IL CANTO DEL DESERTO di Adele Vieri Castellano (Leggereditore) - PROLOGO E I PRIMI DUE CAPITOLI IN ANTEPRIMA!

IN USCITA IN EBOOK IL 18 DICEMBRE,
 IL CARTACEO SARA' IL LIBRERIA 
IL 22 GENNAIO 2015



Prologo

Tenuta di Blackstone, Cornovaglia, 1864

«Hai quindici anni e indossi calzoni come un maschio. Una signorina non dovrebbe farlo, ne sei al corrente, vero?»
Sorrise per addolcire la durezza delle sue parole e la fissò. Le sue guance non avevano ancora perso la rotondità infantile, i suoi occhi brillavano per la dolce fiducia nel futuro che solo creature molto giovani e inesperte possono avere. Durante la sua assenza era cresciuta, ma non nel senso che intendeva lei. Era ancora sgraziata, acerba e con un carattere che avrebbe dato filo da torcere a chiunque.
«Oh, solo gli uomini devono stare comodi in sella? Proprio voi mi avete detto che sono diventata grande.»
Lo aveva inseguito al galoppo nella brughiera coperta di erica, ma era ancora il diavoletto che un tempo aveva partecipato alle loro scorribande da monelli.
«Pensate che sia una sciocca smorfiosa come quelle che vi corteggiano a Londra?»
«Le donne non mi corteggiano» puntualizzò lui con una certa acredine.
«Verissimo, vi corrono dietro. Sguardi languidi, Nicholas qui, Nicholas là. Che lagna. Quella che vi stava appiccicata ieri sera voleva ben altro che un ballo, non sono stupida.»
«Sei troppo giovane. Il tuo non è amore, è un’infatuazione e passerà in fretta.»
Lei lo fissò determinata, con sagacia insolita in una ragazzina della sua età.
Una raffica di vento increspò la superficie del mare e investì anche loro alzando mulinelli di sabbia, Sylvia fu costretta a ripararsi gli occhi, abbassò il capo e una raffica le strappò via il cappellino. Fece voltare il cavallo di scatto e vide rotolare via, saltellante sulla sabbia, quell’inutile, stupido cappello.
Nulla stava andando per il verso giusto, non da quando la sera prima aveva udito discutere il padre e il fratello in biblioteca. Adam parlava con tono fin troppo arrogante:
«Siete ancora in buona salute padre e, per quanto mi riguarda, non ho nessuna intenzione di passare la vita ad amministrare la tenuta. Posso pagare qualcuno che lo faccia altrettanto bene, mentre mi dedico ai miei interessi.» 
«I vostri interessi sono il titolo, la famiglia e il portafoglio. Siete un illuso se pensate che un estraneo abbia cura del vostro denaro tanto quanto voi.» La voce di Edward Frederick Sackville, II conte di Selborne era aspra, roca. Sylvia non poteva vederlo ma lo aveva immaginato seduto dietro all’ampio scrittoio. O forse era già in piedi, le mani appoggiate sul bordo e il corpo proteso verso Adam, incessante fonte di grattacapi.
«Non starò via per sempre. Nicholas ha da poco ereditato il titolo ma è già pronto a partire, lo seguirò e tornerò in Inghilterra tra qualche anno.»
«Quello sciagurato non si meritava niente!» la voce del conte di Selborne era carica di risentimento. «Sono quasi sicuro che è per colpa sua se al vecchio duca è venuto un colpo.»
Sylvia aveva avuto l’impressione di vedere l’indice del padre agitarsi minaccioso sotto il naso del fratello:
«Avete dei doveri verso la famiglia e il vostro lignaggio. Non vi darò mai il permesso di andare in Egitto.»
Visto che era innamorata da sempre di Nicholas Harper, da poco nuovo duca di Brokenwood, le era sembrato logico il giorno dopo chiedergli di sposarla, prima che partisse per quel paese lontano. Lo aveva visto montare a cavallo con la grazia del guerriero nato, i lunghi capelli castano dorati che brillavano al sole. Forte e bello, era stata una visione magnifica che le aveva tolto il fiato. Poteva essere suo, doveva essere suo. Presa la decisione, il peso che le opprimeva il petto si era alleggerito. Lasciò perdere il cappellino e tornò a fissarlo.
«Non potete rifiutare la mia proposta, non sarebbe decoroso.»
Lo sfrontato aristocratico scoppiò a ridere e questo le fece più male di qualsiasi ragionevole rifiuto. Sylvia si rese conto che gli occhi di lui, del colore del brandy, non vedevano lei ma il promettente, avventuroso futuro che gli si spiegava davanti, come i tendoni del Royal Drury Lane che si aprono su una nuova scenografia. Aveva voglia di scuoterlo per fargli capire le sue ragioni, ma non sarebbe servito a nulla.
«Allora non volete sposarmi?» mormorò con un filo di voce. Il giovane che le stava di fronte aggrottò le sopracciglia senza più sorridere e la sua voce divenne risoluta:
«Un giorno mi ringrazierai per averti rifiutata, piccola Sylvia. Senza contare che Adam mi toglierebbe la pelle se osassi posare le mani sulla sua sorellina. Sono lontani i giorni in cui correvamo nella brughiera e tu eri il folletto che ci inseguiva. Ora è tutto diverso. Non hai nessuna esperienza del mondo, tantomeno degli uomini. Un giorno troverai chi ti farà felice, adesso ti riporterò alle saline, da lì tornerai a casa senza correre alcun pericolo.»
Attese che lei si decidesse a incitare il cavallo e, senza più il coraggio di guardarlo, Sylvia ubbidì. Sentiva le guance in fiamme e si chiese quanta esperienza del mondo ci sarebbe voluta per farsi sposare da un uomo come quello. Perché lei non aveva nessuna pazienza, lei voleva tutto.
Adesso.



1

Fiume Nilo, dicembre 1871

«Scommetto che non avete dormito stanotte, figliola.»
«Neanche quelle precedenti, se è per questo.»
Il blu profondo del Mediterraneo e il frizzante sapore del sale erano stati sostituiti dal verde cupo e dall’odore salmastro. Il profumo dell’Egitto, il profumo dei suoi sogni.
Sylvia si voltò e sorrise. Suo padre, i capelli vinti dall’afa e dal caldo, era appoggiato alla balaustra del battello che scivolava al centro del fiume.
«Non chiudo gli occhi perché ho paura che tutto svanisca» sussurrò Sylvia infilando la mano sotto al braccio del padre.
Il conte di Selborne sospirò nel volgersi verso la figlia. A fianco del battello a ruota su cui viaggiavano comparve una feluca, la vela triangolare color sabbia, gli uomini a bordo intenti a salpare le reti. Un ibis dal becco smisurato sfiorò la superficie increspata dell’acqua.
La mano ossuta del conte di Selborne, con le vene in rilievo testimoni della malattia che lo aveva afflitto durante l’inverno, si chiuse su quella di Sylvia. Era calda, un po’ sudata ma lei non si sottrasse e osservò il disco del sole che spariva a occidente, nella Terra dei Morti. Poche ore e sarebbero approdati a Luxor, avrebbero riabbracciato suo fratello Adam.
«Mia cara, avreste potuto venire qui la scorsa stagione. O forse anche l’anno prima.»
Sylvia intrecciò le dita a quelle del padre. Notò che la sciarpa di lino che gli avvolgeva il collo si era allentata, la sistemò mentre rispondeva:
«Lo sapete bene che non vi avrei mai lasciato solo ad affrontare medici e intrugli.»
La barba bianca sfiorò la delicata trama di pizzo che le racchiudeva le mani e Sylvia notò le sue guance, più piene. Finalmente aveva recuperato un po’ di peso dalla loro partenza da Marsiglia, tre mesi prima.
Le tappe in Italia, a Pompei e Capri, avevano giovato alla sua salute che sarebbe ancora migliorata al clima secco egiziano. Per quanto riguardava il morale, dipendeva da come si sarebbe comportato Adam che, da qualche anno, scavava tombe e traduceva geroglifici. Quel primogenito ribelle che aveva voluto forgiarsi un destino diverso.
«Durante questo viaggio dovrete rifarvi delle rinunce che avete fatto per starmi vicino. Voglio che vi troviate un marito.» Cercò i suoi occhi. «Troppo tardi ho capito che quello non era l’uomo adatto a voi.»
«Non voglio sentire simili sciocchezze.»
«Eppure è la verità. Non solo non è stato capace di darvi dei figli, ha scelto di andarsene da questa vita nel modo peggiore. Nessun perdono da parte vostra potrebbe attenuare le mie responsabilità e mi intristisce vedervi sprecare la giovinezza, accanto a un uomo malato.»
«Il fatto di essere vedova mi garantisce una libertà che non avevo neppure da sposata. E voi non siete un uomo malato ma un convalescente.»
«Il che dovrebbe farvi riflettere proprio sul vostro futuro. Dovrete risposarvi.»
«È una cosa tanto grave che non ne senta affatto il bisogno?» chiese lei con dolcezza. «Riconosco però che è l’unico modo per darvi dei nipotini, perché se contiamo su Adam…»
«… sarò morto stecchito quando si deciderà.»
Sylvia sorrise.
«Non dite così, per quanto ne sappiamo potrebbe avere in programma di sposarsi alla fine della stagione di scavi, con qualche ricca ereditiera.»
«Adam non ha bisogno di ereditiere, il patrimonio di famiglia è solido» le disse rimpossessandosi della sua mano. «Certo non grazie a lui. Quale donna potrebbe mai essere attratta da un simile partito? È un eccentrico, un anticonformista e un ribelle.»
«I suoi articoli sono stati pubblicati dalla Royal Society, lo scorso autunno.»
«Un’assemblea di parrucconi.»
«Li avete letti tutti, lo so. Soprattutto quelli sul faraone eretico.»
Lui aggrottò la fronte.
«Quell’asino di Dodson ha osato contraddirlo. Mio figlio non scrive scempiaggini, Amenofi IV, Akhenaton, è davvero esistito e prima o poi lui riuscirà a scoprirne la tomba. Se c’è una cosa che non gli manca, è la cocciutaggine.»
Sylvia lo fissò cercando di restare seria.
«Non guardatemi a quel modo.» Il padre le sollevò il mento con un dito. «Mi ricordate così tanto vostra madre che mi sembra di tornare indietro di quindici anni. Quando avrò ripreso le forze penseremo a trovarvi un degno partito, ma vi giuro che questa volta sarete voi a dire l’ultima parola.»
«Vedremo, ora la cosa più importante è la vostra salute. Lasciamo da parte i discorsi sul mio matrimonio.»
Le feluche scivolavano verso la riva, un villaggio sfilò davanti al battello, adagiato lungo la sponda. Il filo di fumo proveniente dalle povere baracche portò con sé l’odore di povertà, cenere e cibo cotto alla brace.
«Vi prometto che non farò più allusione all’argomento, se non sarete voi ad affrontarlo. Siamo d’accordo?»
Sylvia gli strinse con affetto il braccio.
«Lo sono.»
«Allora parlatemi di quel tipo, quello che ha scoperto il viale di sfingi a Saqqara, il mangiatore di rane.»
«Auguste Mariette lo conoscete fin troppo bene; sapete altrettanto bene che è il fondatore del museo del Cairo e ha scoperto la tomba di un’importante regina. Smettetela di pensare a lui solo in base alle sue origini. È riduttivo.»
«Un francese resta sempre un francese mia cara, anche se devo riconoscere che sa circondarsi di persone intelligenti.»
«Come vostro figlio Adam?»
«Mi pare evidente. Il mio primogenito è unico,» dichiarò lui con un sorriso sornione «ma è ovvio che questo l’interessato non dovrà mai venirlo a sapere.»
«Sarò muta come un pesce.»
La serata era calma, l’aria dolce, limpida; il cielo di quella purezza incomparabile che è privilegio dell’Alto Egitto.
«Il francese si è dimostrato lungimirante quando ha scelto mio figlio per organizzare il trasporto della statua di Ramses II, dal Sudan fino al Cairo. Per una volta ha usato il buon senso. I suoi compatrioti l’avrebbero fatta insabbiare nella prima ansa del Nilo.»
«L’Egitto pullula di francesi, vi ricordo.»
«Purtroppo. Ma ce ne libereremo presto» rispose lui con sicurezza.
«Non ci sono solo i francesi, però» disse Sylvia con una punta di ironia.
«Avete ragione, mia cara. Qui è concentrata una buona parte di quella nobiltà che dice di amare il caldo. Credevo non fosse posto per una donna, ma mi sono dovuto ricredere e anche tuo fratello lo farà.»
Sylvia ripensò alle settimane trascorse al Cairo, per ambientarsi. Nei lussuosi alberghi della capitale, le nobildonne europee erano in cerca di distrazioni o ansiose di ritrovare la salute, grazie al clima secco del deserto. Ma non mancavano le mogli annoiate di uomini d’affari e diplomatici, gli uni impegnati a far scorrere
fiumi di denaro, gli altri a tessere intrighi.
L’Europa tentava di spartirsi non solo l’enorme ricchezza economica del paese, ma anche quella archeologica: a ogni passo nella sabbia si inciampava in un antico reperto.
Inglesi, francesi, italiani svernavano all’ombra delle piramidi, tutti alla ricerca di un tesoro perduto, di una tomba inviolata, di un faraone da aggiungere alla lunga lista delle nuove scoperte.
Proprio in quei giorni era in programma l’Aida, un’opera del grande compositore italiano Giuseppe Verdi, scritta per l’inaugurazione del teatro del Cairo. Ismāʿīl Pāscià, solo due anni prima, non era riuscito a convincere il maestro italiano a scrivere un inno per l’inaugurazione del canale che aveva unito per sempre il Mediterraneo e il Mar Rosso.
Adam era stato a visitare gli scavi a Suez e le aveva scritto con la solita passione, in una delle tante lettere in cui le raccontava le sue esperienze e le sue scoperte:

“Il cantiere è un brulicare di migliaia di operai, simili a operose formiche. Scavano, sudano, lottano con gli scalpelli per distruggere le rocce che, da millenni, impediscono a due mondi di incontrarsi. Lesseps sta realizzando un’impresa faraonica. Questo è davvero il paese delle meraviglie.”

La lettera, arrivata nel piovoso gennaio 1869 aveva alimentato l’idea di Sylvia di recarsi in viaggio in Egitto appena possibile e la necessità di curare la grave polmonite, che aveva colpito suo padre l’anno seguente, aveva fatto il resto.
«L’aria si è rinfrescata e l’umidità che sale dal fiume non fa bene alla vostra salute. Sarà meglio rientrare.»
A braccetto si avviarono lungo il ponte.
«Adam è sempre stato un testone.»
«Dopo due anni che non lo vedete, mi auguro riuscirete ad accantonare i suoi difetti e a far valere i suoi meriti. Ha fatto una scelta insolita, vi ha dato un dispiacere, ma almeno è riuscito nel suo intento.»
Il conte fece un largo sorriso.
«Solo di fronte a te posso ammettere che il tempo ha lenito la mia rabbia. Ho capito a mie spese che il mondo sta cambiando molto in fretta, mio figlio ne è il prototipo. Non solo, dovrò anche riconoscergli di aver avuto la testa più dura della mia.»
«Non ve la caverete con così poco.»
Lord Selborne sorrise appena, mentre un boy apriva loro le porte con un cerimonioso inchino. Il salotto dove si riunivano tutti gli europei era affollato, vi aleggiava l’odore forte del caffè turco, spesso e aromatico, che offrivano a bordo.
«Sarà difficile per me ammettere che ha avuto ragione nell’inseguire i suoi sogni.»
«Caro papà, supererete anche questo.»

Sylvia osservò gli indigeni carichi delle loro cianfrusaglie che stavano per sbarcare nel porto di Kenā. Si erano assembrati davanti alla passerella traballante, ansiosi di tornare sulla terraferma. Nell’attesa gesticolavano, discutevano e i passeggeri europei ancora a bordo, intenti a osservare dall’alto le manovre di avvicinamento alla banchina, li guardavano sprezzanti.
L’aspetto della cittadina davanti a loro era piuttosto triste, nonostante il sole rendesse abbaglianti le povere case di calce e il verde smeraldo delle palme, cariche di datteri.
Un aspetto trasandato, di abbandono, che si notava in tutto l’Egitto e faceva sentire gli europei una razza superiore. Sylvia però trovava affascinante la gente, la loro lingua e il loro modo di vivere.
Insieme alla folla rumorosa sbarcò anche un europeo, i capelli castani divisi da una scriminatura e lo sguardo severo. Puntava minaccioso una canna di bambù verso i domestici, incurvati sotto il peso di enormi bagagli. Lo fissò incuriosita, domandandosi cosa potesse mai fare in un posto tanto sperduto e miserabile un uomo così distinto.
A qualche passo da lei si era affacciato alla balaustra anche Sir Thomas Mapler, un anziano nobiluomo con cui avevano familiarizzato durante la sosta a Malta. Frequentava l’Egitto da anni e sembrava conoscere tutti gli europei che incontravano, così come i pettegolezzi che li riguardavano. Lei accennò un sorriso e l’uomo ricambiò con un movimento del capo e un fremito nei candidi favoriti, ritenendosi autorizzato ad accostarsi e a rivolgerle la parola.
«Forse vi chiederete cosa avrà mai di interessante questo villaggio di fellah, per un uomo come quello.» Con un impercettibile gesto indicò l’uomo appena sbarcato. «È Georg Schweinfurth, un esploratore tedesco. Sta cercando gli affluenti del Nilo, oltre a tentare di catalogare la flora e la fauna dell’Egitto. Ma i suoi interessi spaziano anche ai reperti archeologici e, dato che poco distante da Kenā ci sono i templi di Dendera, immagino si stia recando proprio lì. Ricordate che questa gente non cerca che una cosa, Lady Dunmore. L’oro dei  Faraoni.»
«Siete cinico, Sir Thomas. Non potrebbero essere semplici turisti?»
«Turisti? Non direi. La maggior parte è qui per depredare, arraffare e fuggire, magari portando con sé una seconda stele di Rosetta.» Il suo tono divenne sprezzante. «Sono dei sempliciotti o degli illusi nella maggior parte dei casi, ma purtroppo ci sono anche i disonesti.»
«Allora che mi dite degli archeologi? Predatori anche loro?» chiese incuriosita.
«Sugli archeologi non mi pronuncerò in vostra presenza, Lady Dunmore. Ma chiedo venia per aver parlato con voi in modo così esplicito di questi loschi traffici. So bene che vostro fratello è uno studioso serio ma, credetemi, è un’eccezione come Auguste Mariette e pochi altri.»
Sylvia, suo malgrado, gli sorrise.
«Prometto che continuerò a scusarmi con voi fino a quando avrò il privilegio di vedere il vostro bel volto sorridente.» L’uomo si appoggiò meglio alla balaustra e dal quel momento abbassò la voce. «Credetemi: sono troppi i cacciatori di tesori alla ricerca del pezzo unico, quello che molti sarebbero disposti a pagare una fortuna.»
Sir Thomas si voltò e allungò un braccio verso l’inserviente che offriva bicchierini colmi della sostanza schiumosa e calda, che a bordo chiamavano caffè.
«Come potete bere quell’intruglio?» esclamò Sylvia arricciando il naso.
«Vi ci abituerete presto anche voi, come avverrà per il caldo e altre creature disgustose che pullulano da queste parti. Signora Brassey, i miei omaggi.»
Il notevole busto della signora in questione si abbassò in un’elegante riverenza rivolta a Sylvia, poi con la mano fece fremere il ventaglio in direzione di Sir Thomas.
«Immagino vi riferiate alle zanzare e alle mosche,» disse la donna. «Sono anni che vengo in Egitto, e agli insetti non potrò mai abituarmi. Lascerò a voi, Sir Thomas, anche il dubbio piacere di apprezzare le cavallette.»
Mariah Harrison Brassey.
Sylvia aveva notato a bordo la ricca vedova del magnate delle ferrovie americano e Sir Thomas si era premurato di raccontarle stuzzicanti episodi, sia su di lei che sulla figlia Judith.
«La figlia dipinge,» aveva detto l’uomo con un tono che l’aveva irritata. «Non lo trova un passatempo un po’ troppo eccentrico per una donna?»
La signorina Brassey doveva avere pressappoco la sua età, era a braccetto della voluminosa madre e la salutò con un grazioso inchino. Rispondeva a tutti i criteri di bellezza femminile di quel tempo: i suoi occhi erano ben distanziati e franchi, la bocca minuta come un fiore. Il naso un po’ lungo terminava con un piccolo rigonfiamento, la pelle del volto era compatta, nivea e la luce sottolineava i riflessi dei capelli color mogano raccolti da un lezioso copricapo, con veletta a larghe falde.
L’elegante abito color tortora, che a qualunque altra donna avrebbe conferito un pallore malaticcio, faceva risaltare le iridi di un verde-grigio singolare. Indossava guanti di seta della stessa tonalità dello scialle che teneva sugli avambracci, rosso mattone.
Quei colori, che potevano sembrare eccentrici, mettevano in evidenza la vita sottile, il seno e i fianchi e ben torniti. Sylvia si rese conto di averla esaminata con troppa attenzione, ma si consolò pensando che era la prima donna della sua età che incontrava sul battello. Provò nei suoi confronti un’immediata simpatia e rispose al suo sorriso con sincera cordialità.
La dissertazione sulle zanzare e sui rimedi con cui difendersi li coinvolse per il tempo sufficiente ai marinai per ritirare la passerella.
Il Nilo aveva l’aspetto di un lago tranquillo mentre il battello riconquistava il largo e, allo sciacquio, si mescolò il fremito delle foglie di palma sfiorate dal vento. Uno stormo di uccelli acquatici rasentò l’acqua, il loro candore simile a quello della schiuma provocata dai lunghi bastoni, di cui si stavano servendo i marinai per allontanare lo scafo dalla banchina.
Il tramonto rese il paesaggio una fornace d’oro fuso e, nella morbida sfumatura della bruma, apparvero le sagome delle montagne tinte di rosa e ametista.
«Judith, dovresti dipingere un acquarello, mi piacerebbe appenderlo nel salotto.» La vedova si rivolse alla figlia indicandole il paesaggio con il ventaglio chiuso. «Questa sera le sfumature sono impagabili.»
Davanti a loro sfilavano aride cime rocciose. Il battello si allontanò dall’imbarcadero e la ciminiera sbuffò un fumo denso, le pale ripresero a girare. Judith Brassey si diede il tempo di osservare con attenzione il panorama.
«Non so se riuscirei a riprodurre quelle identiche sfumature sulla tela, posseggono uno struggimento quasi fisico. Dovrò sperimentare molto sui colori, quando saremo a Luxor.»
Una tale affermazione zittì tutti, anche lo scettico Sir Thomas che scoccò alla giovane donna un’occhiata in tralice. Dopo qualche istante, la vedova si rivolse sottovoce all’uomo che aveva accanto.
«Lo avete visto, Sir Thomas? È lui, vero?»
«Sì. L’ho visto,» rispose questi lisciandosi i favoriti con fare dubbioso.
«Sono quasi sicura che viene dagli scavi di Dendera, è sempre un passo avanti agli altri,» disse la donna allungando il collo, come se cercasse qualcuno. Sylvia seguì la direzione del suo sguardo, ma non notò nessuno in particolare. L’altra proseguì:
«Non so mai come comportarmi; gli ero stata presentata qualche anno fa, quando mio marito ottenne un suo finanziamento per la costruzione di un nuovo modello di locomotiva. Ma adesso sono molto in imbarazzo.»
«La stessa cosa vale per me, mia cara signora. Ma gli ho parlato la scorsa stagione e ho il dovere di salutarlo, appena ne avrò l’occasione.»
«Una grande disgrazia, non c’è altro da dire» concluse la vedova e Sir Thomas annuì, senza ulteriori commenti.
La temperatura scese con l’avanzare del crepuscolo. Madre e figlia si congedarono, invitando Sylvia a far loro visita nella suite che avevano nello stesso hotel di Luxor in cui lei avrebbe soggiornato con il padre. Fu lieta di accettare, incuriosita dalla prospettiva di ammirare i quadri della giovane artista americana.
Scortata da Sir Thomas, si diressero al ponte inferiore. Oltre le porte a vetri del salone-biblioteca, Sylvia individuò suo padre intento a leggere i dispacci da Londra.
Il gentiluomo volle precederla per anticipare il boy che sonnecchiava ma un passeggero, proveniente dall’interno, spalancò le ante prima di lui, con decisione. Il pigro ragazzino, che negligeva il suo dovere, spalancò gli occhi e Sir Thomas sussultò, fermandosi di botto. Dopo un momento di imbarazzato turbamento, l’uomo si riprese e si schiarì la voce.
«Lord Brokenwood, lieto di incontrarvi di nuovo in Egitto. Sono Sir Thomas Mapler, riconoscete la mia voce?» disse cedendo il passo allo sconosciuto che inclinò la bella testa leonina, quasi volesse udire con più agio le parole del suo interlocutore.
Fu un attimo paralizzante per Sylvia: ogni fibra del suo corpo, ogni facoltà della sua mente, ogni sua fonte di energia si concentrarono sull’uomo in piedi, tra le ante spalancate. Sconvolta, trattenne il fiato e abbassò di
scatto lo sguardo sul bastone che questi spostò, con un movimento fluido, dalla mano destra a quella sinistra.
Il pomolo era uno splendente scarabeo di lapislazzulo con elitre d’argento. Brillò per un attimo tra le mani nude dalle nocche sporgenti, coperte da una sottile peluria bionda e vene in rilievo. Erano tutto il contrario di quelle di un aristocratico: ruvide, callose, vissute. Erano dita che avevano sollevato sassi, frugato nella polvere e dissotterrato tesori, dopo millenni di oscurità.
Le stesse che lei ricordava sulle redini, nella brughiera. Neppure quel giorno portava guanti, pessima abitudine. Non le aveva più viste, quelle mani. Da quando la petulante ragazzina, dal corpo androgino e il cespuglio di capelli neri, aveva deciso che il nuovo duca era un buon partito e il mondo in debito con lei. Sollevò lo sguardo fiera, le spalle dritte, sfidandolo a riconoscerla ma lui non la vide. Sylvia si rese conto solo in quel momento che era cieco.


2


«Storicamente, quasi tutti i nomi che il Nilo ha ricevuto esprimono l’idea del colore nero o del blu.» Sir Thomas si asciugò i baffi con il tovagliolo e si accertò che le donne a tavola pendessero dalle sue labbra. Le Brassey, appoggiate coi gomiti al bordo, trattenevano il respiro.
Sylvia giocherellò con la forchetta, imponendosi di seguire la conversazione in quel salone scintillante di lampade a petrolio, affollato di coppie eleganti. La voce di Sir Thomas sovrastò per l’ennesima volta il brusio:
«I greci lo chiamavano Mélas, che significa nero e l’antico nome copto del Nilo, Amrhiri, ha lo stesso significato. Oggi sappiamo che uno dei suoi affluenti superiori, in arabo, è chiamato Bahr-el-Azrek, il fiume Azzurro; la parola neilos somiglia molto al sanscrito nilas, che vuol dire blu o nero, da cui deriva a sua volta il termine nil, il nome dell’indaco.»
«Ma voi siete un narratore meraviglioso, Sir Thomas.»
L’uomo arrossì di piacere e sorseggiò un po’ di vino bianco.
«Mi diletto di antiche lingue, signora Brassey e la storia di questo fiume che dà la vita e, in certi casi la toglie, mi ha sempre affascinato.»
Sylvia osservò il ventaglio che la vedova aveva appoggiato sul tavolo, aperto. Un capolavoro di stecche d’avorio intagliate e seta, che raffigurava uccelli dal piumaggio variopinto. Si domandò se fosse un’opera della figlia.
«Oh sì, in certi casi il Nilo è davvero crudele. Come lo è stato con il duca di Brokenwood.»
Sylvia a quel nome smise di masticare, la forchetta sospesa a metà strada tra il piatto e la bocca.
«Dove accadde l’incidente?» chiese Judith Brassey, che quella sera indossava un abito intonato ai suoi occhi.
«A metà strada tra Alessandria e il Cairo, nel punto in cui la linea ferroviaria incrocia il ramo occidentale del Nilo, proprio sul ponte girevole che unisce le sponde» puntualizzò Sir Thomas.
«Una vera sfortuna.»
«Una disgrazia immane, signorina e qui in Egitto fu l’argomento privilegiato di tutta la stagione. La carrozza privata del duca fu travolta dall’acqua, la locomotiva proseguì la sua folle corsa mentre i vagoni deragliarono nel fiume.»
«Santo Cielo,» esclamò la vedova riprendendo a farsi aria. «Conoscevo già la terribile vicenda, ma voi riuscite a raccontarla con tale pathos.»
«Furono inghiottiti dall’acqua fangosa in pochi istanti,» proseguì Sir Thomas troppo preso dal racconto per godersi il complimento. «Lady Brokenwood morì sul colpo e il duca, pur ferito, non volle essere portato via dal luogo dell’incidente fino a quando non fu ritrovato il corpo della moglie. Accadde giorni dopo, a qualche miglio di distanza, nei canneti.» La sua voce si ridusse a un bisbiglio. «La riconobbero solo per ciò che restava del vestito, i coccodrilli non avevano avuto pietà.»
Sylvia abbassò la forchetta, lentamente. La mano le tremava a tal punto che non riuscì ad afferrare il tovagliolo che teneva in grembo. Voleva andarsene, tornare in cabina e chiudersi dentro. Respirava a fatica a causa del nodo che le stringeva la gola ma, quando fece per alzarsi, la mano ferma di suo padre le afferrò il braccio.
La fissò, dapprima con uno sguardo imperioso e poi implorante. Notò che era congestionato in viso e aveva gli occhi lucidi e, con l’ultimo barlume di ragione che le era rimasta, si rilassò di nuovo sulla sedia. Il cuore però continuò a rombarle nelle orecchie, fino a diventare un ronzio sordo, che a poco a poco si ridusse e le permise di tornare a distinguere la voce di Sir Thomas:
«Il duca era pazzo di lei, lo so per certo. Li avevo incontrati qualche mese prima sulla Riviera francese. Lady Brokenwood possedeva una bellezza fiera e algida ed erano formidabili, insieme. Il viaggio da Alessandria al Cairo in cui rimase uccisa celebrava il terzo anniversario di matrimonio.»
«Che destino crudele» disse la vedova sollevando il petto per il gran sospiro. «Ma è vero che lui tornò in Egitto prima della fine del periodo di lutto?»
Sir Thomas aggrottò la fronte, imbarazzato.
«Non ne sono certo, ma le malelingue trovano sempre terreno fertile nelle disgrazie.»
Suo padre colse l’istante in cui Mapler tirò il fiato per porre fine al macabro resoconto. «Vogliamo cambiare argomento, Sir Thomas?» suggerì con un tono che aveva ben poco di conciliante. «Ho avuto l’onore di conoscere Sua Grazia quando era molto giovane e già allora, al di sopra di tutti i suoi difetti, c’era l’amore per il deserto e i reperti archeologici. Sono certo che il suo ritorno in Egitto, dopo una così tragica disgrazia, ebbe il solo scopo di non farlo impazzire di dolore.»
Il tintinnio delle posate, la risata di una signora nel tavolo vicino, qualcuno che starnutiva. Sylvia udì tutti i rumori di sottofondo, poiché sul tavolo calò un silenzio così compatto che lo si sarebbe potuto tagliare con un coltello.
«Mi dispiace, Lord Selborne.» Si scusò Sir Thomas.
Lord Selborne si schiarì la gola.
«La famiglia di Brokenwood ha antiche origini gallesi e la mia tenuta di campagna confina con Blackstone, l’antico castello dei suoi avi. È sempre stato un esploratore, prima che Pari del Regno. A diciassette anni aveva già attraversato il deserto del Marocco, a ventitré quello dei Gobi, in Asia. È stato in quasi tutti i deserti del mondo, posso dire che in lui brucia il sacro fuoco della conoscenza. Come possiamo biasimarlo se è anzitutto uomo d’azione, anche nei frangenti più drammatici?»
Sir Thomas si contorse sulla sedia.
«Non era mia intenzione metterlo in cattiva luce.»
«Non lo metto in dubbio ma, anche se non posso dire che sono legato a lui da una solida amicizia, egli ha tutto il mio rispetto. Voi siete al corrente, Sir Thomas, che gli scavi che sta finanziando a Deir el-Bahari stanno portando alla luce un grande tempio?»
«Lo sanno tutti qui in Egitto; Lord Brokenwood sta facendo un lavoro egregio.»
«E che il trasporto della statua di Ramses II, che mio figlio dirigerà per conto del governo egiziano, è in parte finanziato dal duca?»
«La sua collaborazione con Sir Auguste Mariette non è un segreto per nessuno.»
«Mio figlio è il suo braccio destro ma soprattutto, un buon amico. Non trova che sia moralmente ingiusto continuare a discutere su quell’infelice argomento?»
Sir Thomas strinse le labbra e accondiscese con un cenno del capo.
Un cameriere in livrea si avvicinò con un vassoio colmo di pesce e crostacei. Servì per prime le signore, ripresero a mangiare in silenzio. Le vivande erano semplici, cucinate a puntino, i sapori non camuffati dalle spezie. Il cibo era ottimo, ma l’atmosfera terribilmente rovinata.

Sylvia spalancò la porta della cabina di suo padre. Si era calmata prendendo lunghi respiri, appoggiando i palmi alle guance bollenti. Aveva provato più volte il discorso, ma quando lo vide già in vestaglia e piuttosto pallido, ogni spirito combattivo sembrò afflosciarsi come un otre vuoto. Un libro aperto in grembo, stava dando le ultime istruzioni al maggiordomo che lo ascoltava piegando con gesti solenni le camicie inamidate. Lord Selborne si interruppe. Entrambi gli uomini la fissarono e l’espressione di Hudson, di solito impassibile
quanto una mummia egizia, cambiò per un inafferrabile istante. Al cenno del padrone, fece una compassata riverenza e si eclissò.
«Mi stupisco che abbiate resistito così a lungo, mia cara.»
Sylvia attese che la porta si richiudesse e poi si voltò.
«Avreste dovuto dirmelo.»
L’uomo chiuse il libro, lasciando l’indice in mezzo alle pagine. «Non ne abbiamo mai parlato perché voi non lo avete mai chiesto.»
«Ho sempre saputo che è uno dei finanziatori di Auguste Mariette, che è il migliore amico di mio fratello e che insieme esplorano da anni l’Egitto, spronati dalla stessa passione. Sapevo che si era sposato e del terribile incidente, nel quale perse la moglie.
Ma non che proprio a causa di quella disgrazia fosse diventato cieco.» Sylvia si portò una mano sulla bocca e distolse lo sguardo. «L’ho incontrato per caso. È stato terribile, non mi ha vista, non ha visto nessuno.»
«La notizia non venne diffusa, sui giornali. Solo pochi intimi vennero a saperlo.»
«Voi lo sapevate. Adam di certo lo sapeva,» insisté, la voce incrinata.
«Ne venni informato qualche mese più tardi e vostro fratello ha rispettato il volere di Brokenwood, che era quello di tacere. Non dimenticate che, solo un mese prima, si era suicidato vostro marito. Eravate già abbastanza sconvolta.»
«Mio Dio, ma scoprirlo in questo modo. Non posso pensare a un uomo come lui, cieco.»
Il conte si alzò, abbandonò il libro e si avvicinò al tavolino rotondo, dov’era posata una teiera fumante.
«Calmatevi ora e sedete. Stavo per bere il mio tè, ne gradite una tazza?»
Sylvia ubbidì lasciandosi cadere sulla poltroncina di fronte al tavolo. Cercò di ricomporsi, al padre poteva sembrare assurdo tutto quell’agitarsi nei confronti di una persona che, per lei, avrebbe dovuto essere solo un ricordo dell’adolescenza.
Sentì su di sé il suo sguardo penetrante, mentre riempiva i bicchieri di vetro color menta con la bevanda dall’identico profumo. L’uomo sospirò e glielo offrì ancora fumante.
«Non angustiatevi così. Brokenwood è un uomo eccezionale, ha fatto cose impareggiabili anche da cieco, sfidando la sua menomazione così come ha sempre fatto con la vita. Caparbietà e coraggio sono qualità innate in lui, le ho sempre rispettate, anche quando ci siamo trovati su fronti opposti,» mormorò sfiorandole le dita con tocco leggero.
Sylvia sorseggiò il tè per calmarsi.
«Immagino che non volesse la pietà di nessuno» ragionò a voce alta.
«Brokenwood non è un uomo che ispira pietà, mia cara. Invidia, rancore e gelosia sì. Ma mai pietà, ve lo posso assicurare.»
«Quando lo avete scoperto?»
Si accomodò sulla poltrona di fronte alla sua e accavallò le gambe.
«Ricordate che vi scrissi che lui e Adam erano tornati a casa, qualche settimana dopo la vostra partenza per l’Italia, nel settembre del ‘69?» Lord Selborne vagò con lo sguardo alla ricerca di un particolare qualsiasi da fissare, la voce che esprimeva un profondo rammarico. «In quel periodo non smetteva di piovere. Vi fu anche l’esondazione del canale, che si portò via parte delle scuderie.»
Sylvia annuì, strinse il bicchiere caldo tra le mani e tornò con la mente a quel periodo.
«Arrivarono nel giorno peggiore della tempesta. Hudson mi annunciò che, in quell’inferno di acqua e vento, avevo dei visitatori. Puoi immaginarti il mio stupore quando me li ritrovai davanti.»
«Ricordo che vi riconciliaste con entrambi, in quell’occasione.» Non era una domanda.
«Sì, non vi ho mai raccontato le circostanze, non erano importanti. Ciò che contava per me era il fatto che mio figlio avesse avuto bisogno di me, una volta tanto. Tutto ciò mi fece riflettere molto quella prima notte in cui li ebbi entrambi sotto il mio tetto.»
Finalmente guardò Sylvia. C’era una luce particolare nei suoi occhi, come quelli di un ragazzo che scopre per la prima volta il mondo e le sue meraviglie.
«Mio figlio era tornato. Non era più travolto dalla febbre della scoperta, ci siamo parlati da uomo a uomo ed è stato meraviglioso. Ve lo scrissi che quel giorno mi era stato restituito un figlio e che avevo compreso che Adam avrebbe seguito la sua strada, anche senza Nicholas Harper, duca di Brokenwood.»
Bevve un sorso di tè e poi riprese:
«A proposito del duca e della sua cecità, dovetti mantenere la mia parola, così come aveva fatto vostro fratello. Fu sconvolgente vederlo urtare i mobili e maneggiare il bastone quasi fosse una scimitarra. Ruppe i vasi gemelli che stavano ai lati del caminetto nel salottino giallo, in quei primi giorni era una furia incontenibile, solo Adam riusciva a calmarlo. Ma come ti dicevo, la sua testardaggine e la sua intelligenza presto convogliarono la rabbia e l’impotenza in energia positiva. Quando lo rincontrai, dopo che aveva trascorso qualche tempo nel suo castello, mi parve quasi che fosse tornato a vedere.»
«Non me ne avete mai parlato.»
«Non vogliatemene, mia cara. A causa della mia gamba ero anch’io furioso con me stesso e con quello stupido cavallo che si era rifiutato di saltare la siepe.»
«Eravate intrattabile.»
Sylvia aveva ancora il bicchiere mezzo pieno in mano.
«Una gamba rotta alla mia età non la auguro nemmeno al mio peggior nemico. Mi sentivo in colpa perché vi avevo costretta a tornare in Inghilterra, ad accudirmi come un invalido.»
Sylvia ricordò quei mesi, durante i quali aveva dovuto comportarsi come un tiranno, lottando contro un medico testardo e un uomo che si stava arrendendo alla malattia. Un lieve sorriso le fiorì sulle labbra:
«Siete tornato quello di sempre, ora.»
«Solo grazie a voi, mia cara.»
Finì il suo tè, si alzò in piedi e fu lei questa volta a riempire i bicchieri.
«Avrei preferito saperlo» disse e ne era davvero convinta. Il dolore per l’amaro destino di Brokenwood sarebbe stato meno intenso e sconcertante.
«Volevo parlarvene a Malta, sarebbe stato meglio per voi ma è sempre difficile raccontare le disgrazie altrui. Cosa che pare diverta quello spiacevole pettegolo di Sir Mapler.»
Il conte si avvicinò allo scrittoio, dove qualche foglio di carta giaceva abbandonato, forse una lettera cominciata e mai finita. Le eleganti lampade a petrolio, ai quattro angoli della cabina, illuminarono i capelli ancora folti e i baffi e la barba spruzzati di grigio, che Hudson regolava ogni giorno con precisione maniacale.
«Adam mi aveva scritto che il duca sarebbe tornato in Egitto solo fra qualche settimana, credevo di avere più tempo.»
Lei sollevò il mento, lo fissò e fu lui ad abbassare lo sguardo.
«Ma il tempo non concede nessuna attenuante, vero?» proseguì sarcastico. «Così come la vita, che ci priva di coloro che amiamo nei momenti in cui ne avremmo più bisogno.» Tornò verso di lei e le prese le mani. «Quando vi ho fatto sposare Dunmore, non credevo sarebbe finita così.»
Lei si ritrovò a ricambiare la stretta.
«Non mi avete obbligata, papà.»
«Non siete mai stata innamorata di quello smidollato; più grave è che non avete mai avuto stima di lui e, dopo il vostro matrimonio, persino io mi sono accorto di averla persa.»
«Chi si sposa per amore, a Londra?»
Lord Selborne ebbe un gesto di stizza e la lasciò andare. Riprese il libro in mano, senza riaprirlo.
«Io ho amato vostra madre, mia cara bambina. La vidi in Piazza della Signoria, la seguii fino al palazzo dove viveva con la sua famiglia. Rimasi per giorni sotto quel portico, al freddo, convinto di poterla rivedere e così fu. Quando accadde decisi che dovevo averla e fui fortunato, poiché fu amore reciproco. Abbiamo vissuto anni meravigliosi insieme, per questo ero convinto che Dunmore fosse il vostro principe.»
Sylvia avrebbe voluto rispondere che i principi non esistono, ma tacque. Il padre si sentiva già in colpa, se avesse saputo il resto… Anche lei gli stava nascondendo una parte della sua vita di cui nessuno, mai, sarebbe dovuto venire a conoscenza. Forse poteva perdonarlo per averle impedito di avere pietà di Nicholas, di soffrire per lui.

Per rientrare nella sua cabina camminò lungo la fiancata del battello. A poco a poco i suoi passi si fecero lenti, fino a fermarsi del tutto. Era soprattutto alla sera, al tramonto, che il paesaggio del Nilo appariva in tutto il suo splendore. Incapace di proseguire appoggiò le mani alla balaustra. Erano i ricordi? La nostalgia per la spensieratezza dell’adolescenza? O l’effetto di quel luogo che tanto aveva sognato?
Non trovò una risposta per quella giornata lunga, calda e faticosa e il paesaggio che le scorreva davanti accentuò il singolare abbattimento che provava, da quando aveva incontrato Brokenwood.
Osservò la terra condannata a essere sterile, quel paese bizzarro, inquietante, dalle linee inafferrabili, dalle ondulazione indecise. L’effimero verde pallido, le macchie grigie, rosse e gialle. Da una parte la sabbia, ravvivata dal sole morente, dall’altra le alte montagne quasi invisibili nella bruma incolore e, sopra a tutto, un cielo spazzato dalla brezza tranquilla che faceva cantare le palme e la vegetazione, rigogliosa lungo le sponde.
Qualcosa in gola le impedì di respirare bene. Ferma ad ascoltare il vento dolce e triste, a osservare la notte che stava scendendo sul fiume.
Tutto tremolò, così passò furtiva le dita inguantate sulla lacrima sfuggita alle palpebre. Un gesto di stizza contro la natura passionale ereditata dalla madre, che stava ancora una volta cercando di prendere il sopravvento sulla freddezza, la razionalità, l’impassibilità di quella inglese. Illogico e preoccupante fenomeno, all’origine di tutti i suoi colpi di testa.
«Uno spettacolo che commuove anche me, ogni volta.» La voce, bassa e melodiosa la fece sussultare. Accanto a lei c’era la giovane pittrice, il volto sereno puntato sull’orizzonte. Rimasero in silenzio per qualche istante e Sylvia si illuse che volesse lasciarle il tempo di ricomporsi. Alla fine, fu proprio la giovane donna a parlare.
«Perdonatemi, Lady Dunmore. Non volevo essere invadente.»
Sylvia non si sentì offesa né minacciata. La presenza accanto a lei, al contrario, aveva un ché di confortante.
«Forse questa commovente visione è meglio apprezzarla in compagnia di qualcuno che possiede sensibilità artistica, proprio come voi» le rispose.
Judith Brassey chinò appena il capo in segno di ringraziamento.
«Lo prendo come un complimento, ma il mio spirito artistico in Egitto è alquanto frustrato. Con i pennelli non riesco mai a riprodurre con soddisfacente realismo ciò che vedo.»
«Posso capirlo. I colori che ci circondano…» Sylvia fece un gesto vago, indicando il paesaggio «… paiono così instabili, cangianti.»
Il volto della giovane si accese di meraviglia.
«Avete reso l’idea, Lady Dunmore. Qui è tutto così effimero, la luce cambia in modo così repentino che riprodurre le curve, i volumi o l’armonia dei colori è difficilissimo. La mia capacità di creare un capolavoro è quasi nulla.» Fece un sospiro profondo e poi aggiunse, con un briciolo di tristezza: «se non diventerò un genio della pittura, posso almeno sperare di essere una moglie e una madre modello, devota alla famiglia, prima o poi.»
«Siete fidanzata?»
«Oh, ci ha provato. Mia madre, intendo.» La giovane ridacchiò, giocherellando con i guanti che teneva tra le mani. «Ma si sono presentati solo cacciatori di dote e rammolliti, anche se non dovrei dirlo.»
«Non preoccupatevi, rimarrà tra noi.»
La Brassey si schiarì la voce.
«Vorrei sposare un uomo interessante. Mio padre lo era, sapete? Sempre in movimento, immerso nei progetti sulla ferrovia e nei suoi sogni. Forse pretendo troppo.»
«È bello sapere ciò che si vuole, ma bisogna fare i conti con la realtà.»
L’altra le lanciò uno sguardo d’intesa.
«Voi avete di certo più esperienza e mi rattrista che abbiate perso vostro marito così presto. Nel mio caso invece la realtà è piuttosto triste.»
Sylvia si sorprese a sorridere. Quando tornò seria, dichiarò:
«Il tempo lenisce ogni ferita, credetemi e mi piacerebbe davvero vedere un disegno o uno dei vostri acquerelli.»
«Se vorrete, a Luxor ve ne mostrerò qualcuno e se non vi piaceranno, dovrete essere sincera.»
Sylvia, che aveva riconquistato la padronanza di sé, annuì.
«Sarò imparziale e critica, promesso.»
«Mi farebbe davvero piacere rivedervi a Luxor. Le compagnie argute e piacevoli scarseggiano.»
«Allora prenderemo un tè insieme, parleremo di pittura e voi mi mostrerete i vostri lavori.»
La Brassey la fissò e un lento sorriso le illuminò il volto.
«Non vorrei essere sfacciata ma vorrei farvi un ritratto. Me lo permetterete?»
Sylvia sollevò un sopracciglio.
«Solo dopo che avrò visto di che siete capace, signorina Brassey e dopo qualche litro di buon tè egiziano.»
Si scambiarono uno sorriso d’intesa e tornarono ad ammirare il paesaggio. 

Nella cabina, Maggy, la cameriera che aveva assunto per il viaggio, stava rammendando uno strappo all’orlo di una sottogonna. Quando entrò la giovane posò il lavoro e le andò incontro, per prendere il cappellino che Sylvia aveva già tolto.
«Buonasera Milady. Faccio portare il tè dall’inserviente?»
«No, Maggy. L’ho già preso, leggerò qualcosa, anche se questo caldo mi ha spossata.»
Sylvia fu felice che la cameriera fosse lì ad aiutarla a svestirsi e a indossare la camicia da notte, ma la congedò alla svelta perché l’unico desiderio che aveva era di rincantucciarsi nel letto.
Sdraiata, ripensò a quel giorno nella brughiera. C’erano voluti parecchi mesi a quella ragazzina di quindici anni per superare la cocente delusione del rifiuto. 
Pagine e pagine di diario, struggenti poesie d’amore recitate in compagnia dei gabbiani e dell’oceano. Prima le delusione, poi la rabbia, poi la consapevolezza dell’età più matura che, alla fine, aveva relegato Nicholas Harper in un cassetto da aprirsi ogni tanto e mai troppo a lungo, come un ricordo dolce amaro.
Come aveva appena dichiarato con saggezza, il tempo lenisce ogni ferita ed era infine arrivato l’anno del suo debutto in società e della ricerca di un marito adatto. Per qualche tempo il padre l’aveva ascoltata perché anche lei, come Judith Brassey, avrebbe voluto un uomo colto, interessante, di aspetto piacevole anche se non bello.
La lista dei pretendenti era stata più volte ridotta. Una sera, dopo un valzer trascinante, Henry Clarence Winthorp, terzo conte di Dunmore, le aveva strappato una risata e un altro ballo. Brillante, arguto, si erano ritrovati a parlare di antichità, di scoperte scientifiche, di letture reciproche. Alla fine del terzo ballo lo sguardo del conte di Selborne scintillava sodisfatto.
Dunmore era parso a Sylvia il marito ideale: ricco, nobile, un pizzico di inafferrabile mistero nelle iridi smeraldo in cui passavano pensieri profondi e che, a volte, diventavano vacui e freddi sotto i riccioli d’oro in poetico disordine.
Un affascinante cherubino, che si mormorava avesse avuto una delusione d’amore anni prima. Convinta che i suoi sbalzi d’umore fossero dovuti all’animo malinconico e all’introspezione, si era persuasa di poter cancellare l’ombra da quegli smeraldi e, forte delle sue illusioni, si erano sposati in pochi mesi dopo un breve fidanzamento.
La prima notte lo aveva aspettato per più di un’ora tra le lenzuola di lino, nel maestoso letto a baldacchino in cui erano stati generati tutti gli antenati di Dunmore.
«Siamo soli.» Le aveva detto infine lui, appoggiandosi con la schiena alla porta appena chiusa, la voce strascicata. Sylvia non aveva distolto lo sguardo dal corpo nudo del marito, colta da una buona dose di scientifico interesse mentre lui si arrampicava sul materasso.
«Abbracciatemi e fate silenzio.»
Lei aveva ubbidito a tutti i comandi: toccalo, afferralo, vai più veloce. Lo stringeva in mano e, se da una parte sentiva che era la cosa giusta da fare, dall’altra percepiva che c’era dell’altro riservato a lei ma che, per qualche oscuro motivo, non le veniva dato. C’era qualcosa di inquietante nel fatto che lui restasse sdraiato inerme, mentre lei trafficava su di lui, notte dopo notte.
Dunmore teneva gli occhi chiusi come se fosse lì con il corpo ma altrove con la mente, senza mai toccarla, le braccia lungo il corpo, un borbottio lussurioso sulle labbra.
Dopo qualche settimana, i loro incontri notturni avevano cominciato a farle accapponare la pelle: qualcosa non quadrava, ma cosa?
Si rendeva conto di essere insoddisfatta, di avere bisogno di baci, abbracci, amore. Come un piccolo, selvatico animale avrebbe voluto curare le sue ferite da sola ma, visto che Dunmore di giorno era gentile e disponibile, aveva deciso di dissipare suoi dubbi affrontando il problema con intelligenza e razionalità. Tirate le indietro le lenzuola, afferrata la vestaglia dall'armadio con mani tremanti, si era avviata nel corridoio respirando piano per calmarsi. Quella notte, nessuna forza sulla terra avrebbe potuto trattenerla dall’andare a bussare alla porta di lui e dopo averlo fatto, l’aveva aperta con cautela.
La stanza era in penombra, solo le braci del camino e le tende tirate attorno al letto simile a un grottesco palcoscenico. Dunmore vi era adagiato, l'espressione stupita. Prima che potesse interrogarla, gli aveva detto con pacata fermezza:
«Milord, sono venuta a parlarvi dei nostri incontri notturni.»
«Che avete da lamentarvi?» le aveva chiesto senza tradire alcuna emozione.
Sylvia lo aveva guardato con la confidenza che si instaura tra coniugi.
«Ho letto da qualche parte che quando un uomo fa l'amore con una donna il risultato può essere piacevole per entrambi.»
«Vergognatevi e tornate a letto.»
«Vorrei anche dei figli e non credo che ciò che facciamo possa mai generarli.»
«Io non voglio figli. Andatevene, non metterò mai più piede nella vostra stanza.»
«Forse è perché abbiamo personalità incompatibili?» aveva sussurrato sconcertata.
«Tacete.» Le aveva rivolto le spalle e Sylvia aveva perso speranza e la calma. Come osava beffeggiarsi di lei, dell’intelligenza, della sensibilità, della comprensione di cui lo aveva ritenuto capace?
«Voglio il divorzio» aveva dichiarato con calma, incrociando le braccia sul petto.
Lui si era rigirato tra le lenzuola, per fronteggiarla.
«Siete pazza. Provateci e vi rovinerò, rovinerò la vostra famiglia e la vostra reputazione. Adesso uscite di qui, o vi farò buttare fuori dal mio valletto.» 
Sylvia aveva sbattuto la porta. Avrebbe voluto aggredirlo, strappare quei gelidi smeraldi che l’avevano fissata con malcelato disprezzo. Meglio ancora, avrebbe voluto prendere un coltello e torturarlo su quel letto ridicolo, ma si era imposta di avere pazienza. La forza fisica dell’uomo l'avrebbe sopraffatta, se avesse tentato di aggredirlo. Lei voleva uscire vittoriosa da quella guerra fredda, quell’unione assurda e sterile doveva finire.
Così, con l’aiuto della fornitissima biblioteca dei Dunmore, aveva chiarito ogni dubbio. Henry Clarence Winthorp, conte di Dunmore, non sarebbe mai diventato padre, né lei madre. Non era impotente, ma incapace di portare a termine l’atto in modo normale.
Poteva chiedere l’annullamento.
Mentre cercava il coraggio di confidarsi con il padre, Dunmore si era ritirato nella tenuta di campagna nello Hampshire e lei aveva approfittato di quelle settimane per perfezionare l’arabo, convinta di poter vedere al più presto le meraviglie che Adam descriveva nelle sue lettere. Italiano, francese e arabo per una donna, che
sarebbe stata ben presto libera.
Una mattina, rientrando in anticipo dalla cavalcata in Hyde Park, aveva sentito strani rumori provenire dalla scuderia. Li aveva sorpresi avvinghiati, Dunmore e James de Witt, l’amico fraterno che lo seguiva ovunque, testimone al loro sontuoso matrimonio.
Si stavano accoppiando in modo osceno e Sylvia sapeva bene cosa stesse guardando. Ne restò orripilata e affascinata allo stesso tempo e, nella sua mente, ogni dubbio venne sfatato.
Il problema non era il fatto che lei non fosse l’amore della sua vita, non era il carattere indolente, né l’alcol, né una tara mentale o di famiglia come aveva sospettato. Dunmore non amava le donne, ma gli uomini.
Suo marito l’aveva vista bene stagliata sulla soglia mentre de Witt affondava in lui con colpi energici e mugolava di piacere.
Quello stesso pomeriggio Patton, il valletto, le aveva consegnato un messaggio: “Parto per Dunmore Manor”. Nient’altro, neppure la firma. Fuggito come un ladro e ladro lo era stato, le aveva rubato il futuro con un matrimonio di copertura.
Sylvia aveva gettato nel fuoco il pezzo di carta. Non ne era innamorata, non lo era mai stata e non le importava nulla di ciò che avrebbe fatto quell’uomo con i suoi amici.
Decise, con una freddezza che la stupì, che gli avrebbe concesso di tenere in piedi la farsa solo se fosse stato disposto a permetterle di viaggiare, di ottenere la sua rendita ancora vincolata e avere un amante. Ne aveva il diritto, proprio come lui.
Risoluta, aveva atteso che tornasse dallo Hampshire. Erano trascorse due settimane, tre. La quarta si era trovata sulla soglia di casa James de Witt.
Dunmore si era sparato.
....


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6 commenti:

  1. Bellissimo, scritto con maestria, con i giusti ritmi e le perfette pennellate di magia nella descrizione degli scenari. La storia coinvolge ed i personaggi hanno un certo spessore, da leggere assolutamente! *_*

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  2. Le premesse sono ottime. Non ho dubbi che lo sia l'intera opera. Brava Adele!

    RispondiElimina
  3. Alessandra16/12/14, 11:42

    e poi? e poi?... devo davvero attendere altri due giorni?

    RispondiElimina
  4. Molto bello! Poi l'Egitto è il mio argomento preferito. Caldo e misterioso. Mi piacerebbe continuare ad assaporare l'atmosfera di questo racconto, anche perché leggere un romanzo di una autrice italiana è sempre un piacere. Un grande bacio e un auguri di Buon Natale!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Perdonatemi per errore ho inviato il mio commento con il nominativo di Anonimo. Mi presento io sono Irene. Un grande bacione :-))

      Elimina
    2. Ciao Irene! grazie per averci fatto sapere il tuo parere!

      Elimina

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