In
ginocchio, ai piedi del pino secolare, un ragazzo mendicava ormai da mesi.
Giovanna si chiese come avesse fatto la scorsa estate a non cuocere con il
caldo, e ora a non congelare in quel periodo che anticipava il Natale. Capelli
rasati, pelle liscia come quella di un bambino e sopracciglia depilate a
formare una riga sottile; poteva avere più o meno venticinque anni.
Giovanna
percorreva il vialetto che conduceva all’entrata dell’ospedale quasi ogni
giorno; a volte gli lasciava degli spiccioli, e lui rispondeva con un sorriso.
L’indifferenza
aveva causato molte vittime nel mondo, e lei non voleva diventare come una di
quelle persone che giravano la testa dall’altra parte.
Convincersi
che un uomo meritasse quella vita, confondeva la compassione che le si
stringeva come una corda attorno al cuore quando incrociava quello sguardo
mite.
Indossò
una tuta attillata da jogging, raccolse i capelli e si coprì naso e bocca con
uno scaldacollo.
Uscì
di casa e scelse il percorso più lungo; in partenza corse piano per scaldarsi,
raggiunse il parco attorno al quale fece un paio di giri, e proseguì a grandi
falcate per la via che portava all’ospedale. Rallentò in prossimità del vicolo
e si fermò con il fiatone davanti al ragazzo. Giovanna scoprì il volto e si
chinò posando sul piattino argentato i cinque euro racchiusi nel pugno per
tutto il tragitto.
«Come
ti chiami?»
«Adrien,
signora.»
«Piacere,
io sono Giovanna.» Sfilò un guanto e allungò la mano.
Due
grandi occhi nocciola la fissarono con curiosità; ricambiò con una stretta
delicata, ma decisa.
«Come
mai sei costretto a fare l’elemosina?»
«Non
sono costretto.»
«Raccontami
di te, se ti va.» Il sole già debole in quella stagione, non li raggiungeva con
il suo tepore filtrato dalle fronde del pino. Una nuvola si creò ad ogni
respiro tra i loro volti; spariva per ricomparire un attimo dopo. La pelle
arrossata di Adrien, l’immancabile espressione serena, le labbra socchiuse in
attesa di dire qualcosa.
Giovanna
si impose di resistere qualche minuto; il gelo raschiava sul viso come carta
vetrata.
«Raccontarmi?»
«Sono
curiosa.»
Adrien
sorrise, fissò di lato il piattino con i cinque euro e probabilmente pensò che
potevano valere qualche segreto.
«Ero
un clown. Il clown più malinconico del mondo. Durante l’ultima esibizione sono
scoppiato in lacrime e alcuni bambini della prima fila hanno iniziato a
piangere anche loro.»
Giovanna
trattenne una risata che bloccò tappandosi la bocca con una mano. «Perdonami.»
«Almeno
non faccio lo stesso effetto anche a lei.»
«Ti
hanno cacciato?»
«No.
Sono scappato come un codardo, ma per una crisi personale. Diciamo che
quell’esibizione mi ha scoraggiato del tutto. Ed eccomi qua; se sono fortunato
la sera rimedio un pasto alla mensa dei poveri e più di rado, anche una branda
per la notte. Ho la possibilità di fare una doccia alla settimana. I volontari
mi vogliono bene, ma siamo in troppi, ed è giusto che accontentino un po’
tutti.»
Nessuna
colpa, nessuna giusta pena da scontare. Migliaia di persone gli passavano
davanti, snobbandolo.
«E
quando non trovi posto nella casa d’accoglienza dove vai?»
«Dottoressa
Ferrante.» Una voce tuonò alle spalle di Giovanna. Si alzò di scatto, le gambe
addormentate dalla posizione accovacciata; un formicolio doloroso le percorse
mentre il cuore sussultò allarmato.
«Buongiorno,
direttore.» Il suo amato direttore Sergio, ma gli altri luminari accanto non lo
sapevano. La scrutò con occhi corrucciati, poi guardò Adrien di traverso.
«Arrivederci.»
Giovanna coprì il viso e riprese a correre, o meglio fuggì via, dopo aver
accennato un saluto con la mano al triste clown. Si lasciò alle spalle tre
menti eccelse con tanti punti di domanda.
Adrien
Mai
nessuno aveva dimostrato interesse riguardo alla sua situazione; aveva parlato
troppo rispondendo a tutte quelle domande. Ma Giovanna sembrava una tipa a
posto. Molto a posto, con quel fisico allenato, i lunghi capelli scuri, occhi
azzurri e carnose labbra rosa; il direttore se la mangiava con gli occhi.
Sembrava un uomo molto giovane, per aver fatto carriera, ma forse usava la
tinta per quei lucenti capelli castani. Così elegante, nel cappotto di Armani.
Ricco, intelligente… certa gente aveva proprio tutto dalla vita.
Ultimo
della fila, in coda a poveri disgraziati come lui, incrociò lo sguardo
dispiaciuto dell’operatore del centro, che sollevò le braccia a palmi in su.
Impossibile accogliere tutti, e lui aveva tardato perdendo il diritto a una
pasta al sugo e a una branda al coperto.
Quei
benedetti panini li facevano sempre più piccoli. Ma doveva accontentarsi,
provare gratitudine, e ringraziare l’angelo che aveva guidato Giovanna da lui.
Non aveva ricevuto altro denaro quel pomeriggio, perché quei tre signori per
bene gli avevano intimato di andarsene dalla sua postazione. Quanto li aveva
detestati in quel momento, e invidiati, certo.
Si
intrufolò in un vicoletto del centro, tra due vecchi palazzi. Melchiorre, il
barbone pazzo, una settimana prima gli aveva puntato un coltello alla gola per
rubargli un pezzo di cartone, e ora rannicchiato su di esso occupava lo spazio
più ambito, l’unico semicoperto, sotto la scala di emergenza.
Adrien
raggiunse l’angolo buio dove si sentiva più al sicuro e meno in vista. Posò la
schiena al muro e scivolò in basso. Quando il sedere toccò il cemento,
abbracciò le gambe posando la testa sulle ginocchia.
“Ecco
dove vado, quando non trovo posto nella casa d’accoglienza, cara
Giovanna."
Giovanna
La
pediatria aveva fatto il pieno di piccoli pazienti. Due di loro, ormai prossimi
alla dimissione, sceglievano le palline da appendere sull’abete, mentre
l’infermiera decorava i vetri con dei fiocchi di neve adesivi.
Giovanna
sedette ai piedi del letto di Paolo, il bambino biondo di otto anni, affetto da
Lupus eritematoso sistemico. Giunti alla diagnosi dopo accurati esami, l’equipe
di medici avrebbe scelto la terapia corretta. Stava soffrendo così tanto, con
quei dolori muscolari, il rash al volto, la febbre…
Paolo
raddrizzò la schiena, l’espressione corrucciata. «Mi annoio. E mi manca la
mamma.»
«Lo
so piccolo, ma la mamma deve assistere la tua sorellina che si è beccata la
febbre. Verrà il tuo papà, stasera.»
Sbuffando,
si buttò all’indietro e la testa sprofondò sul cuscino. «Tornerò a casa per
Natale?»
«Può
darsi, ma troverò il modo di farti passare la noia nel frattempo.» Giovanna si
alzò in piedi e strinse il mignolino con il suo, sigillando la promessa.
I
colori della savana riscaldavano le pareti della cameretta; la stanza Africa
portava come simbolo la giraffa che nel murales padroneggiava con il lungo
collo e lo sguardo sornione.
«Avresti
preferito la stanza con un altro animale?»
«Sì,
quella del lupus.» Paolo esplose in una risata contagiosa.
A
metà mattina Giovanna si concesse una pausa al bar dell’ospedale, al piano
terra, per fare il pieno di vitamine con una spremuta d’arancia. Ma quando le
labbra sfiorarono il bicchiere, ricordò di aver visto Adrien asciugarsi il naso
gocciolante con la manica della giacca. Uscì con il bicchiere in mano, seguita
dallo sguardo indagatore di Sergio, che sorseggiava il caffè mentre discuteva
con il capo del dipartimento di salute mentale. Aumentò il passo e raggiunse il
mendicante sfidando il freddo.
Giovanna
si chinò e gli fece l’occhiolino. «Bevi, ti farà bene.»
«Non
posso…»
«Dai
veloce, non farti pregare, che devo rientrare.»
Adrien
sorrise, bevve piano e deglutì a fatica; il volto soddisfatto nonostante il
probabile mal di gola che gli fece lacrimare gli occhi. Le restituì il
bicchiere vuoto. Quanta gratitudine trasparì nello sguardo, mentre con le dita
sottili riceveva come un dono prezioso i fazzolettini che Giovanna gli porse.
«Vorrei
aiutarti di più.»
«Non
si senta obbligata, dottoressa.»
«Lo
faccio perché lo desidero.»
Tornò
dentro di corsa, e indossando solo il camice, si rese conto che rischiava di
ammalarsi anche lei. Sergio l’aspettava tra le due porte automatiche
dell’entrata che si aprivano e chiudevano; il centralinista si lamentò
farfugliando qualcosa sul freddo che entrava e il caldo che usciva.
«Che
stai combinando?»
«Che
stai combinando, tu! Lo sai che a quest’ora in molti sono in pausa, non
dovremmo farci vedere insieme.»
«Questo
è un problema solo tuo, invece con quello là che cosa pensi di fare? Soffri
della sindrome da crocerossina? Perché in questo caso potresti aiutare le
infermiere che si lamentano della mancanza di personale.»
«Si
chiama compassione, e il tuo cuore da un po’ di tempo ne è privo.»
Lo
sorpassò e corse verso l’ascensore piombandoci dentro, unendosi agli altri
dipendenti in attesa di raggiungere il loro piano. Le porte si chiusero come un
sipario, innalzando un muro tra lei e lo sguardo smarrito del direttore.
Espressioni perplesse sui volti di dottori e infermieri, mentre saliva
stringendo il bicchiere vuoto.
Timbrò
l’uscita desiderosa di tornare a casa e non pensare più a niente; tuffarsi
nella vasca fumante e inebriarsi con un calice di vino, ma trovò Sergio davanti
all’entrata del palazzo.
Il
direttore si avvicinò, posò le mani calde sulle sue guance ghiacciate, e la
baciò sulla fronte. «Mi dispiace per oggi. Ma non è decoroso per un medico
chiacchierare con un vagabondo proprio davanti all’ospedale dove lavora.»
«Prendersi
cura di un povero ragazzo, non è contrario al codice deontologico.» Giovanna
indietreggiò di un passo.
«Dai,
non fare così.»
«Sono
stanca, lasciami andare a dormire.»
Sergio
soffocò le parole nella sua bocca, intrappolandola in un abbraccio. Giovanna si
liberò spingendo sul petto di lui ed entrò nello stabile. Con un fastidioso
prurito agli occhi chiuse la porta sbattendogliela in faccia.
Adrien
Nella
speranza di non dare fastidio a nessuno, Adrien aveva ripreso posto ai piedi
del pino. Ma quella mattina, quando incrociò lo sguardo bieco del direttore,
capì di aver sperato male. Un ragazzo vestito di bianco e con due spalle enormi
uscì da una porta di sicurezza brontolando, forse perché spettò a lui il lavoro
sporco, quello di intimargli ad andarsene da lì per sempre.
Adrien
vagò per le strade senza una meta fino a sera, allungando il piattino verso
quei visi che sembravano di poca fretta e meno ostili.
La
pietà aveva offerto denaro sufficiente per un biglietto del bus, ma prima di
lasciare la città, desiderava dirle addio. Attese in un angolo buio a pochi
metri dell’uscita dell’ospedale quando un’auto si fermò in divieto di sosta;
problemi per pagarsi una multa, o per comprarsi un poliziotto di certo non ne
aveva quel riccone.
Con
i soldi di quella Maserati, Adrien avrebbe vissuto di rendita due vite.
E
dall’auto scese il direttore sistemandosi la cravatta, l’aria tesa. Giovanna
uscì dall’ospedale, e trovandosi Sergio ad attenderla in fondo ai gradini, lo
ignorò superandolo a passo deciso. Il direttore le afferrò un braccio e la
voltò con prepotenza, occhi negli occhi.
«Non
puoi trattarmi così.»
«Lasciami.»
Giovanna si divincolò, lui la trattenne con più decisione.
«Che
cosa ti ho fatto?»
«Hai
fatto cacciare il ragazzo; come hai potuto?»
Le
luci intermittenti del grande abete si riflessero sul volto ottenebrato del
direttore, tinte dal blu al rosso; lo sguardo cattivo dell’uomo provocò uno
spasmo allo stomaco di Adrien. I guai cercava di evitarli, ma anche se aveva
paura, per quella dolce dottoressa si concesse un’eccezione.
«La
lasci.»
«Mancavi
solo tu, maledizione.»
«La
prego, lo vede che è spaventata?» Adrien si avvicinò, cauto.
«Questa
è la mia donna. Vattene prima che chiami la polizia.»
«Adesso
basta, smettila!» Supplicò Giovanna.
Adrien
la circondò da dietro con le braccia e la strappò dalla stretta del direttore.
«Toglile
le mani di dosso, pezzente!»
«Vattene
Sergio, lasciaci in pace.»
Il
direttore la fissò incredulo, la testa tra le mani. «Al diavolo!» Si avvicinò
all’auto e attivò l’apertura, guardò la dottoressa, gli occhi arrossati. Colpì
con un pugno la portiera e si allontanò facendo scattare la chiusura
automatica; proseguì a piedi verso il bar della via adiacente.
Giovanna
abbracciò Adrien, le lacrime scesero a bagnarle il volto, ma lui si scostò
prendendole le mani: dormiva per terra e da troppi giorni non si lavava.
«Adesso dovrebbe tornare a casa, al caldo. Se ha paura l’accompagno.»
«Sergio
non mi farebbe mai del male.»
«Ma
che cosa vi è successo?»
«Ci
siamo conosciuti qualche anno fa, quando ho iniziato a lavorare in pediatria.
La nostra relazione per ora è clandestina perché voglio evitare i pettegolezzi.
Ma il vero problema è che da quando ha fatto carriera si comporta in modo
arrogante e non lo riconosco più. Deve essere la solidarietà a motivare il
nostro lavoro, non la superbia.»
Adrien
la prese sottobraccio, s’incamminarono. «Non capisco la paura di rendere
pubblica la vostra storia.»
«Lui
è un direttore, e i colleghi penserebbero che ricevo favoritismi, mentre se
sono arrivata fino a qui è solo grazie al mio impegno.»
«Le
consiglio di fregarsene di quello che potrebbe pensare la gente, se vuole
essere felice. Ma lei lo ama ancora?»
Giovanna
sospirò. «Non lo so. Gli ho chiesto del tempo per pensare, ma lui mi assilla e
fa delle scenate come quella di stasera.»
«Prendersi
del tempo a volte è una scusa per non affrontare un problema. Credo che il
direttore si senta disorientato, gli dia un’altra possibilità.»
«Mi
riesce difficile dopo quello che ha fatto a te; ci hai sentiti mentre
litigavamo.»
«Non
mi trovavo lì per caso: l’aspettavo per dirle che domattina partirò. Questa
città brulica di poveracci e da un pezzo non trovo rifugio al centro.»
«Sul
serio? Te ne vai?»
«Mi
dispiace, neppure io amo gli addii.»
«È
tutta colpa mia, se ti avessi lasciato in pace, Sergio non ti avrebbe
cacciato.»
«Non
si senta in colpa, faccio sempre così: resto in una città solo per un po’.
Conoscerla è stata la cosa più bella che mi sia capitata.»
Giovanna
fermò il passo. Il sottofondo musicale propagato dagli altoparlanti doveva
ricordare doni e felicità, ma risultava stonato nei loro cuori malinconici.
«Io
abito qui; vieni a dormire da me stanotte, con questo freddo congelerai.»
«Ho
sopportato di peggio, e per lei è sconveniente. Buona fortuna, dottoressa.»
Adrien le asciugò la guancia con il pollice, le baciò una mano, sorrise e le
voltò le spalle, costringendosi a ripercorrere la via a passo veloce,
resistendo alla tentazione di tornare da lei.
«Buona
fortuna, triste clown.»
Le
lacrime gli raggiunsero i lati della bocca, così amare e prive di sale che
avrebbero potuto ghiacciare prima di arrivare al collo.
Adrien
Stupido
ragazzo dalla lacrima facile, senza uno straccio di fazzoletto; quelli di
Giovanna a forza di rigirarli li aveva sciupati. Dunque avrebbe passato così il
resto della sua inutile vita? Fuggendo da un paese all’altro e vivendo di
stenti?
Imboccò
il viottolo dove avrebbe trascorso la notte, Melchiorre russava accucciato nel
sottoscala; lo sorpassò in punta di piedi. Uno spauracchio quell’uomo.
Ingredienti per il mostro perfetto tutti concentrati su di lui: ossa sporgenti
e qualche dente sfilatosi piuttosto di rimanere in quella bocca maleodorante,
ricurvo come se un peso invisibile gli schiacciasse la schiena.
Adrien
si accovacciò ricacciando il vuoto che salì dallo stomaco; se lo avesse
svuotato dall’aria dentro non ci sarebbe rimasto più nulla. Strinse le braccia;
la fame si faceva sentire più violenta del freddo quella sera. Il carretto
colorato delle frittelle aveva profumato l’aria riempiendo le sue narici come
per dispetto. L’odore di fritto e vaniglia, gli ricordava il suo passato, gli
amici, il circo, le fatiche e l’impegno per far divertire il pubblico, e i suoi
fallimenti…
Ciambelle
sorridenti e profumate, in fila, tutte per lui. Gli saltavano in bocca,
circondate da spirali di auree ipnotiche, e divorata una, l’altra gli si
presentava davanti a fare un inchino. Glasse e codette multicolori, zucchero a
velo come soffice neve, gocce di cioccolato a pioggia. Si svegliò di
soprassalto; un piede gli scuoteva una gamba.
«Cazzo
ragazzo, pensavo fossi morto.»
Adrien
aprì gli occhi a fatica, la bocca impastata; un uomo in piedi, nella penombra
lo fissava. La camicia sbottonata, una bottiglia in mano, i capelli scuri
arruffati. L’odore di alcol lo raggiunse pizzicandogli il naso. Adrien
riconobbe il direttore, in tenuta da sbronzo si reggeva a malapena e sembrava
quasi simpatico.
«Mi
sono comportato da presuntuoso per sentirmi all’altezza del mio ruolo, e ho
rovinato tutto. Cazzo, ho rovinato tutto.» Sergio sbatté la fronte sulla
parete.
«Si
sieda, tanto non credo riesca a proseguire, in quelle condizioni.»
Il
direttore si accovacciò con la schiena appoggiata al muro, allungò le gambe e
fece ruotare la bottiglia vuota tra di esse.
«Non
hai mai toccato il fondo, ragazzo?» Chiese Sergio, strascicando le parole.
«Mi
vuole prendere in giro?»
«Sono
un idiota.»
«Dovrebbe
imparare a rilassarsi ogni tanto, signore.»
Sergio
rise, e la risata prese energia in modo progressivo, fino a divenire convulsa e
accompagnata da lacrime. Lanciò la bottiglia sulla parete di fronte, il fragore
di vetri rotti svegliò Melchiorre.
«Basta!
Fatela finita, gentaglia! Non dovete disturbare il sonno del conte.»
«Chi
è quel pazzo?» Riprese a ridere, Sergio.
«Non
si faccia sentire, quello è pericoloso.»
«Dimmi
ragazzo, perché vivi per strada? Che hai combinato?»
«Ero
il pagliaccio del circo. Sono fuggito come un vigliacco, lasciando persone che
mi amavano.»
«Sarei
scappato anch’io se mi avessero dato quel ruolo di merda.»
Un
uomo di classe davvero quel direttore, quando l’alcol gli circolava nelle vene.
«Non
è per questo che me ne sono andato. Il problema era mio, mi sentivo sbagliato.
Era una bella compagnia la nostra. Ricordo Nadia, affetta da nanismo, una fonte
inesauribile di energia, sempre sorridente. E poi Maruska legata su quella
tavola di legno, mentre il lanciatore di coltelli bendato la sfiorava con le
lame, ma così preciso da non ferirla mai. Dio come mi spaventava quel numero.»
«Ma
se stavi bene con loro, perché li hai lasciati? Sei strano, lo sai? E poi che
cosa significa “mi sentivo sbagliato”?»
«È
difficile da spiegare.» Adrien fissò il muro. Il cuore perse un battito
ricordando il sorriso di Andrej, il desiderio che provava per lui. Il cowboy si
esibiva cavalcando lo stallone con Nadienka in piedi sulle sue spalle,
bellissima nel costume rosso e lustrini. A fine numero gli applausi
accompagnavano il loro bacio. A quel punto il cuore di Adrien andava in
frantumi, anche se l’ultima scena faceva solo parte dello spettacolo.
«Insomma,
ti senti di merda come mi sento anch’io. Giovanna mi odia.»
«Non
credo, direttore.»
«Dovrei
lasciarla in pace, ma non ce la faccio.»
Sergio
tremava. Avrebbe rischiato l’ipotermia. Adrien sapeva bene cosa significasse
correre il pericolo di morire dal freddo.
«Deve
andare al riparo, si faccia forza.» Provò a sorreggerlo; troppo pesante per le
sue quattro ossa da mendicante. Scivolarono a terra. Nonostante tutto,
profumava ancora di colonia, e se fosse stato l’odore del Brandy, lo avrebbe
gradito comunque. «Mi presti il telefono, chiamerò Giovanna.»
«No
amico, non mi deve vedere così. E poi… Perché vuoi aiutarmi maledizione! Ti ho
fatto cacciare io dal tuo angoletto, lo sai?»
«Lo
faccio per la dottoressa.»
Adrien
sottrasse dal taschino il cellulare di Sergio. Percorse la rubrica scorrendo
con il dito, quando il sorriso di Giovanna apparve sul display, cliccò. Il
telefono squillò parecchie volte; rispose una voce assonnata.
«Che
cosa vuoi a quest’ora?»
«Sono
Adrien. Non si spaventi, ma il direttore ha bisogno di aiuto e non so chi
chiamare.»
«Dove
siete?»
«Nel
vicolo di fronte la chiesetta vecchia.»
Giovanna
sospirò. «Vi raggiungo subito.»
Giovanna
Ma
che cosa aveva combinato Sergio?
Passo
dopo passo, aumentava quel senso di oppressione alla gola come un laccio
stretto al collo. Paura, sensi di colpa. L’atmosfera natalizia del viale
illuminato allietava solo lei e un gatto rinsecchito che zoppicando attraversò
la strada, si fermò, strizzò gli occhi per una grattatina dietro all’orecchio
biforcuto, e soddisfatto ripartì mugolando.
Il
freddo si insinuò tra le fibre; morsi di ghiaccio dai quali non poteva fuggire.
Coprì il volto sollevando il colletto peloso della giacca. Imboccò il vicolo
privo di luci; si bloccò. Una figura nell’ombra avanzava trascinando una gamba,
aiutava il passo tagliando l’aria con un braccio. Giovanna puntò la torcia del
telefonino davanti a sé.
Lo
scintillio di una lama nella mano di un uomo, i capelli incollati come se
avesse preso una secchiata di grasso. Il sorriso di traverso occupava un lato
del viso, l’occhio ostruito da ciglia incrostate sembrava trovarsi nel posto
sbagliato, asimmetrico come tutto in quel volto. Un essere così ripugnante da
desiderare chiudere gli occhi e fuggire lontano, ma allo stesso tempo provò
pena nel vedere un essere umano in quello stato: un individuo che non aveva
niente da perdere, e questo avrebbe dovuto spaventarla di più. Le afferrò il
polso, il telefonino rovinò a terra. Giovanna sollevò la testa, invitata dalla
punta metallica che premeva alla base della gola. Ogni muscolo si irrigidì,
bloccata, incapace di reagire. La schiena sbatté contro il muro, e desiderò
sprofondarci dentro, per allontanare il volto da quella bocca, e proteggere il
collo dal metallo che pungolava. Le sfuggì un gemito di paura.
«Lasciala!»
Dio
quella voce; forse aveva una speranza. Il pazzo circondò il collo di Giovanna
con una mano, oscillò il coltellino verso Adrien, soffermandosi su Sergio
sostenuto alla parete.
«Il
conte vuole la sua parte, sgancia il portafogli direttore dei miei stivali, o
faccio secca la bambolina.» Melchiorre rise, abbassando lo sguardo sulla punta
delle scarpe così consumate da lasciare intravvedere gli alluci.
«Prima
la devi lasciare!» Adrien si avvicinò con le mani alzate, il telefonino di
Sergio in mano.
«Resta
fermo dove sei!», gridò Melchiorre, stringendo con più forza attorno al collo
di lei.
Le
orecchie di Giovanna fischiarono, spalancò la bocca alla ricerca di ossigeno.
Colta da un capogiro, le gambe cedettero.
Adrien
puntò la torcia sugli occhi di Melchiorre accecandolo, l’uomo si coprì il viso
con un braccio, mentre Sergio lo caricò fronteggiando la sbornia, l’alcol
evaporato come un liquore flambé. Giovanna inspirò aria cibandosene, con le
mani tastò il collo; bruciava dove il coltellino aveva violato la pelle, dove
la vita aveva rischiato di scivolare via.
«Basta
così!» Adrien trattenne per le spalle Sergio, per allontanare braccia e pugni
dal barbone. Il pazzo si lamentò contorcendosi; aveva ancora il fiato per
bestemmiare e imprecare maledizioni.
«Sergio!»
Giovanna gridò, le lacrime in gola, tossì. Il suo direttore l’abbracciò forte,
e il cuore in quel petto batteva come un tamburo.
«Andiamocene!
Melchiorre si sta riprendendo.» Adrien porse il telefono al direttore,
illuminandogli la camicia con un fascio di luce, una macchia cremisi si
dilatava.
Giovanna
toccò la ferita, la esaminò, tastò i polpastrelli appiccicosi. «Dobbiamo andare
in pronto soccorso!»
«Non
posso, mi conoscono tutti. Guardami: che cosa direbbero di me?»
Giovanna
sospirò, e premette con un fazzoletto sulla ferita. «Va bene, dovrei avere del
filo da sutura a casa: ogni tanto mi esercito per non perdere la mano. Ti prego
Adrien resta con noi, ho bisogno del tuo aiuto.» Si abbassò a raccogliere i
pezzi del suo telefono.
Giovanna
Sergio
saltava sulla sedia; Giovanna in piedi di fronte a lui infilò l’ago nella pelle
per l’ultimo punto.
«Ho
quasi finito. Sei peggio di un bambino.»
«Ma
non ho l’anestesia.»
«Non
ne tengo: per suturare uso le cavie in gomma. Comunque dovrebbe essere
sufficiente quello che hai bevuto per attutire il dolore.»
Giovanna
indicò delle garze e un disinfettante sul tavolo. «Me ne passi una per
cortesia?»
Adrien
aprì l’involucro e glielo porse; Giovanna estrasse la garza e coprì la ferita
di Sergio.
Il
suo direttore, l’uomo tutto d’un pezzo, aveva perso la testa scegliendo di bere
per non affrontare se stesso. Gli accarezzò una guancia.
Lui
le fermò la mano. «Non ti merito, ma ho bisogno di te.»
«Forse
è il caso che me ne vada?»
«Non
se ne parla, Adrien. Puoi fare una doccia mentre preparo la cena, se così si
può chiamare un pasto alle tre di notte.»
«Troppo
disturbo dottoressa, non occorre.»
Sergio
si alzò in piedi. «Ora sono io ad insistere. Giovanna è tanto dolce e buona, ma
dovresti vedere come si trasforma quando viene contraddetta.»
Risero.
Dovettero
pregarlo parecchio, ma Adrien alla fine cedette.
Giovanna
frugò in frigorifero alla ricerca di cibo.
«Lascia
stare. Ho messo dell’acqua a bollire: non credo che Adrien abbia voglia di
morire con quelle confezioni di roba vegetale aperte chissà da quando tempo.»
«Hai
una grande fiducia nella mia arte culinaria.» Giovanna finse il broncio
chiudendo lo sportello.
Sergio
posò le mani sulle guance di lei. «Sei brava in molte altre cose.» Avvicinò le
labbra che fremevano per il desiderio di assaggiarla di più. Lei cedette al
bacio.
«Senza
di te non sono nessuno. Ti amo così tanto che il solo pensiero di perderti mi
ha distrutto.»
«Ti
amo anch’io, anche se ti preferisco ubriaco: sei più simile a te stesso.»
Risero e si distesero sul divano. Sergio gemette, e respirò con affanno,
premette sulla ferita contorcendosi.
«Mi
dispiace, me ne ero dimenticata.»
«Fa
un male cane, meglio se restiamo tranquilli. Abbiamo anche un ospite sotto la
doccia.»
«Vuoi
un antidolorifico?»
«Non
serve; adesso mi passa. Ma ho bisogno di sapere per quale motivo ti sei presa
così a cuore quel ragazzo.»
Giovanna
sospirò, si alzò e aprì la cassettiera.
Gli
scheletri nell’armadio non potevano rimanere nascosti per sempre, anche se si
trattava di una vecchia cornice in un cassetto, una foto riesumata dalle
cianfrusaglie da più di dieci anni, che mostrò a Sergio sedendogli di nuovo
accanto. «Questo è mio fratello. A diciotto anni, dopo lunghe ricerche, hanno
ritrovato il suo corpo ai piedi di un albero, nei giardini pubblici di una
città: morto per overdose.» Scoppiò
in lacrime, il dolore ancora vivo bruciava come fuoco.
«Se
qualcuno si fosse preso la briga di aiutarlo, ci sarebbe stata una minima
speranza, una seconda possibilità anche per lui. E se io avessi pensato meno a
me stessa, agli studi e alla mia realizzazione personale…». La voce le si
strozzò in gola. Aveva nascosto quella foto, insieme ai sensi di colpa che
avvertiva ogni volta che incrociava quegli occhi blu.
Sergio
la circondò con le braccia, cullandola. «Lo sai che non è stata colpa tua.»
«Ma
sento il bisogno di riscattarmi lo stesso.»
«Cosa
intendi fare con Adrien?»
«Lo
aiuterò a ritrovare fiducia nelle sue capacità, e se ci riesco anche qualcosa
in più.»
«Sei
unica, Giovanna.»
Adrien
Adrien
trascorse il resto della notte nella stanza degli ospiti. Al risveglio trovò un
maglioncino e dei pantaloni ai piedi del letto, li indossò anche se troppo
larghi per lui. Profumavano di rose e inspirò l’odore di pulito. Andò in cucina
accolto dall’aroma del caffè e da una tavola imbandita di frutta, cereali e
cornetti spolverati di zucchero.
«Avanti
Adrien, fatti sotto, non posso mangiare tutto da sola.»
«Sergio
non c’è?»
«Non
so come farà, ma stamattina è andato a un corso di aggiornamento.»
«E
questi?» Adrien indicò i vestiti.
«Puoi
tenerli. Magari ne compreremo di nuovi.»
«Ma
non ho un centesimo.»
«Oh,
non preoccuparti, mi ripagherai. Ho un favore da chiederti.»
Giovanna
sollevò una sacca dalla sedia e la posò su un angolo del tavolo, aprì la zip e
lo invitò a guardarci dentro. Una parrucca, un naso rosso, delle trombette, un
costume da clown e un kit per il trucco.
«Ho
promesso ai miei piccoli pazienti che verrà un amico a spezzare la noia. Dovrai
darti da fare e stavolta niente lacrime.»
In
quel momento Adrien avrebbe desiderato sparire, ma grazie a Giovanna avrebbe
potuto far ridere quei bambini, e prendersi la sua rivincita.
Giovanna
Giovanna
fece scorrere il badge sul lettore, aprendo le porte di accesso al reparto di
Pediatria; Adrien si fermò sulla soglia e sospirò. Giovanna gli sorrise.
«Coraggio.»
Gli
infermieri increduli li seguirono con lo sguardo, le espressioni divertite, ma
anche incuriosite dal misterioso pagliaccio. Non sapendo chi si nascondesse in
quel costume, nessuno osò commentare.
Entrarono
nella prima stanza, quella di Paolo. Giovanna si avvicinò al letto. Il bambino
sgranò gli occhi e a gattoni si sporse per vedere meglio il clown; Adrien
inciampò, rotolò per terra e si contorse emettendo strani ululati e
imprecazioni incomprensibili. Il bambino scoppiò a ridere, mentre Giovanna
preoccupata soccorse il pagliaccio, e Paolo rise anche di lei.
Adrien
ripeté l’esibizione con tutti i bambini. Dopo un’ora aveva ammaccature
dappertutto, ma nello sguardo felice traspariva la soddisfazione di esserci
riuscito.
I saluti e le risate dei bambini accompagnarono il loro
passaggio verso l’uscita. Sergio li attendeva in guardiola, e iniziò un
applauso in onore del clown.
Giovanna abbracciò il suo direttore, un abbraccio discreto,
ma sufficiente a dichiarare la loro unione.
Giovanna
Il tendone a strisce gialle e verdi occupava la piazza degli
spettacoli. Zebre e lama gironzolavano pacifici nei recinti esterni; un
giocoliere sui trampoli, il viso tinto di bianco, si esercitava con i birilli.
Di Adrien sul sedile da passeggero a suo fianco non sentì
nemmeno il respiro. Gli aveva promesso una sorpresa, ma avvertiva tensione da
parte del ragazzo, anche se la manifestava con il silenzio.
Giovanna parcheggiò e spense il motore. Ci volle coraggio per
voltarsi e dire qualcosa; lo sguardo di lui fisso sul parabrezza.
«Ti ho mentito, non ho partecipato a un convegno. In questi
giorni sono andata a caccia del Circo dei Sorrisi. Desiderano
rivederti, ma c'è una persona in particolare che ti aspetta.»
«Non doveva farmi questo. Per quale motivo crede che me ne
sia andato, Giovanna?»
«Sei fuggito dall'amore senza rendertene conto.»
Da una roulotte scese un ragazzo, l'abbigliamento da cowboy
nel corpo scolpito da anni di allenamenti. Il domatore acrobatico si avvicinò,
e le lacrime divennero visibili quando si piazzò davanti alla portiera. Adrien
scese dall’auto; i loro sguardi rivelarono segreti nascosti nei cuori e taciuti
troppo a lungo. Andrej lo abbracciò con vigore e scoppiarono in lacrime, fronte
sulla fronte, le labbra si unirono in un bacio di passione.
Nadia, la piccola grande donna, si avvicinò con la sua andatura
anserina, le mani a sostenere la schiena. Si godette lo scena
e alzò lo sguardo su Giovanna mostrando un grande sorriso.
«Avevo capito tutto già da tempo, ma accettarlo per loro è
stato più difficile. Grazie a te, Adrien è qui. Il cielo si espande quando gli
angeli si scambiano dei favori.» Strizzò l’occhio.
Giovanna sgranò i suoi. «Come?»
Adrien asciugò le lacrime e si avvicinò con le braccia aperte
che si chiusero avvolgendola e cullandola. «Se il mio cuore non battesse per
Andrej, sappi che Sergio avrebbe un rivale in amore.»
«Sei il migliore amico che una donna possa avere, e questo mi
basta.» Si guardarono negli occhi, il sorriso sulle labbra. «Fra qualche giorno
è Natale e vorrei invitarvi in ospedale con i vostri costumi per offrire una
cioccolata ai bambini. Pensate di farcela?»
«Puoi contarci.»
25 Dicembre
Caro diario,
ho scoperto che gli angeli hanno aspetti diversi e una
missione importante da compiere.
Lui ha il naso rosso, e se qualche bambino ora piange, è solo
per l'effetto delle risate.
Giovanna.
Fine
CHI E' L'AUTRICE...
Helena J. Rubino dice di sè: " Mi piace scherzare, prendere la vita come viene e dare consigli. Gli amici mi giudicano un po’ pazza e hanno ragione, però non mi abbandonano mai.
Scrivere mi aiuta a tenere i piedi per terra, per non confondere le fantasie con la realtà.
Se mi cercate, lavoro in un luogo dove le menti sono perse in diverse dimensioni, ma ognuno ha ragione nella propria certezza.
Il mio moto è: ama i tuoi desideri."
Helena si è fatta conoscere dalle lettrici del nostro blog partecipando a Summer in Love 2017 con il racconto Un cuore di acquamarina (vedi qui) che è stato molto apprezzato dalle lettrici.
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RispondiEliminaRingrazio Aina Sensi, mia cugina Barbara, Francesco F. e Francy, perché è con il loro aiuto e la fiducia che questo racconto ha preso vita.
RispondiEliminaDedico "L'angelo dal naso rosso" ai lettori e alle lettrici, a chi è alla ricerca di sé, a chi si è perso e poi ritrovato, a chi purtroppo non tornerà mai più, e al giovane mendicante che mi ha ispirata.
Grazie di cuore!
Racconto dolce e tenero nella sua semplicità. Tutte caratteristiche che dovrebbe avere il Natale e che nonostante tutto troppo spesso dimentichiamo. Brava all'autrice.
RispondiEliminaComplimenti! Un racconto dolcissimo, pieno di speranza e scritto con il cuore. Molto bello.
RispondiEliminaEmiliana
E' un racconto dolcissimo, scritto con una sensibilità e una cura lo che rendono prezioso. L'accoglienza e il rispetto per le diversità sono temi natalizi, ma che andrebbero ricordati tutto l'anno. Brava Helena, continua a scrivere racconti per noi ;)
RispondiEliminaDAVVERO MOLTO. . . Intrigante, Divertente, Comico E Romantico !!! COMPLIMENTI VIVISSIMI all' AUtrice :D
RispondiEliminaUn dolcissimo racconto di Natale, complimenti!
RispondiEliminaNora June
Una storia particolare, complessa, scritta con cura. Grazie.
RispondiEliminaRacconto molto bello! Ho apprezzato il tatto e la delicatezza con cui l'argomento è stato trattato senza mai scadere nel banale. Complimenti!
RispondiEliminaNora June
Molto molto bello!!! Complimenti all'autrice
RispondiEliminaDecisamente un racconto che tratta un argomento insolito. Misurato, con un buon equilibrio fra i tre protagonisti che hanno un'evoluzione positiva nell'arco del breve respiro che dá il racconto. Ben scritto davvero.
RispondiEliminaMolto bella anche la dedica e i ringraziamenti.
E.
Ciao cara Helena :-* Il tuo " Angelo dal naso rosso " s' é appena guadagnato il mio. . . 2° VOTO :D BUONA FORTUNA ;)
RispondiEliminaGrazie di cuore!!!
EliminaHo apprezzato molto questo racconto, un tema su cui riflettere. Grazie Helena, uno spunto degno di un Natale Vero!
RispondiEliminabello molto commovente mi ha fatto salire le lacrime agli occhi.bei personaggi positivi che rimangono impressi nell'animo.Elisabetta
RispondiEliminaQuesto racconto si discosta dagli altri per i temi che tratta e fa riflettere. Anche in questa occasione Helena Rubino ci ha donato un bel racconto carico di sensibilità e la ringrazio tanto.
RispondiEliminaracconto molto bello, che evidenzia il fatto che sia tutti molto egoisti nei confronti dei meno fortunati.
RispondiEliminami è piaciuto molto il racconto perchè poi il finale è decisamente diverso da quello che mi sarei aspettata leggendo l'inizio. due storie d'amore in una, vale doppio!!