VENTISEI di Emiliana De Vico





Mi hanno detto che sono un esperto nel prendere le palle vive, ma sono partito in ritardo di un secondo e il ventisei è già con il braccio verso l’alto. Sembra capace di sollevare la carrozzella con la sola forza dell’estensione corporea. Mi slancio, ma col cavolo che ce la farò. Resto fermo a guardare come palleggia e i passaggi precisi che la Spoleto SAS sa fare. Il ventisei al tredici, il tredici al quindici e il quindici al quattro.
«Muoviti, Francé, cosa diamine guardi!» urla Davide sorpassandomi. Gira su una sola ruota e si mette con le spalle al canestro. Tocca a me braccare il ventisei, ma mi sono lasciato disorientare e ora sono indietro.
«Dai, recupera.» Giacomo mi spinge con i castrors della sua carrozzina e solo allora mi avvicino all’area dove si sta svolgendo l’azione. Il ventisei tocca: è rivolto al canestro e con le mani indirizza la palla. Vuole il punto. E chi non lo vuole in una partita del campionato nazionale?
So che non dovrei farlo, ma mi avvento verso i giocatori, mi faccio spazio e da dietro attacco la carrozzina del ventisei. La sbilancio e quasi la mando a terra. Il fischio dell’arbitro è inevitabile. Il fallo da sfondamento era l’unica cosa che mi restava da fare, e l’ho fatto. Sento l’imprecazione del giocatore quando la palla se va libera. So cosa si prova a perdere un punto quasi conquistato.
Mi giro verso l’arbitro e aspetto di sapere quale sarà la nostra punizione. Anche se il fallo l’ho commesso io, l’intera squadra ne farà le spese.
Davide mi passa a fianco e mi guarda stupito. «A che gioco stai giocando, oggi? È basket in carrozzella non autoscontro. Datti una svegliata. Dio, ma ti sei fatto?» Ha quel viso giudicante che assume poche volte, ma quando lo fa ti fa sentire un verme.
Non gli rispondo. Non ho proprio giustificazioni. Quando agli avversari vengono concessi due tiri liberi stringo le mani sui corrimani. Ho i guanti inzuppati di sudore e mi viene voglia di slacciarli e buttarli a terra, ma non ho mai imparato a manovrare la carrozzina senza protezione. Perderei la presa e mi brucerei il palmo, così com’è successo a Davide, che ha calli su tutta la superfice della mano. Anche il ventisei guida la sua carrozzella senza protezione. Chissà com’è la sua pelle. Ispessita? Piagata? Screpolata e sporca?
«Fanne ancora di bravate inutili e ti faccio uscire» mi dice Davide, e si dispone per guardare i tiri liberi. La ola del pubblico inizia un attimo prima che la palla a spicchi compia la traiettoria verso il canestro. Il ventisei non sbaglia, e quando si gira ha un sorriso largo, mi sfotte facendomi l’occhiolino e alzando il sopracciglio.
Digrigno i denti. Il pubblico applaude fino a che ci disponiamo di nuovo ai nostri posti, poi torna silenzioso. Io sto vicino al ventisei, incollato alle sue ruote anteriori, a volte a quelle posteriori, più spesso al suo fianco. Gli giro attorno quando prova a fare le sue mosse, le blocco l’avanzata della carrozzella. Ci contendiamo un paio di palloni e poi lasciamo che gli altri contribuiscano alle sorti della partita.
«Vacci giù duro, ma pulito. Adottiamo lo schema di difesa provato agli allenamenti» mi sussurra Davide, nonché capitano della squadra, passando a una spanna da me.
Mi trovo madido già dai primi dieci minuti di gara. Il sudore si sente forte in campo. Quando il fischio dell’arbitro ci concede la pausa mi dirigo verso la nostra panchina. Qualcuno mi butta una bottiglia d’acqua.  La stappo, la bevo, un po’ me la verso addosso sulla canotta verde e nero.
«Francesco, ti faccio sostituire da Andrea? Oggi sei su un altro pianeta» mi chiede il capitano.
Lo guardo storto mentre butto alle riserve la bottiglietta mezza vuota. «Che diamine dici, Davide. Certo che no!»
«Allora tieni marcato quel il ventisei e non farlo tirare con la destra. È lento nei passaggi a sinistra ma ha una buona ripresa. È preciso, quindi cerca di tenerlo lontano dal canestro.»
Sono concentrato su ciò che Davide mi dice di fare, ma solo con le orecchie. Con il resto del corpo sono concentrato sul ventisei e osservo com’è attento alle parole del suo allenatore.
«Francé, cazzo, ci sei?» mi spinge per una spalla.
Torno con lo sguardo sul capitano. Il sudore gli scende da una tempia e lui se lo asciuga con una mano. Anch’io ho la fronte bagnata e una goccia mi scivola all’angolo dell’occhio. «Chi è? Non c’era tra i giocatori quando abbiamo visionato le partite della Spoleto SAS» domando facendo un cenno in direzione degli avversari.
«E che ne so. Può essere un giocatore in prestito, un nuovo acquisto, uno della panchina che ha guadagnato il posto da titolare. È un numero. È il numero da marcare. Il ventisei è tuo e non mollarlo neanche un secondo o ti sbatto fuori dal campo.»
Me lo dice a brutto muso e solo allora mi concentro davvero sulle sue parole. Mi aggiusto la canotta che mi si è appiccicata dietro la schiena, dove la pelle incontra la seduta della carrozzella. Anche le gambe sono incollate alla tela. Le luci sono così forti da entrarmi in testa e mi tocca stare con le palpebre socchiuse.
Il ventisei ha una sedia rotelle Halley Hoop, una di quelle che vanno bene sempre, e a tutti, basta regolarla e ci si muove facilmente. Noi abbiamo delle Assist, fatte su misura. I nostri sederi ci stanno alla perfezione, anche quando sono sudati e scivolosi restano fermi e posizionati. Costano un occhio della testa ma sono state finanziate dal Centro sportivo di Chieti che Davide gestisce.
Allo scadere della pausa siamo di nuovo in campo.
Io mi concentro.
Mi concentro sul ventisei e lo guardo fisso. Cerco di intuire le sue mosse e a quali compagni passerà la palla.
Mi concentro e guardo come la canotta rossa gli tira un po’ sul petto, come respira veloce guardando il gioco degli altri, e come quasi smette di fiatare quando la palla a spicchi vola verso di noi.
Mi concentro sul suo viso mentre ci contendiamo il possesso della palla.
Mi concentro, ma il ventisei se ne accorge e mima con la bocca: «Vaffanculo.» Ruota sul posto e si getta nella mischia cercando di arrivare sotto canestro. Gli sto alle costole e quando la palla lo colpisce al torace e rimbalza potrei allungare una mano e rubargliela, invece non lo faccio. Non so perché, ma non gliela contendo e il punto è bello che perso.
«Francé! » urla Davide, ma non mi volto verso di lui.
Cazzo, cazzo, cazzo, inveisco in silenzio. 
Alla seconda pausa sono al collasso. I miei compagni mi osservano. Ho voglia di slegarmi e fare due passi per sgranchirmi le gambe. Come diavolo fanno, loro, a restare seduti tutto il giorno? Questione di percezioni, di sensazioni che arrivano e si fermano a mezza via. A me attraversano il corpo per intero. I miei impulsi nervosi sono gravidi e il movimento viene fuori prepotente. Mi slego veloce e faccio un po’ di allungamenti alle gambe. Scopro che il ventisei mi sta guardando mentre saltello sul posto, e continua a farlo anche quando mi metto di nuovo sulla carrozzella e assicuro le cinghie alle gambe e ai piedi.
«In campo!» grida Davide e tutti facciamo una stella con le nostre dita unite. Io sono l’ultimo a prendere posto: al fianco del ventisei. Quando la palla viva si stacca dalle mani dell’arbitro sono dentro il gioco, dentro le urla degli spettatori. Sono con i miei compagni. Gioco per quello che posso e… il ventisei gira la testa così di scatto che la lunga coda bionda quasi mi schiaffeggia la faccia, tanto gli sto vicino.
«Vuoi vedere come ti batto?» mi dice, ma penso che sia solo un modo per svegliarmi dal torpore. Chissà se anche qualcun altro è rimasto folgorato da questo numero ventisei.
«Provaci» rispondo, ma non sono per nulla convinto delle mie capacità. Mi avvicino ancora e in un secondo lungo un’ora vengo a contatto con i suoi occhi. Chiari, verdi, quasi acqua, quasi smeraldo lucido e incazzato. Il ventisei ha un bel modo di rubare e contendere la palla a spicchi. Non credo di aver mai visto un giocatore del genere. È la prima donna contro cui mi cimento nella pallacanestro. Non dovrebbe importarmi, la diversità di genere non è un limite per il basket in carrozzella. È un giocatore. È un avversario. È un numero. Il mio numero, ha detto Davide.
Qualcuno mi spinge con una spallata e lei ne approfitta, si sgancia dal mio pressing e con un solo colpo di mani si mette in posizione attendendo che i compagni le passino la palla. La segue con una tale forza che mi stupisco di vederla rotolare fuori dall’area di gioco e non verso di lei. Si accorge che la sto ancora fissando. Sempre. Sempre più.
Alza il dito medio nella mia direzione e un po’ ci resto male.
Le parole di Davide mi spiazzano. «Spostati, la marco io. Tu fai cambio con…»
«Non ci pensare per niente.» Con gli addominali regolo la postura e spingo le ruote riportandole vicino al ventisei. Le guardo le gambe. Perché è sulla carrozzina? Cosa l’ha portata all’immobilità parziale? Oppure è un’amica di qualche giocatore, così come io lo sono di Davide. Anche se cammino e corro, ho scelto di giocare con lui quando ha creato la squadra di basket su ruote, sono stato al suo fianco e ora sono uno dei suoi uomini migliori. Si fa questo e altro per gli amici. Lei per quale motivo lo fa?
Alzo gli occhi. Il tabellone non mente, siamo in svantaggio.
«Perché diavolo continui a guardarmi? Gioca o vattene. Io ti avrei già buttato fuori dal campo» mi dice e la sua voce è arrabbiata. Forse nessuno mai l’ha osservata tanto come sto facendo io. Non sto giocando, mi limito a starle vicino, a vedere come prende e lancia la palla, come la coda alta oscilla dietro di lei e come le scapole vengono fuori dalla schiena quando spinge la carrozzina con tutta la forza che ha.
«Francé, adesso mi hai rotto le palle. Chiedo la sostituzione» mi dice Davide e lo capisco. Oggi sono uno scemo.
In un attimo sono fuori. Sono in panchina ma, anche se il mio orgoglio un po’ ne soffre, continuo a fare ciò che ho fatto da quando le squadre si sono schierate in campo: osservo.
«Non ti senti bene?» mi chiede una donna dagli spalti. La compagna di Davide è tra gli spettatori. Ci segue sempre e tifa. Mi giro verso di lei e alzo il pollice in un gesto di rassicurazione. Torno al mio compito principale: riempirmi gli occhi del ventisei. È una ragazza avvenente. La tuta lunga la copre interamente e non riesco a capire la conformazione delle gambe. Le scarpe da ginnastica ai piedi sono alte e le nascondono le caviglie.
Sono curioso. Sono morboso nel volere scoprire qualcosa di lei.
Trattengo il fiato quando Davide la spintona involontariamente e lei finisce in avanti. È svelta del darsi una spinta a terra e a riprendere la posizione. Sa come manovrare quella carrozzina, non è una principiante. «Cavolo, stai attento, Davide» mi trovo a gridare e non so più di che squadra sono. All’ultimo intervallo ho i nervi così tesi che stanno per saltare. Appena il capitano mi torna vicino lo assalgo. «Fammi entrare di nuovo.»
«Con te fuori abbiamo recuperato qualche punto» mi sbatte in faccia la verità, ma io non so che farmene di bugie.
«Starò più attento.»
Anche lui mi guarda una vita intera. Non so cosa stia pensando, ma il fatto che ci conosciamo da tanto non gioca a mio favore.
«Entra! Ma datti una svegliata. Un’altra stronzata come quelle di prima e te vai tra le riserve.»
Annuisco. Il ventisei è ancora mio. Vorrei poter fare una ricerca su google sulla Spoleto Sas e sapere chi è, quanti anni ha, come si chiama. Invece le torno vicino. «Ciao» le sussurro e mi sento uno scemo che attacca bottone con una che non ci sta. La sua espressione la dice lunga su ciò che pensa di me.
Il fischio dell’arbitro mi riporta in gara, lei indurisce i lineamenti e spinge sulle ruote come una matta. La seguo, ma sono poche le palle che riesco a strapparle. Mi ha corroso, questo ventisei dai capelli lunghi e dagli occhi chiari, di cui non conosco il nome. L’ultimo periodo di gioco è quasi dato per perso. Sono tanti i punti da recuperare. Ci schieriamo in difesa cercando di non aumentare il distacco dalla Spoleto Sas.
La fine della partita arriva come una liberazione. Nessuno mi dà il cinque e i miei compagni se ne vanno delusi negli spogliatoi. Li seguo, ma solo perché il ventisei si è già inoltrato verso l’area riservata alla sua squadra.
«Dovrai spiegarmi, prima o poi, questo tuo comportamento.» Davide si sta asciugando e dalla sedia posta sotto la doccia si risistema sulla carrozzella.
Io sto in piedi e mi lavo veloce. Ho una cosa da fare. «Dopo» gli dico e mi rivesto ancora mezzo bagnato. Carico la sacca in spalla e trascino la mia sedia a rotelle al furgoncino che ci ha portati fino al campo sportivo. Mi piazzo alla fine del corridoio. Quando la porta dello spogliatoio donne si apre, mi si ferma il fiato. Non ne esce una carrozzina ma una donna in piedi che si appoggia a due stampelle. È alta e ha ancora la coda legata sulla sommità della testa. Sembra sorpresa di vedermi lì davanti.
«Ciao» le dico un po’ intimidito.
Ora siamo a un’altra altezza. È un’altra dimensione, dove non ci sono canotte e numeri sulle schiene, solo i profumi dei nostri bagnoschiuma si scontrano. Io non attacco e non difendo. Ma lei sembra schiva e allunga il passo per quanto può. «Ciao, bella partita» risponde guardando a terra.
«Posso portarti la sacca?» La vedo affaticata dal peso che ha sulla schiena. Possibile che nessun componente della squadra sia venuto per aiutarla?
«No, non puoi.»
Cerca di sorpassarmi ma io mi affianco con la stessa tattica che ho usato in campo, e che si è rivelata fallimentare. È un interesse che sta andando al di fuori del gioco. Qualcosa che trascende il numero che abbiamo sulla canotta e che confluisce nel pregresso di una vita. Il prima e dopo la partita. Il prima e dopo l’incontro in campo. Chi è questa donna quando si toglie la tuta con il suo numero? Bel corpo, bel temperamento, bel gioco. Il ventisei è un bell’atleta. «Giochi da tanto? Sei brava nel manovrare la carrozzina.»
Si ferma e ruota su una gamba e sulle stampelle. Capisco da come poggia il peso sulla destra che è la sinistra quella problematica. «Gioco da quando avevo dodici anni e mi cimento con le sedie a rotelle da quando ne avevo dieci.»
Vorrei chiederle perché, ma mi guarda storto correndo con lo sguardo su tutto il mio corpo, quasi con disgusto osserva le mie gambe autonome, come se non le piacessero.
«Anche tu sei bravo a giocare, peccato che ti sia comportato da scemo. Potevo batterti anche senza che mostrassi tutta quella pietà.»
«No, non è vero. Non provo pietà.»
Ma è chiaro che non mi crede. «Poteva diventare una partita appassionante e tu un avversario molto più che interessante.» I suoi occhi si intristiscono, come se avesse perso una immagine bella che si stava svolgendo nella sua testa. «Ma è andata così. In bocca al lupo per il campionato» mi augura e cammina verso l’uscita.
«Aspetta, dimmi qual è il tuo nome» ho pensato, ma non l’ho detto. Lei cammina un po’ claudicante e si avvicina al pullman che condivide con i compagni. Solo quando si piega in avanti per posizionare la sacca vedo la protesi: un pistone lungo agganciato alla scarpa. Mi sento sporco nell’osservarla in quel modo. Mi sento bruciato dentro. Si gira e questa volta tocca a lei fissarmi per un bel po’, ma poi se ne va insieme agli altri.
La carrozzina di Davide si ferma al mio fianco. «Sai una cosa?» mi confida e io mi sento tremare. Le sue confessioni mi fanno sempre male. «Quando ho conosciuto Lorenza lei mi guardava con la stessa espressione che hai tu adesso. Non so se fosse paura o disperazione per ciò che sono. Avrei voluto mandarla al diavolo ogni momento. Ma ora bacia me e la mia sedia e neanche se ne rende conto.» Poi spinge le ruote e se ne va dalla sua donna. Dalla Lorenza che lo guardava disperata. Anche io un po’ lo sono, ma respiro profondo e mi butto i capelli all’indietro. Incontreremo la Spoleto Sas nella partita di ritorno del campionato. Sorrido, mi toccherà marcare ancora il mio ventisei.   

FINE

L'AUTRICE
EMILIANA DE VICO (1973) vive in un paesino nell’entroterra abruzzese, insieme al marito e ai due figli. Laureata in scienze sociali, lavora presso i Servizi Sociali di zona. Appassionata di romance, approccia questo filone dall’adolescenza. Alcuni suoi racconti sono contenuti in antologie della Delos Books a cura di Franco Forte (365 Storie d’amoreSpeciale SFIl Magazzino dei Mondi 2).Vincitrice della terza edizione di “La vie en rose” 2012 con Indaco. Il racconto Rose sui tratturi è stato segnalato dalla giuria del Premio Romance 2013 indetto da Mondadori. Ha scritto diversi racconti per la collana Senza Sfumature di Delos Digital e per Sperling Privè e ha partecipato ad alcune rassegne su questo blog.

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33 commenti:

  1. Toccante...fino alla fine pensavo fossero due uomini, e invece ho imparato che il basket su sedia a rotelle può essere giocato da squadre miste. Fluente ed introspettivo.

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  2. Racconto molto bello, leggero e intenso come solo Emiliana De Vico sa fare. Mi piace molto la sua sensibilità che ancora una volta ha dimostrato la sua bravura e profondità d'animo. Mi piacerebbe leggere della partita di ritorno, ma forse lei ci ha già pensato a tradurla in un altro bel libro ... Complimenti come sempre all'autrice. I suoi personaggi sono sempre interessanti e ben delineati. Le sue storie appassionanti.

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    1. Per ora è solo un incipit, ma chissà...
      thanks, thanks, thanks.
      Emi

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  3. Fantastico racconto Emi, davvero fantastica come e più di sempre. Ne voglio ancora

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  4. Interessante come inizio vedremo che vuol farne l'autrice ma Davide resta sempre il mio preferito riesce a spiccare anche in una parte minuscola

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  5. È un incipit magnifico!!!
    La disabilità non deve essere un ostacolo, in tutte le cose e questo racconto da speranza ♡
    Sono felicissima di averlo letto e aspetto con ansia il proseguimento!!!
    Complimenti all'autrice ♡

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  6. Ecco! Questa mattina mi mancava solo la De Vico a "incasinarmi" la testa con un racconto che ti entra dentro e ti fa desiderare di leggerne ancora;-)
    Grazie :-)

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    1. Tutto risolto? Grazie, troppo gentile.

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  7. Molto emozionante. Io non ci avrei trovato niente di male neppure tra maschi, ma così è stato certamente più.. anomalo :)
    È toccante come emozioni quali attrazione e interesse possano essere fraintese o mescolate ad altre più frustranti.
    Mi metto in coda per leggere il seguito!

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  8. Che bell'inizio! Spero davvero che prima o poi ci sia tutta la storia.

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  9. Grazie a tutte. Intanto lo tengo in caldo mentre scrivo il terzo con Davide e Lorenza.
    Emi

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  10. Complimenti Emiliana, dalla prima storia con protagonista Davide hai scelto una strada non facile e coraggiosa per dimostrare che sentimenti e passione superano qualsiasi barriera, anche quella della disabilità. E ci sei riuscita benissimo. Brava!

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  11. Anche in un racconto sei stata capace di trasmettere emozioni senza suscitare pietà ma solo empatia. Rinnovo i miei complimenti aspettando di leggere il resto.. mica ci lasci così, vero?

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  12. Innanzitutto devo dire che fino ad un certo punto ho pensato si trattasse di un m/m. Comunque, nonostante lo sport romance non mi attiri più di tanto, questo racconto mi è piaciuto molto, e sono rimasta con la curiosità di sapere come continua. Perché continua, vero?! Ho letto, mi sembra sulla pagina Facebook del blog, che questo racconto potrebbe essere il prequel del prossimo romanzo di Emiliana De Vico. Ed effettivamente ha tutta l'aria di essere soltanto l'aperitivo molto stuzzicante di un bel banchetto. 😉

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  13. Ieri ho lasciato un commento a questo post, ma sembra sparito :( Vabbè, lo riscrivo...

    Letto e piaciuto! Come altre lettrici, anch'io all'inizio del racconto pensavo che si trattasse di un m/m ed è stata una sorpresa scoprire che il 26 è invece una donna. Mi piacciono molto questi "trucchetti" per sviare e stupire i lettori.
    Sono rimasta con la curiosità di scoprire cosa escogiterà Francesco per conquistare la sua bella, quindi spero proprio che sia previsto un seguito :)

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  14. Per favore continua! Mi incuriosisce da pazzi!

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  15. Ho conosciuto e apprezzato i racconti di Emiliana De Vico e il suo modo di scrivere e di esprimere le emozioni proprio qui sul blog.
    La sua capacità e la sua sensibilità nell'affrontare temi delicati sono innegabili.
    Amo molto Davide e Lorenza e sono stata felice di ritrovarli nel racconto di oggi, che ho trovato bellissimo, intenso e toccante. All'inizio pensavo che il ventisei fosse un ragazzo e che naturalmente Francesco, il protagonista, non avesse l'uso delle gambe. Il tentativo impacciato di lui di conoscere la ragazza della quale non ha potuto fare a meno di riempirsi gli occhi (bellissima immagine) mi ha fatto tenerezza,
    e ho trovato comprensibile il fatto che lei pensi di fargli pena.
    Spero davvero che questo racconto possa diventare qualcosa di più perché mi sono già affezionata ai protagonisti e vorrei una storia tutta per loro.

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  16. come le altre pensavo inizialmente che fosse un M/M,
    che come genere non amo per niente, per cui ho affrontato il racconto devo dire un po' prevenuta e diffidente.
    quando poi è emersa la coda lunga frustante ho tirato un sospiro di sollievo e il racconto mi è apparso in una nuova veste. molto carino, ironico e molto dolce.

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  17. Grazie a tutti per le belle parole. Vedremo cosa combinare con Ventisei. Intanto procedo con la stesura dell'ultimo capitolo di Davide e Lorenza e lì, Francesco è di vitale importanza.

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  18. Bello e sorprendente. Mi piacciono i colpi di scena.
    Ornella Albanese

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  19. Commento con un po' di ritardo, ma ci tengo a fare i miei complimenti a Emiliana per questa bellissima storia. Sei una grande!

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  20. Letto solo ora...Come sempre Emiliana, con il suo stile unico, ti cattura ed emoziona. Ora non ci tocca che attendere il seguito, perché qui ci vuole un seguito!
    Brava

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  21. Bello, ed il seguito???

    Nena

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  22. Leggere un racconto di Emiliana è sempre bello. Anch'io sarei contenta che ne nascesse un intero romance. Complimenti!

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  23. Complimenti Emiliana! Bellissimo racconto, come tutti i tuoi scritti del resto.. È ovvio che adesso mi aspetto un continuo! ;)

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  24. letto tutto d un fiato bel racconto veramente

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  25. wauuu.. che bella storia ma c'è un continuo... Sono curiosaaaa!!!
    Complimenti Vero

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