavoro di ricerca. Ciò che rende Palmira eccezionale è la commistione di
elementi della tradizione greco-romana con quella locale. C’era un’Agorà, una
sorta di Senato che ricorda la Boulé greca e in alcuni monumenti funebri sono
state ritrovate delle mummie preparate secondo canoni simili a quelli
dell’Antico Egitto. So che il valore di un paio di mattoni e di colonne può
sbiadire di fronte alle atrocità commesse contro la vita umana ma il dolore che
deve aver provato Khaled all’idea che tutto ciò che aveva preservato e per cui
si era battuto per una vita intera fosse distrutto da un paio di mostri senza
rispetto per la Storia deve essere stato inimmaginabile.”
“Non hai bisogno di scusarti.” La rassicurò Graham. “Non
credere che io sia una di quelle persone che non riconosce il valore delle
opere d’arte e dei monumenti antichi. Quello che gli archeologi fanno è encomiabile.
È vero, noi medici ci battiamo affinché la vita umana sia rispettata e la
sofferenza e la morte siano dignitose, ma ciò che fate voi è assicurarvi che ci
sia qualcosa per cui valga la pena battersi. La Storia ci insegna molto e se
solo fossimo capaci di comprenderla ed ascoltarla, il nostro mondo sarebbe un
luogo migliore.”
Si passò una mano tra i capelli e con l’altra si strinse le
guance e il mento in un gesto nervoso prima di confessare: “Ero ad Aleppo.
Quando l’ospedale fu bombardato. Ma non ero di turno. Avevo preso un giorno per
riprendermi da due operazioni particolarmente complicate. Chiesi ad un collega
di sostituirmi. Stavo tornando all’ospedale quando venni colpito da una
scheggia volante. Ora lui è morto, insieme a molti altri e ai pazienti che
avevo operato e io sono vivo, con una cicatrice ridicola sulla schiena a
ricordarmi quanto sia stato fortunato.”
Graham fece una pausa e chiuse gli occhi in un moto di
dolore: “Dici che sono un uomo coraggioso. Ma non è vero. Se fossi coraggioso,
non mi sarei rintanato in un paesino sperduto della Scozia a leccarmi le ferite
ma sarei ritornato sul campo, là dove hanno bisogno di me.” Così dicendo si
alzò, distolse lo sguardo da lei e lo fissò ostinatamente sulla finestra aperta
sul cielo notturno, i pugni stretti, le nocche bianche per la tensione e le
labbra tirate dalla disperazione e la rabbia. Margherita balzò in piedi e lo
abbracciò. Lentamente sentì la tensione lasciare i suoi muscoli e si ritrovò
cinta in un abbraccio stretto e carico di pensieri non espressi per troppo
tempo. Dopo qualche minuto, la stretta si fece più morbida e più rilassata e
Margherita gli baciò delicatamente il petto all’altezza del cuore. Graham
rispose con un leggerissimo bacio sulla testa.
“Conosci il termine gaelico cwtch?” Le chiese con
voce sommessa e sognante.
“No, ma è appena entrata nella top ten delle parole meno
musicali che abbia mai sentito! Appena sotto Streichholzschächtelchen, una
dolcissima parola che indica una scatoletta di cerini in tedesco.” Lo sentì
ridacchiare, il petto che si alzava e si abbassava contro la sua guancia. “Cosa
significa cwtch?” Lo sollecitò curiosa.
“Indica un tipo speciale di abbraccio, quello in cui ti
senti finalmente a casa, al sicuro tra le braccia di una persona amata.” E dopo
una pausa aggiunse: “È così che mi sento ora. È la prima volta in tanti anni…
non saprei come spiegarlo.”
“Non devi spiegarlo. È questo il bello di uno cwtch.”
Assicurò lei ridacchiando e venne premiata con un’altra risata sommessa. “È una
serata meravigliosa, il cielo è limpido e le stelle e la luna illuminano il
mare.” Commentò guardando fuori dalla finestra.
Lo sentì sospirare. “Sarebbe la serata giusta per
baciarti.” Le disse. “Ma non lo farò. Aspetterò un’altra serata perfetta, con
meno emozioni forti.”
“Sei un maniaco del controllo?” Chiese lei con fare
interessato, cercando di non dare retta al mare di emozioni incontrollate che
la sua dichiarazione aveva scatenato: sorpresa, gioia, delusione,
preoccupazione.
Una risata sonora accolse le sue parole. Graham allentò
l’abbraccio e fece un passo indietro per poterla guardare negli occhi. “Ammetto
di sentire l’esigenza di avere la situazione sotto controllo.” Iniziò: “un po’
è l’inclinazione innata, un po’ la formazione da medico che mi ha insegnato a
sezionare i problemi e affrontarli un pezzo alla volta e un po’ la sindrome
post-traumatica che mi porto appresso dall’esperienza in Siria. Ma il motivo
per cui non ti bacerò non è questo.” Proseguì accarezzandole con un dito il
viso e fissandole le labbra: “Non voglio che tu creda che il mio sia stato un
gesto di debolezza, dettato da un momento particolarmente emotivo. Voglio che
tu sappia che ero nel pieno dominio di me stesso e che l’ho fatto perché non
potevo controllare la mia attrazione per te. Non ho intenzione di darti alcuna
scusa per pensare che non fosse un atto intenzionale.”
Margherita lo
fissava in preda allo stupore. Graham le sorrise con dolcezza e le sfiorò
nuovamente la guancia. “Fai un bel respiro e dimmi quello che stai pensando.”
Lei seguì il suggerimento e confessò con voce più sicura di
quanto non si sentisse: “Sei sicuro che ci sarà mai una serata più perfetta di
questa?”
“Ho la sensazione che ogni serata con te sia perfetta.” Le
disse guardandola negli occhi e continuando a sorridere.
“Il tuo sguardo è limpido come il cielo stasera.” Osservò
Margherita trasognata.
Graham rise quasi con imbarazzo e rispose: “Sono sereno,
come il cielo stasera. E a questo punto credo di dover andare, prima di perdere
definitivamente il controllo.”
“Perdere il controllo non è sempre il peggiore dei mali.”
Gli assicurò Margherita speranzosa.
“Dopodomani partirò per Londra, dove resterò per un paio di
settimane.” Le disse a sorpresa Graham. “Mesi fa ho promesso a un collega che
avrei tenuto un corso intensivo alla scuola di specializzazione e ora non posso
scappare. Se ancora vorrai, fra due settimane riprenderemo il discorso da dove
l’abbiamo interrotto.” Le sfiorò nuovamente la guancia con la mano e se ne
andò.
FINE PRIMA PARTE
VI DIAMO APPUNTAMENTO A DOMANI PER LA SECONDA E ULTIMA PARTE DEL RACCONTO.
IL LIETO FINE È ASSICURATO!
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CHI E' L'AUTRICE...
Nora June Peebles dice di sè: sono cresciuta in una città ai piedi delle montagne e me le porto nel cuore ovunque io vada. Dopo il liceo classico ho studiato Fisica e la mia passione per le stelle mi ha portato in giro per l'Europa. Le stelle mi hanno anche portato a conoscere il mio personale vichingo alle 9 di mattina del mio primo giorno di lavoro. Cinque giorni dopo il nostro primo appuntamento mi sono trasferita da lui e da allora siamo inseparabili. Undici traslochi dopo, ho lasciato la scienza, ci siamo sposati e ora ci godiamo il nostro lieto fine movimentato con un pulcino di tre anni e mezzo che crede di essere un pompiere, parla tre lingue mischiandole tutte insieme e sogna di uccidere un drago e sposare una principessa. Viviamo in Germania, dove lavoro per una grande azienda, e scrivere mi aiuta a non dimenticare il mio amato italiano. Qualche anno fa ho scoperto La Mia Biblioteca Romantica e ho realizzato di non aver mai capito cosa fosse veramente il romance, e quanto mi piacesse! Da allora ho letto molti libri e racconti, di qualunque sottogenere, fidandomi delle vostre recensioni e non pentendomene mai.
https://www.facebook.com/norajune.peebles.5
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Bellissimo!!! Complimenti
RispondiEliminaGrazie mille! Sono contenta che ti sia piaciuto. Nora
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