Christmas in Love 2013 : OGNI VIGILIA DEL MONDO di Patrizia Ferrando




L’eco della guerra andava spegnendosi.
A poco più di un anno dalla fine del conflitto, il fuoco scoppiettava allegro nel camino, libri intonsi attendevano sullo scrittoio, dalla cucina saliva un costante buon profumo di cacciagione, e dolci, e spezie; i ragazzi di casa erano tornati salvi e più adulti, e, se nelle città fervevano nuove idee e inquietudini, in campagna tutto sembrava tornato ai vecchi tempi, se non in qualche dettaglio stuzzicante della moda parigina che signore e signorine delle famiglie in vista non volevano lasciarsi sfuggire.
Alcune partitura di musica attendevano una prima prova al pianoforte, uno degli uomini di fatica canticchiava, in cortile, scaricando la legna, le lettere giacevano in un cofanetto di velluto cremisi; ed Elisa non era felice.
Proprio quelle lettere, decine di fogli ordinati e legati con delicatezza di nastri, un numero incalcolabile di parole, qualche decina di frasi affettuose, centinaia di periodi sulla nostalgia di casa e un ringraziamento finale, con una promessa troppo formale per non essere bugiarda , sembravano pesarle sul cuore, molto più dell’atteggiamento del parroco che spiegava come le zitelle svolgessero preziosa missione per la chiesa e le famiglie, o delle risate delle cugine che dileggiavano i suoi abiti sobri, e anche della rassegnata pragmaticità di sua madre, ormai convinta che quella figlia silenziosa non sapesse trovar marito.
Elisa non credeva, quando aveva accettato di fare da madrina di guerra a un ufficiale, per alleviarne le sofferenze e la solitudine al fronte, che quanto le prospettavano come semplice filantropia, operata da tante signorine e dame, fosse un gioco pericoloso.
Ogni parola delle lettere, ogni consonante o vocale, perfino le virgole, invece, ora gravavano come piombo: per un istante, immaginò che quei vocaboli si tramutassero in proiettili, in raffiche d’illusione, come per una magia maligna che rivoltava verso di lei le armi a cui tanto aveva pregato che il suo Rodolfo sfuggisse.
Alzandosi dalla poltrona presso il focolare, Elisa ripercorse col pensiero gli ultimi dodici mesi.
La gioia per  la fine delle carneficine, la felicità immane di riabbracciare il fratello e i cugini, la crescente speranza di ritrovarsi fra le mani una busta speciale. L’ultima lettera dal fronte trasudava esultanza e orgoglio per la vittoria: ora, però, senza più filtri, poteva da un momento all’altro giungere un’altra missiva. Era arrivata, ben diversa, però, da quella sognata. Nella consueta grafia elegante, Rodolfo aveva vergato parole di ringraziamento e di stima; e poi di scusa, se la durezza dei tempi lo aveva talvolta indotto a richiedere affetto alla sua lontana Elisa.
Con un tatto che non leniva in alcun modo il dolore, l’uomo che aveva sognato suo futuro sposo, le comunicava di prepararsi, al ritorno nella casa paterna, al matrimonio con una fanciulla da sempre cara alla sua famiglia. Allegato, un plico restituiva tante parole di devozione femminile, di timida civetteria, di palpitante partecipazione, e un ritratto in cui Elisa sfoggiava una camicetta guarnita di merletti e un’acconciatura morbida da cui sfuggivano boccoli, in luogo della solita treccia e dei vestiti severi.  Poi, dal vassoio della posta erano scomparse le “G” e le “E” svolazzanti d’inchiostro.
Elisa, richiuse le lettere nel cofanetto, nascosta la foto di Rodolfo in divisa sotto una pila più alta di fazzoletti, sul fondo della cassettiera, dato che la volontà espressa da lui era quella che venissero conservate “similmente a quanto si fa con fratelli e affezionati parenti”, aveva festeggiato il nuovo anno, e poi il giorno che la rendeva maggiorenne, e partecipato a matrimoni di amiche. Ricamava, curava il giardino, progettava con poca convinzione giorni a venire, tacendo con chiunque la tristezza e la delusione nascoste dall’apparente svagataggine. 
Ora le festività natalizie tornavano, e accettare l’invito a trascorrerle nella villa di sua cugina, o meglio del marito di lei, era apparsa una buona idea: a Elisa, che sperava in un pizzico di distrazione, alla sua famiglia, per quanto le probabilità di far scaturire uno straccio di fidanzamento da quel breve soggiorno si prospettassero quasi nulle, e alla stessa nuova padrona di casa, fiduciosa nell’appoggio della compagna di giochi infantili per affrontare la sconfinata tenuta e i due secoli di storia avita di cui era intrisa, da ogni stucco al minuscolo angolo di una tappezzeria.
Elisa si recò nell’androne, dove attendevano la valigia e il piccolo baule, ormai pronta a salutare tutti per recarsi alla stazione.
Il tragitto in treno durava poco più di due ore, e servì, nel promettente e noioso dondolio del vagone, a diluire la sensazione di aver lasciato troppe faccende in sospeso, ammesso che rivestissero una qualche importanza. Non ebbe utilità alcuna, tuttavia, per sbiadire un paio di righe, in una sola delle lettere di Rodolfo: la pagina in cui, in un momento di profonda nostalgia, ricordava giorni sereni trascorsi, da bambino, proprio nelle campagne dove Elisa stava approdando.
L’aria sferzante, sul marciapiede della stazioncina d’arrivo, spazzò via molte fantasticherie nebulose. Le cime delle montagne, non lontane, inalberavano cappucci di neve, ma i tetti del paese erano appena spruzzati di bianco. Il cielo era terso, teso come raso sottile nell’ora in cui, pur lontano dal tramonto, il sole scendeva dietro i declivi azzurrando la campagna.
Elisa affrettò il passo, seguita da un basso facchino, udendo i gai richiami di Emilia, sua cugina, che, al grido di “Diletta! Diletta!”, da sempre soprannome di Elisa, sventolava vistosamente la mano con la consueta vivacità e un insolito quanto inequivocabile abbigliamento da automobilista, soprabito di tela cerata e velo allacciato sotto il mento inclusi.
“Il paese non offre molto da vedere, torneremo domani o dopo, e ormai sta per imbrunire; con l’automobile arriveremo comunque alla villa in meno di dieci minuti”.
Emilia chiacchierava senza sosta, tenendo sottobraccio la cugina “Credimi” continuò “è una gran comodità, e anche un bel passatempo, se consideri che mio marito è quasi sempre in giro, impegnato a seguire la tenuta. A volte mi rammarico che non abbia parenti, eccetto sua zia-te la ricordi al matrimonio, no?- che però, poveretta, e dura d’orecchi e interessata solo alle novene!”.
Il tragitto fu ricco di sobbalzi, eppure Elisa ripeteva inconsapevolmente certi toni delle lettere di Rodolfo, l’ammirazione per il silenzio della campagna pacifica, per i possenti alberi simili a guardiani, per i tornanti sinuosi che raggiungono ville e casolari. In realtà, di quella zona, lui aveva citato davvero solo un albero, vicino alla casa di sua nonna, che in pieno inverno diveniva simile a un fine cesello o a un decoro di cristallo.
L’impegno nel rispondere in modo pertinente alla cugina non cancellava l’immagine della foto rimasta a casa; non un classico ritratto formato visita: piuttosto la raffigurazione di un uomo alto e sicuro, il cui profilo si stagliava contro il cielo nell’atto di scrutare l’orizzonte, quasi più un esploratore che un militare, nonostante la divisa. L’ombra di un sogno che evidentemente non era destinata a conoscere, neppure nei tratti del viso, pur essendosi illusa di averne percepito l’anima, pensò con tristezza.
La villa riluceva dell’entusiasmo natalizio di Emilia: grandi vasi d’argento traboccavano di agrifoglio, nel salotto troneggiava un albero ornato di palline di vetro iridescente, e non mancava una ricca ghirlanda di vischio.
Il marchese non spiccava per loquacità, senza comportarsi da scontroso; l’anziana parente trascorreva infiniti corsi di giaculatorie in una bassa poltrona, ben coperta da uno scialle scuro, le cene brillavano dell’eleganza dei candelieri, la prima colazione sapeva di latte fresco e pane appena sfornato, la fluviale conversazione di Emilia lasciava parentesi per partite a scacchi e a carte, sonate al pianoforte, visite d’auguri di notabili del luogo.
E in capo a poco meno di quarantotto ore, Elisa non ne poteva più.
Munita di abiti comodi, si accinse a una camminata, alla ricerca di solitudine e libertà. Raggiunse l’ingresso alla chetichella, ma non sfuggì alla vista dell’inarrestabile padrona di casa.
“Dove vuoi andare? Così conciata, poi! Sembri una zitella. Anzi, una zitella di prima della guerra!” Emilia non si accorse subito di aver ferito la cugina con le sue parole, troppo intenta a fissare gli stivaletti scialbi e il soprabito informe che indossava. Addolcì la voce per scusarsi, per insistere affinché Elisa non uscisse in un pomeriggio così poco promettente, senza scalfirne la determinazione.  
La ragazza, quindi, uscì e imboccò di buona lena una stradina che serpeggiava per il colle, decisa a scuotersi da dosso, con i fendenti freddi del vento pronti ad annunciare la neve, la sensazione di essere la nota sbagliata in una melodia di eterna vigilia: l’attesa per le dolcezze natalizie era la minor cosa, se confrontata con l’allegria di tutta la famiglia, apparentemente pronta ad accogliere nuove gioie, al clima entusiasta di chi parlava di progresso, perfino allo slancio con cui alcune amiche e sua cugina guardavano alla modernità e al cambiamento. Lei non rientrava mai in tali quadretti: come un elemento stonato, appunto. Non invidiava gli altri, nemmeno giudicava miserevole la sua esistenza, però avvertiva disagio, quasi nostalgia di tempi sconosciuti. Per la prima volta, concesse alla sua mente di far avanzare la domanda spesso soffocata: “Che ne sarà di me?”.
Desiderando che le lacrime negli occhi fossero solo conseguenza del vento, affrettò il passo, sollevò la gonna per accelerare, lasciò che il respiro divenisse affannoso. Intorno a lei, il paesaggio pomeridiano giaceva pallido, a tratti perlaceo: una distesa di campi a riposo, rare macchie arboree, bianche strade contro un cielo color ghiaccio. Una di queste, la più vicina, conduceva alla sommità di una lievissima altura, coronata da una chiesetta e da una grande casa squadrata.
Il tempo di osservare quell’edificio sobrio eppure misterioso, e piccoli fiocchi gelati iniziarono a volteggiare nell’aria, e a punteggiare di bianco la manica scura del cappotto di Elisa.
Lei valutò la strada da percorrere a ritroso, vagamente spaesata, come risvegliandosi da un sogno o da un
incubo: andò un paio di volte avanti e indietro in un breve spazio, compiendo pochi passi indecisi e inconcludenti: e inciampò. Il dolore alla caviglia la colpì acuto, anche se Elisa capì subito, grazie a una certa pratica in materia di camminate, che era solo una semplice storta. A preoccuparla, invece, spiccavano le condizioni dello stivaletto, deformato e col bassissimo tacco rotto.
Poteva camminare, lentamente, però, e con frequenti soste, di conseguenza non abbastanza in fretta da sfidare la nevicata incipiente e il prossimo tramonto.
Tra istinto e sconforto, decise di raggiungere la casa sul colle: poche decine di zoppicanti metri, e fu sullo slargo coperto di ghiaia e circondato da siepi di sempreverde già spolverate di neve.
La porta della cappella, semiaperta, lasciava filtrare una luce fioca di ceri. S’intravedeva un interno piuttosto polveroso e trascurato. Sull’altare, però, c’era una candida, elegante composizione di fiori bianchi, freschi, una pennellata primaverile in un quadro invernale.
Il portoncino, preceduto da tre scalini, era appena una decina di metri più avanti, ed Elisa impugnò con sollievo il battacchio. In breve sulla soglia comparve un domestico con una lanterna in mano, burbero e sorpreso “Cosa desidera la signorina?” la giovane esitò un momento “Ecco, sono uscita per una passeggiata e ho avuto un lievissimo infortunio che m’impedisce di camminare speditamente, la neve comincia a cadere e fra non molto sarà buio. Se i padroni di casa avessero la bontà  di lasciarmi avvisare i cugini presso i quali sono ospite, i Marchesi Tessari…”
Il cameriere scuoteva la testa, contrariato “Sapete che questa è la residenza del Conte di Roccastrena? Vedo cosa è possibile fare…”
Elisa sentiva le gambe cedere per lo sforzo e il freddo, però voleva mantenere un contegno “Mi spiace, sono solo in visita nella zona e non conosco nessuno, ho visto la casa e non avevo altro posto per cercare aiuto”. Il domestico annuì allontanandosi, e scomparve oltre una porta dai vetri a piombo. Dall’altro lato dell’atrio,si apriva una grande veranda, quasi una serra, assai più chiara del breve corridoio e dello stesso ingresso, rischiarato solo da una candela. Elisa pensò che i bei fiori bianchi dovessero venire da lì; ma le sue forze calavano, e appoggiò una mano allo schienale di una sedia, per sorreggersi.
Dalla stanza vicina, udì la voce del cameriere “Signor Conte, abbiamo un piccolo problema” seguita da un borbottio, e da spiegazioni in tono più basso, incomprensibili, dello stesso attempato personaggio che le aveva aperto il portone. La pressione dello stivaletto sulla caviglia diveniva di minuto in minuto sempre più insopportabile. 
Nella stanza entrò un uomo alto, con un abito di ottima fattura ma del tutto stazzonato. Aveva la barba incolta da almeno qualche giorno, le spalle larghe, forti, ma un poco incurvate. Parlò annoiato, squadrando Elisa in modo fiammeggiante, quasi avesse interrotto una faccenda importante “Buonasera signorina, sono il Conte di Roccastrena. Mi dispiace per il vostro incidente, tuttavia non posso offrirvi i servigi di una governante. Come immaginerete, non c’è telefono, non abbiamo neppure un impianto d’illuminazione, e non dispongo di mezzi di trasporto adeguati per accompagnarvi a destinazione;  l’unico aiuto che sono in grado di garantirvi è l’invio di un ragazzo ad avvertire i vostri parenti, mentre aspettate qui…” Una violenta imprecazione interruppe il discorsetto, e il conte esclamò: “Non avrete intenzione di svenire?” nel momento in cui sollevava fra le braccia la vacillante Elisa. Lei percepì con breve emozione la prestanza dei muscoli sotto le maniche, e un profumo di tabacco e tessuto, prima di ritrovarsi stesa su un divano e spogliata del cappello e dal cappotto bagnato. Non era svenuta, ma il padrone di casa le frizionava le mani, parlandole, più che come volesse rincuorarla, come il suo intento fosse rimproverarla “Non è una casa adatta alle donne, anche se apparteneva a mia nonna! Lei ci viveva saltuariamente, e quasi sempre in estate, però! Non capisco come si possano far passeggiate in un pomeriggio di dicembre, con una nevicata imminente. E quello stivale va tolto!” Elisa, in un moto di pudore e nervosismo, liberò da sé la caviglia dolente, coprendola alla meglio con la gonna e mormorando incerte scuse. Un istinto irrefrenabile la spinse, quasi senza il tempo di pensare prima di articolare le parole, a presentarsi, anziché con il suo vero nome, come “Diletta, cugina del Marchese Tessari”. Una indefinita inquietudine la pervadeva osservando il conte e il suo malcontento, e ascoltandone le parole educate e pronunciate con accento elegante, eppure cariche di fastidio, se non di sospetto.
All’uomo non venne in mente di chiedere ulteriori particolari: le porse un bicchierino di liquore incitandola a bere, diede rapide istruzioni perché i marchesi fossero informati, e sedette sulla poltrona all’opposta estremità dello studio.
“Vi domando scusa, ma non sono un buon conversatore” chiosò, e si mise a leggere con grande concentrazione, ignorandola, con l’aria di trincerarsi dietro la robusta rilegatura del volume.
Elisa, rincuorata dal pensiero che presto sarebbero giunti a prenderla, e con la calda dolcezza del liquore a incoraggiarla, guardò intorno a sé. La stanza le piaceva, nonostante l’ordine non proprio perfetto: i libri, le lampade a olio, i piccoli tavoli, le stampe botaniche e il folto tappeto la rendevano familiare e accogliente, non pareva un torvo rifugio maschile. Fuori, la neve scendeva ormai copiosa sui campi. Il tepore proveniente dal camino e la morbidezza dei cuscini fecero il resto. La ragazza si assopì, il volto reclinato su una mano.
Un istante dopo, due occhi bruni la fissavano, studiavano il disegno degli zigomi, i capelli biondo scuro sfuggiti alla treccia e arricciati sulla tempia. Con improvvisa delicatezza, il conte si alzò senza rumore, e coprì Elisa con un plaid. Restò in piedi a osservarla, a spiarne i segni di stanchezza, il respiro leggero, le palpebre sottili fino a lasciar immaginare i suoi sogni…ma lui, con i sogni e l’immaginazione, non intendeva più aver a che spartire.
Dall’esterno arrivava un parlottio concitato. La giovane addormentata si mosse un poco, e l’ombroso osservatore guadagnò di nuovo la propria sistemazione in poltrona.
Le voci salirono ancora, svegliando Elisa che, spalancò gli occhi perplessa, strappata a un sonno breve ma profondo fino a non sapere per una impercettibile parentesi dove si trovasse, e che, vedendo l’etereo ricamo oltre la vetrata, esclamò: “L’albero di cristallo!”. Ben altre considerazioni, un attimo dopo, richiamarono la sua attenzione. Il conte imprecava, prendendo a calci uno sgabello: “Al diavolo! Ho a che fare con una manica d’incapaci. Un garzone tanto sciocco non si è mai visto, neppure è partito, e sta nevicando! Vi riporterò a casa io, spero che sappiate cavalcare e non inorridiate per una soluzione poco consona a una signora. La vostra caviglia non pare in pessime condizioni, comunque reputo più opportuno tenervi davanti a me”. Un flebile gesto di Elisa finì troncato all’istante “Niente obiezioni. Attendetemi, ci vorrà pochissimo”. Ricomparve con un largo e antiquato tabarro, porse ad Elisa una sciarpa ruvida e calda e l’aiutò a indossarla, insieme al paltò asciugatosi davanti al camino. Solo mentre insisteva per sollevare di nuovo fra le braccia la sua ospite inattesa, un’incrinatura di dubbio venò la sua pratica sicurezza. “Avete detto che l’albero sembra cristallo?”. Non attese risposta, prendendo senza più indugi Elisa in braccio, e arrivando in poche falcate a issarla sul cavallo che il garzone esitante aveva preparato. Il conte montò in sella a sua volta, e avvolse la ragazza nel suo stesso tabarro, con un gesto di strana intimità che, come per magia, dissipò la diffidenza di Elisa e sciolse il glaciale eloquio dell’uomo. Le parole si fecero più carezzevoli, mentre diceva quanto fosse importante che non prendesse freddo, che il tragitto era breve,che, per quanto disagevole, per lui cavalcare sotto la neve era una abitudine. Ma qualsiasi frase evaporava in quel contatto intimo, che trasmetteva alle spalle della giovane il calore intenso e sicuro della pelle di lui, e tramutava in vicino respiro ogni sillaba.
Dieci minuti dopo, pur procedendo con cautela, intravidero fra i sottili turbini di fiocchi la mole di Villa Tessari. E il conte palesò una curiosità: “Avete detto che siete la cugina di Tessari? Non mi pare di ricordarvi, forse eravate solo una bambina. Frequentavo abbastanza spesso la villa prima…voglio dire, da ragazzo…” “In realtà sono una cugina acquisita, per via della moglie”. Per la prima volta Elisa vide scintillare il sorriso virile che mancava al viso affascinante, in un’osservazione divertita “Capisco, la sposa inarrestabile che terrorizza manenti, polli e capre scorazzando per le colline in automobile. Non me ne vogliate, ma voi sembrate altrettanto graziosa ma più tranquilla, signorina Diletta…”  .
Ormai erano arrivati. Elisa insistette per camminare, sorreggendosi solo al braccio del suo accompagnatore. Ad accoglierli, insieme al confortante chiarore dell’ingresso, fu un profluvio di domande ed esclamazioni. Il conte sembrava sollecito quanto frettoloso, nel raccomandare che la signorina raggiungesse al più presto una stanza ben riscaldata e si riguardasse, tanto da affrettare saluti e ringraziamenti, aggiungendo che lui voleva trattenersi solo il breve tempo necessario per riabbracciare il suo vecchio amico.
La giovane “tratta in salvo” ( così definita da Emilia, alla quale non difettava neppure il gusto del drammatico), accompagnata dalla cugina, ormai congedatasi e diretta alla sua camera, non vide il lampo straniato negli occhi del conte, quando il sopraggiunto marchese l’apostrofò: “Elisa! Eravamo in pena, per fortuna hai fatto il migliore degli incontri!”.
Nella biblioteca, gli uomini dovevano aver ormai consumato brandy e sigari, e forse il marchese ordinava la cena da consumare nel loro antro, dopo essersi impegnato per convincere l’eroe del momento a trascorrere la notte alla villa, quando Elisa, avvolta nella veste da camera e in soffici coltri, con una tazza di tè fumante fra le mani, non ebbe più modo di eludere la golosità per il pettegolezzo della giovane marchesa. “Vorrei proprio capire come hai combinato! Arrivi, ti mostri, francamente, un tantino scontrosa, esci per una spedizione imprudente e ritorni fra le braccia di un uomo? E che uomo! Il misterioso conte di Roccasprena!” Elisa sembrava divertita, ma il sorriso le morì sulle labbra e le mani presero a tremarle convulsamente “Ti rendi conto che hai tratto fuori dal suo nascondiglio di tenebre Rodolfo Morelli di Roccasprena, sparito da più di un anno? Poveretto, la moglie è morta di spagnola pochi mesi dopo le nozze…lui però è rimasto proprio sconvolto, ha lasciato il palazzo di città per seppellirsi in quella vecchia stamberga!”. La tazza cadde a terra, rompendosi in decine di pezzi eburnei. Emilia assunse un’aria preoccupata: “Mia cara, ora chiamo per pulire…stai bene? Non avrai la febbre? Vuoi che cerchiamo un dottore?”, e per Elisa fu l’opportunità di rimanere sola col tumulto dei suoi pensieri. “Sto benissimo, non mi duole nemmeno più la caviglia…però sono stanca, vorrei riposare”. Socchiuse gli occhi, appoggiata ai guanciali, così che Emilia lasciò la stanza.
Come dare una forma, un senso al batticuore, alle lacrime trattenute, al turbine che le squassava il petto? Rodolfo. La strana attrazione. La moglie morta. La delusione, le lettere, i sogni accarezzati e appassiti. I fiori bianchi nella cappella. Il ritiro dal mondo, i modi bruschi, le parole intenerite. L’orologio sul secretaire continuava a girare, senza che Elisa riuscisse a calmarsi. Dopo le undici, decise che un goccio d’alcool l’avrebbe aiutata: le circostanze erano incredibili abbastanza da giustificare una nuova abitudine per lei che non beveva che cinque o sei volte l’anno.
La casa era silenziosa, le scale illuminate da una sola lampada: non sarebbe comunque stato difficile arrivare al salotto rosso, proprio in fondo alla rampa, dove c’era  un tavolo di servizio con cognac e bicchieri.  Era già al secondo sorso, nella penombra, appoggiata allo stipite, quando una voce salì dal divano: “Elisa o Diletta?”. L’ombra di Rodolfo tagliava ora, in piedi, il raggio di luce. La ragazza taceva: lui era ormai vicinissimo, e le sollevò il mento. “Elisa. Elisa! Lo volevi, vero, un mio bacio? Aspettavi le mie lettere? Avresti pianto la mia morte, pura, dolce madrina?”.
Ora sul viso aveva un ghigno, sgradevole quanto il fiato ubriaco. “Invece sono vivo, capisci? Nessuno mi ha sparato in pieno, non sono finito in un crepaccio, non mi ha colpito nemmeno un pallino…e neanche mi sono ammalato”. Premette la bocca, dura e bollente, con violenza sulle labbra di lei, provando a forzarla, cercandole i fianchi fra i drappeggi della vestaglia semiaperta, fino a stringerla a contatto con la propria eccitazione incontrollata e crescente.
Il divincolarsi delle membra delicate e volitive riscosse un poco l’uomo, solo per innescare un discorso affannato: “Deve esistere una ragione per cui ci siamo ritrovati, incontrati in questo modo. Mia moglie non c’è più, Elisa. Voglio che tu sia mia, ti voglio nella mia vita”.
Elisa arretrò bruscamente, afferrando il cordone del campanello, pronta a suonarlo.
“Perdonami. Non dovevo spaventarti. Ti prego, accettami. Non dirmi che i sentimenti delle tue lettere erano falsi, non poteva trattarsi di un abbaglio!” ruggì lui.
“Non è questo. Non posso sostituire nessuno, e cagionerei infelicità per entrambi se assecondassi il vostro desiderio di mettere la prima venuta al posto di vostra moglie, per illudervi che sia ancora viva”. Elisa stringeva forte i lembi della camicia da notte, per nascondere il tremito delle mani, mentre a stento tratteneva l’insicurezza delle labbra. Fuggì senza voltarsi: Rodolfo accennò a inseguirla, ma, incespicando nel tappeto, rinunciò in un sospiro carico di rabbia verso se stesso.

“Troppo freddo. Decisamente troppo freddo per nevicare” sentenziò la mattina dopo il Marchese Tessari, scostando un tendaggio di pizzo. Il manto sceso sul giardino era sottile e ghiacciato, dalle nubi cadeva solo una luce scialba, e ogni arbusto immobile sembrava intirizzito.
Elisa sedeva con le mani in grembo, augurandosi che il mutismo bastasse a renderla invisibile. Aveva troncato ogni commento sul pallore e l’aria provata con il pretesto di una notte insonne a causa della caviglia un poco dolorante e delle emozioni del giorno prima. Naturalmente non intendeva spiegare quali davvero fossero, tali emozioni. Annuiva mansueta, limitava i gesti, sorrideva piuttosto inespressiva al rallegrarsi della cugina, la quale affermava come il tempo non avrebbe impedito loro di recarsi alla Messa di Mezzanotte. Già, era la vigilia di Natale, Elisa vagheggiava una fuga e invece era obbligata a fermarsi almeno altri otto giorni, e la voce flautata di Emilia riempiva il salotto “Ogni vigilia del mondo dovrebbe somigliare alla nostra, con il calore della casa, l’amicizia, la bellezza dei luoghi cari e… l’amore!”. I marchesi si abbracciarono senza eccedere in discrezione, ed Elisa abbassò lo sguardo. 
La giornata scivolò via fra il pasto di magro, i traffici indaffarati dei domestici, l’annuncio di Emilia che, come sorpresa, pensava all’uso della vecchia slitta a cavalli, acquistata dal padre di suo marito a Vienna, per recarsi in chiesa, la predisposizione di abiti per la sera. Elisa trovò confortante il notare che i fiori portati su caminetti e console erano rossi e crema, non bianchi.
Pur tentata di addurre la scusa di un malessere per non partecipare alla funzione serale, decise di prepararsi con cura. Calò sul viso la veletta grigio perla, e sistemò sulla giacca del completo il vaporoso collo di volpe argentata. La campagna, ora, era meno silenziosa, invasa dall’eco delle campane e da rumori di mezzi e voci di quanti confluivano al villaggio per la celebrazione.
Ormai davanti al portone, Elisa stava indossando i guanti. Udì con sorpresa un netto suono di zoccoli, ma lo attribuì ai cavalli destinati a condurre la carrozza a slitta.
Invece, il battente fu spalancato dal marchese, che le annunciò come il Conte di Roccasprena desiderasse parlarle un momento soltanto e aggiunse che l’avrebbero attesa fuori, sotto il portico.
Rodolfo entrò, con un enfasi calda in pieno contrasta col soffio d’aria gelida che lo seguiva.
“Sono diretto in chiesa” disse “anche se non pensavo di andarci. Sono qui per scusarmi…” Elisa arretrò, distogliendo gli occhi.
“Ti prego di ascoltarmi. La mia condotta è stata scandalosa, ma c’è qualcosa che devi sapere”. La ragazza continuava a tacere, e si appoggiava, come esausta, a un mobile. Rodolfo s’incuneò con foga nella lieve esitazione. “Volevo chiederti di sposarmi, ero deciso. Dovevi ricevere una proposta di nozze, l’auspicio che
volessi incontrarmi e accettarmi come marito. Invece ti ho restituito le lettere”. Elisa emise un piccolo gemito stupito. “Non amavo mia moglie: ho seguito la volontà di mio padre, fissata da prima della guerra. Quando lei è morta, mi sono sentito terribilmente in colpa, per non averle concesso una possibilità, per non essere stato in grado di perdonarla…perché era un’altra donna, perché non era te.” “I fiori bianchi…” mormorò Elisa “Prima di spirare, Anita delirava. Parlava di candide corolle, e io pensavo ai prati di cui mi avevi scritto in primavera. Volevo offrirli sull’altare per lenire il dolore di essere stato crudele…di aver fatto soffrire lei…e te. Adesso è finita. Tu sei qui, e le mie preghiere sono state esaudite, posso implorare il tuo perdono, per tutto”.
Rodolfo non riusciva a vedere il volto di Elisa, celato dall’imbra e dalla veletta. Solo quando si avvicinò, colse la luce del suo sorriso “Non parliamo di perdono.” “Elisa…”. Il bacio, dapprima tenue e dolcissimo, divenne un solo incantato fondersi, più travolgente di un magico giro di valzer.
La mano di lui tornò a posarsi sulla guancia della ragazza, e stavolta era forte in modo rassicurante, piena di promesse almeno quanto lo sguardo chiaro in cui Rodolfo credeva di affogare felicemente.

Non c’erano più né l’ufficiale e la madrina di guerra, né il conte e una strana fanciulla: solo una coppia innamorata, che uscì nell’aria limpida e gioiosa della vigilia.

FINE

CHI E' L'AUTRICE
Patrizia Ferrando è nata a Genova e vive in provincia di Alessandria. Giornalista pubblicista, si occupa anche di organizzazione di eventi. Scrive racconti e brevi monologhi, non necessariamente romance, ma spesso incentrati su figure femminili. Ha vinto svariati premi letterari e in due diverse edizioni ha fatto parte della rosa dei finalisti del premio Arturo Loria di Carpi. Tra le sue passioni,oltre a quella dominante ed onnivora per la lettura, ci sono l'antiquariato, i gatti, la storia del costume e il cinema. Conduce presentazioni letterarie ed incontri con gli autori. Ama l'autunno, le porcellane inglesi, le sfumature e i vecchi diari. Patrizia ha partecipato con suoi racconti a diverse rassegne di racconti su questo blog. Nel estate 2013 ha pubblicato il libro Sui passi dell'estate perduta ( vedi qui ), a cui è seguito Il viale degli angeli caduti.

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8 commenti:

  1. Scritto con stile raffinato ed elegante, questo racconto mi ha emozionata molto. Bella anche l'ambientazione, in un periodo non troppo sfruttato nei romance e per questo originale.

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  2. complimenti Patrizia molto romantico

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  3. Molto bello, descrizioni che rendono l'atmosfera davvero romantica! Poi, il periodo della guerra è uno dei miei preferiti... Complimenti, la tua scrittura riesce sempre ad emozionare! Viviana

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  4. Vi ringrazio e sono felice se sono riuscita a trasmettere l'emozione a cui pensavo...Mi piace leggere romance storici sia tradizionali sia con ambientazione in periodi o luoghi poco "frequentati" dal genere, e, nel mio piccolo, provo anche a scrivere qualche storia con tali presupposti :)
    Patrizia

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  5. Lo stile raffinato ben si accompagna all'ambientazione originale, la melanconia che pervade la fanciulla crea la giusta empatia per apprezzare il lieto fine romantico e la brevità del racconto (:-P). Brava!

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  6. Un bel racconto, soprattutto per la prosa elegante ed evocativa, però mi sarebbe piaciuto dare una sbirciatina alle lettere dei due innamorati ^_^

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  7. Un gran bel racconto, uno stile ricercato, d'altri tempi, che ti conduce per mano all'interno della storia. Complimenti Patrizia
    Francy M.

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  8. Molto carino, romantico e dolce, anzi sognante. Forse fin troppo, nel senso che nn si capisce bene di quale dopoguerra si tratti, immagino il primo, dal momento che la seconda guerra l'abbiamo persa; inoltre la descrizione della ripresa della vita normale dopo il conflitto mi pare forse un po' troppo ottimistica, nn penso che dopo solo un anno le cose andassero già così bene, cmq è un racconto molto appagante.

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