Summer in Love 2017: "COACH DEL MIO CUORE" di Maria Cristina Robb - 1^ PARTE




“Che paradiso!” Allargai le braccia in una mezza giravolta.
Quel posto era assolutamente magnifico. Il tipico albergo con il tetto a falde ripide e i terrazzini in legno, grondanti di fiori multicolori, gli aspri picchi montani alle spalle, ancora chiazzati di neve, e il bosco intorno, brillante di tutte le tonalità del verde, con i suoi profumi e il tappeto sonoro degli abitanti.
Chiusi gli occhi e respirai a pieni polmoni l’aria frizzante. Avevo fatto la scelta giusta. Mollare tutto per andare in quel paesino dell’Alta Savoia a “schiarirmi la testa”, parole del mio agente, era stata la prima decisione sensata da un mese a quella parte.
 “Signorina, mi deve pagare la corsa.” La voce nasale del taxista mi risvegliò dalla mia trance idilliaca.
“Certo, certo.” Frugai nella borsetta alla ricerca del portafogli.
Il conducente aprì il baule della macchina e tirò fuori le mie valigie. “Ecco a lei, mademoiselle.”
Gli passai il denaro concordato all’aeroporto. “Merci, monsieur” risposi con, in pratica, tutto il francese che conoscevo.
Tra i folti baffoni grigi comparve un accenno di denti giallognoli “Pas de quoi.” L’uomo si toccò il cappello con due dita. “Buone vacanze.”
“Grazie.” feci un piccolo inchino.
Sganciai il manico del mio trolley, afferrai il beauty e mi incamminai lungo il lastricato verso l’ingresso dell’albergo.
Che cos’era quello?
Respirai a pieni polmoni. Pane fresco! Oddio, che voglia di pane fresco. Quando mai, nella mia frenetica vita a Londra, potevo mangiare del pane fresco?
Che fortuna aver trovato quel posto.
Feci il mio ingresso nell’atrio silenzioso con i suoi bei mobili in stile rustico e le pareti rivestite di listoni di legno.
La ragazza alla reception sollevò lo sguardo e mi accolse con un sorriso. “Bonjour, madame.”
Oddio! Se non parlavano la mia lingua? Il pensiero non mi aveva neanche sfiorata nella mia tipica arroganza britannica.
Arrivata al bancone, vi appoggiai il foglio della prenotazione. “Parla inglese?” chiesi subito.
“Certamente signora.” rispose con un perfetto accento oxfordiano un po’ arrotondato.
Sorrisi sollevata, che disastro sarebbe stato. “Salve, sono Margaret Burton. Ho riservato una stanza per una settimana.”
La ragazza bionda controllò nella schermata del computer. “Eccola qua.” rispose. “Mi vuole dare i suoi documenti?”
Presi il passaporto e la carta di credito e glieli allungai. È un posto davvero magnifico. C’è una pace, una tranquillità.”
La ragazza sollevò su di me gli occhi un po’ sgranati ma non ci feci troppo caso e continuai a blaterare. “Vengo da un periodo difficile. Avevo proprio bisogno di un luogo come questo: silenzio, paesaggio fantastico, alberi sotto cui leggere. Un posto dove staccare completamente la spina.”
Il sorrisino di circostanza fu un po’ stirato.
Forse stavo esagerando ma ero davvero così contenta di essere lì. Quella vacanza poteva essere la mia cura, doveva essere la mia cura: qui avrei ritrovato la mia ispirazione, la mia benedetta musa.
Avevo sempre voluto diventare una scrittrice, raccontare storie per far sognare le donne di tutto il mondo. Ma la dura realtà era che nessuno voleva leggerle le mie storie e avevo passato anni a inviare racconti e romanzi senza ricevere neanche un “crepa” in risposta.
Poi il miracolo: la trama adatta, i protagonisti giusti, un editore che aveva creduto in me. Così ero diventata una scrittrice best seller.
I miei romanzi erotici avevano venduto migliaia di copie. Non come la James, anche se, segretamente, pensavo di scrivere meglio, ma la mia serie “Bodyguard”, basata su un’agenzia di guardie del corpo molto “speciali”, aveva avuto un grande successo.
Adesso mi trovavo a un punto morto. Dopo averne pubblicati quattro, dovevo scrivere il romanzo più importante, quello che tutti aspettavano, quello che tutti chiedevano: Quentin, il mitico capo/fondatore/mentore del gruppo.
Un personaggio travagliato, difficile, con una personalità elusiva e dominatrice e un passato di cui non parlava mai. Le mie lettrici chiedevano a gran voce il suo HEA e il mio editore aveva deciso fosse arrivato il momento.
Peccato che la mia mente fosse una tabula rasa. La storia di Quentin mi sfuggiva, come la sua personalità: neanche un’idea intelligente, neanche una scena erotica, neanche una co-protagonista adatta.
Ero molto preoccupata, il mio agente era molto preoccupato. Avevamo già firmato il contratto per i diritti ma io non riuscivo a scrivere una sola, singola parola.
Ecco perché Les Carroz d'Arâches in Alta Savoia ed ecco perché quella pace mi sarebbe servita come l’ossigeno.
“Bene, signorina Burton.” La ragazza mi passò una tessera magnetica. “Camera 123, primo piano, corridoio a sinistra. La luce si accende quando la inserisce nell’alloggiamento di fianco alla porta.”
Raccolsi tutte le mie carte e la card. “Grazie mille.” sorrisi.
Abbassai le dita sul manico del trolley ma rimasi folgorata sul posto.
Un caos di voci maschili, grida, fischi e battimani mi ancorò al pavimento in legno. La ragazza spalancò gli occhi, poi mi guardò e mi riservò un sorriso rassicurante, un finto sorriso rassicurante, che sortì l’effetto opposto.
Con un senso di malessere, mi girai verso la porta d’ingresso. Un’orda di ragazzoni in abbigliamento sportivo superò la vetrata. Erano tanti, erano giovani, erano grossi ed erano... rumorosi!
Li guardai avanzare a bocca aperta, inorridita davanti alla prospettiva: le scarpe da ginnastica cigolanti, le voci profonde da uomini ma con l’energia dei giovanissimi e la tipica voglia di farsi sentire e farsi vedere.
I ragazzi si avvicinarono al bancone, riservarono vari cenni di saluto alla ragazza, adesso con un sorrisetto ebete incollato alla faccia, e proseguirono verso le scale.
Alla fine del branco comparve un uomo imponente, capelli brizzolati sulle tempie, un accenno di barba non fatta su una mascella squadrata, zigomi alti e una bocca larga dal labbro superiore arrotondato in modo molto sexy. I penetranti occhi azzurri, un po’ infossati dietro le sopracciglia folte, vagarono su di noi con un’espressione benevolmente neutra ma, un attimo dopo, si puntarono severi su di me.
Cosa stava succedendo?
Era appena passata l’orda dei barbari e il loro comandante mi guardava anche male?
“Bonjour, Marie.” salutò rigido e continuò a passo di marcia.
“Bonjour, monsieur Dumont.” rispose piano la ragazza.
Seguii l’avanzare dell’uomo con un certo interesse, soprattutto su per le scale, con le lunghe gambe poderose e il didietro ben allenato.
Finito lo spettacolo mi girai verso Marie. “Chi… sono questi?”
Lei abbassò lo sguardo, conscia di essere in fallo, la pace della mia vacanza calpestata da un branco di giovani tori guidati da un arcigno, se pur molto piacente, mandriano brizzolato.
“Squadra di rugby under 21 del Faucigny Mont Blanc di Cluses.” disse piano.
“E rimangono qui?” Domanda retorica ma chissà, forse partivano quel pomeriggio.
“Sì, ma non deve preoccuparsi.” Cercò di rimediare. “Sono molto bravi. Si allenano tanto. Sono sempre in giro per i boschi e la notte sono troppo stanchi, non fanno rumore.”
Mi aveva preso per stupida? “Ma li ha guardati?” Ero certa lo avesse fatto, l’espressione mezza sognante con cui li aveva seguiti era un chiaro segno. “Con tutto quel testosterone si potrebbero far crescere i baffi all’intera popolazione femminile dell’Inghilterra.”
Lei si strinse nelle spalle ed io la fissai con una certa voglia di spargere del sangue.
Dovevo andarmene? Girare il sedere e perdere la caparra? Cosa ne avrei ricavato? Quella vacanza mi serviva come l’aria, senza contare il mio agente: mi avrebbe stracciato il contratto in faccia.
Sollevai le spalle, non avevo molta scelta. Forse la receptionist non era stata troppo ottimista...
“Va bene.” Presi le mie valigie e mi diressi alla colonna dell’ascensore, seguita da un rumoroso sospiro della ragazza.


Non era possibile!
Guardai di nuovo la sveglia: le due! Quei maledetti rugbisti, traboccanti di ormoni e birra, stavano facendo un baccano del diavolo. Erano ore che fissavo le travi del soffitto!
Avevo trascorso il pomeriggio a sistemare le mie cose, riposarmi e a fare una piccola passeggiata di acclimatazione. Alle sette, ora di cena, mi ero presentata nella sala da pranzo dell’hotel e mi era stato assegnato un piccolo tavolo appartato. Un piatto fumante era arrivato subito dopo.
Che pace.
Il calore del consommè, le chiacchiere sommesse degli altri clienti, il lieve profumo di sapone di Marsiglia della biancheria. Cinque minuti di assoluto benessere. Solo cinque minuti.
Poi il gruppo di marcantoni aveva invaso il salone, urlato e fischiato alle cameriere, strisciato e sbattuto una decina di sedie e si era accomodato attorno a un lungo tavolo facendo di tutto per farmi rimpiangere la mia partenza da Gatwick.
Grida, dialoghi a voce alta, scherzi, pugni, stridore di seggiole, tutto ciò che una ventina di giovani esuberanti poteva  fare.
E come se non bastasse, il loro guardiano, l’atletico, brizzolato, muscoloso, mascella volitiva monsieur Dumont, mi aveva lanciato delle occhiate feroci senza motivo.
Avevo mangiato il più in fretta possibile, scottandomi lingua e palato, e mi ero precipitata fuori dall’hotel, nella speranza di trovare un po’ di consolazione nell’aria fresca della sera e nei suoni sommessi del bosco.
Mi ero seduta su una panchina lungo il sentiero ed ero rimasta a compiangermi per una buona mezz’ora.
Potevo essere più sfortunata? Due ore di aereo, un taxi costosissimo fino nel cuore delle Alpi francesi per trovare pace e mi ritrovavo nel mezzo del ritiro di una squadra sportiva giovanile? Qualcuno doveva avercela con me.
Era stato un mese schifoso.
Finita la sfacchinata promozionale per i miei romanzi, ogni giorno una città differente, orari diversi, la folla delle fan e tutto quello che ne conseguiva, tutto quello che avrei voluto era dormire una settimana e godermi un po’ di pausa. Invece, al mio rientro a Londra, Norman, il mio fidanzato, se n’era andato.
Stavamo passando un momento difficile, continue discussioni, critiche immeritate, pretese e ricatti, ma avevo sperato di sistemare tutto al mio ritorno, quando avrei avuto il tempo di ragionare.
Norman non era stato dello stesso parere. Lo avevo trovato con la valigia chiusa, la giacca su un braccio e un “non mi ami abbastanza” pronto da sbattermi in faccia, insieme alla porta di casa.
Norman era stato un sogno diventato realtà. Incontrato in un gruppo di scrittori su Facebook, era tutto ciò che avevo sempre desiderato: poetico, romantico, stesso interesse per la scrittura e la lettura. Sarei rimasta ad ascoltarlo per ore con il suo parlare colto, i suoi termini forbiti le sue bellissime citazioni. Scriveva poesie e racconti ermetici e aveva un lungo romanzo nel cassetto su una saga familiare, la sua, che iniziava nella Polonia di fine Ottocento.
Aveva quell’aria da intellettuale sognatore, gli spessi occhiali da miope, il fisico asciutto leggermente curvo, una voluta trascuratezza nel vestire e nella cura personale. Non era un adone, ma non m’importava. La sua anima riluceva negli occhi scuri pieni di tormento e a me bastava.
Soffriva molto per il ritardo nella pubblicazione del suo romanzo. Anche lui aveva contattato decine e decine di editori ma nessuno aveva mostrato interesse.
Quando avevo pubblicato il primo libro della mia serie, Daniel, era stato il mio maggior sostenitore. Pubblicità, raid sui social, creazione del sito, Twitter, Pinterest e tutto ciò che ci girava intorno. Con il secondo, Marcus, l’entusiasmo era già diminuito. Aveva cominciato a trovare difetti nel mio stile, nelle mie storie, a rendermi insicura su tutto.
Al terzo romanzo, Rodriguez, aveva cominciato a essere più aspro. Mi rimproverava per come mi vestivo, come mi truccavo. Mi aveva persino accusata di prendere ispirazione altrove per i romanzi. Come se non mi vedesse perennemente seduta al computer.
Micha, il quarto, gli aveva fatto dire che amavo più i miei libri di lui e se n’era andato.
La separazione mi aveva devastata. Avevo creduto in lui, in noi. Avevo cercato di sostenerlo, di incoraggiarlo, avevo persino fatto leggere il suo romanzo al mio agente, ma non era stato sufficiente.
Come se non fosse bastato, alla rottura si era aggiunta l’incalzante pressione del mio agente e dell’editore per leggere le prime pagine del mio Quentin. Il boss, invece, come lo chiamavano gli u omini della sua squadra di guardie del corpo, aveva deciso di tacere, di abbandonarmi e di sparire dalla circolazione.
L’allenatore della squadra di rugby un po’ me lo ricordava: l’aria decisa, severa, lo sguardo penetrante, il fisico da modello di Men’s Health. Mancava solo la cicatrice sul lato della mascella e la fossetta, molto sexy, sul mento.
Dovevo ritrovare l’ispirazione e quella vacanza era la mia ultima speranza.
Dopo essermi pianta un po’ addosso, avevo fatto una passeggiata nell’area attorno all’albergo e mi ero ritirata in camera a leggere.
La rumba era cominciata poco dopo e tuttora, alle due di notte, non si era ancora fermata.
Un forte colpo contro il muro divisorio mi fece sussultare, seguito da una sguaiata risata generale.
La rabbia e la frustrazione esplosero.
Adesso basta! Dovevo fare qualcosa. Va bene essere giovani e pieni di vita ma anch’io avevo qualche diritto.
Scalciai via le coperte e scesi dal letto fumante dell’ira dei giusti. Infilai le mie pantofole con un po’ di tacco e il ciuffetto di piume sopra e mi diressi all’uscita. Sfilai la tessera dall’alloggiamento nel muro e pestai i piedi fino alla stanza centoventicinque.
Bussai una prima volta senza ottenere risposta, poi una seconda, una terza e alla fine battei a palmi aperti con tutte e due le mani per farmi sentire.
Un ragazzo molto alto e molto grosso, con una zazzera di capelli neri tutti spettinati, spalancò la porta, mi scannerizzò da cima a fondo e poi fece affiorare un lento sorriso malizioso.
A me! Un sorriso malizioso!
“Bonsoir madame.” Il ragazzo si appoggiò allo stipite. “Voulez-vous quelque chose?” Il tono basso e pieno di sottintesi riuscì a farmi arrabbiare ancora di più.
“Sono le due di notte!” dissi a denti stretti per evitare di svegliare l’albergo con i miei urli. “Vorrei dormire.”
Lui aggrottò le sopracciglia poi girò la testa all’indietro. “Benoit!” gridò. “Viens ici. Il y a une demoiselle que parle anglais. ”
Un altro marcantonio, questa volta biondo con due folte basette lunghe fino all’angolo della mandibola comparve sull’uscio. Altra scannerizzazione, altro sorrisino.
“Buona sera signorina.” disse in un inglese con forte accento. “Ha bisogno di qualcosa?”
“Sono le due di notte!” Questa volta il tono basso andò a farsi friggere. “Voglio dormire!”
Qu'at-elle dit? chiese il primo ragazzo.
“Elle veut coucher.” rispose il secondo.
Mi soppesarono entrambi con lo sguardo. Qualcosa non andava, me lo sentivo. Se solo avessi studiato il francese a scuola invece che quello stupido spagnolo.
Il cigolio di una porta fece sollevare lo sguardo ai due ragazzi che si diedero una gomitata, drizzarono la schiena e la loro espressione divenne di totale innocenza.
“Qu’est-ce qui passe ici?” Un’imperiosa voce baritonale mi fece sobbalzare.
Mi girai di scatto e mi trovai davanti al severo e prestante allenatore, con una t-shirt bianca mooolto aderente, sui pettorali mooolto ben sviluppati e un paio di pantaloncini che lasciavano scoperte le gambe robuste e muscolose, coperte da una leggera peluria castana su cui il mio occhio indugiò qualche secondo. Se non fossi stata così furiosa, avrei potuto trovarlo…moolto interessante.
Gli occhi stretti a fessura fecero una veloce ricognizione del mio corpo e poi si fissarono sui ragazzi. L’ultimo arrivato cominciò a parlare un velocissimo francese e io rimasi a fissare il bel signor Dumont cambiare espressione da mediamente infastidita a decisamente incavolata.
Abbaiò qualcosa in francese, dal tono doveva per forza essere un ordine, i ragazzi rientrarono in camera e chiusero la porta.
Subito dopo il prestante allenatore puntò i suoi laser azzurri su di me, le folte sopracciglia aggrottate in modo molto inquietante.
“Cosa crede di fare?” mi disse in un inglese scivolato, dalle vocali strette e dalle bellissime erre arrotate che mi provocarono una strana reazione.
Mi persi un attimo in quello sguardo così simile al cielo sopra quelle montagne. Avrebbero potuto volarci un po’ delle ali che mi frullavano nello stomaco.
“Allora!” ribadì l’uomo, impaziente
I suoi modi così poco cortesi mi riscossero dalla trance da “occhi blu”. “Volevo dormire.” risposi, tornando a inalberarmi. “I suoi ragazzi stanno facendo un gran baccano: risate, grida, sbattevano cose contro il muro.”
“E le sembra questo il modo di presentarsi in una camera piena di giovanotti?” continuò lui, la sua mano fece una panoramica della mia persona.
Mi guardai e mi resi conto di essere nella mia camicia da notte corta di seta e le ciabattine, tacco e piume, comprate per un weekend con Norman.
“Ero a letto e stavo cercando di dormire.” gli risposi acida. “Non ho pensato a rivestirmi.”
“Non faccia la furba.” Avvicinò il viso al mio, scandendo bene le parole. “Quello non è cibo per i suoi denti.”
Cibo per i miei denti? Cosa voleva dire? Non voleva mica insinuare…
“Non vuole mica insinuare…”
La risposta nei suoi occhi fu molto eloquente.
Quel maleducato, zotico, fighissimo francese pensava che io avessi trovato una scusa per sedurre dei ragazzini poco più che maggiorenni?
“Lei è pazzo.” esclamai. “Volevo solo dormire. Nella MIA stanza, nel MIO letto, DA SOLA!”
“Allora ci vada nel SUO letto.” Mano su un fianco, indice puntato verso la stanza 123. “Non si azzardi mai più a presentarsi davanti a una stanza di ventenni vestita come una sgualdrina.”
“Non sono vestita come una sgualdrina!” strillai. “Ero a letto. Questa è la mia camicia da notte.”
Qualche porta si socchiuse, le teste di alcuni degli altri ragazzi sbucarono dagli spiragli così come quelle di alcuni clienti più anziani.
Perfetto, proprio perfetto.
“Non faccia l’innocentina. La prossima volta che ha qualcosa da dire, bussi alla mia porta invece di cercare di adescare i miei giocatori.” Girò su se stesso e si avviò verso la sua camera.
“Come osa!” sbraitai ancora più forte,alla sua schiena. “Lei è un gran cafone, non capisce niente.” continuai.
L’allenatore varcò la soglia e mi sbatté la porta in faccia.
Mi lasciai andare a una bella crisi di nervi. Battei i piedi per terra, strinsi i pugni verso l’uscio e mi uscì un verso inarticolato di rabbia. Le risatine degli spettatori mi fecero girare verso di loro con uno sguardo omicida.
Le porte si richiusero di colpo.
Mi voltai per tornarmene in camera ancora più fumante di quando mi ero alzata.
Entrai sbattendo le ciabattine, rinfilai la tessera nell’alloggiamento per la luce e a passo di marcia me ne tornai a letto.
Un assoluto silenzio regnava nella camera accanto ma mi ci volle comunque un bel po’ prima di addormentarmi.


Non punterò la sveglia, mi ero detta subito prima di partire.
Purtroppo al mio galletto interiore non gliene fregava niente che fossi in vacanza o che avessi litigato con un bello zoticone come il signor Dumont alle due di notte.
I miei occhi si spalancarono sulle travi del soffitto alle sette e non ci fu più modo di riaddormentarsi.
Rimasi un po’ sdraiata a rimuginare sulle ingiustizie della vita e così potei assistere al risveglio in sordina della squadra.
Lo sciacquone nel bagno, le porte chiuse, lo scricchiolio delle scarpe sul legno, i borbottii sussurrati. Mi consolai con il fatto che non ero l’unica a navigare fra lo stato di zombie e il bradipo a quell’ora del mattino.
La loro partenza mi diede la spinta per alzarmi. Andai nel bagno a fare tutto ciò che era in mio potere per svegliarmi prima del caffè e poi mi fermai davanti allo specchio.
Ero proprio sbattuta. Le occhiaie nere, i capelli stanchi e opachi, il viso un po’ gonfio, il colorito giallognolo. Ero venuta lì per riposarmi e questo era il risultato.
Dopo un’indispensabile tazza di caffè, una coppia di toast con il formaggio e una crêpe con la marmellata, le mie facoltà mentali entrarono in modalità start.
La prima decisione della giornata fu: evitare a tutti i costi la squadra e quell’insopportabile, maleducato del loro allenatore.
Un fallimento su tutta la linea.
Iniziai con il prendere il mio e-reader e cercare un posto appartato e tranquillo dove fermarmi. La mia escursione del pomeriggio precedente mi aveva fatto scoprire un grande albero, con larghe foglie verde scuro e grosse radici ritorte in modo da formare una sorta di sedile. Era un po’ discosto dal sentiero, senza essere troppo lontano, e sembrava proprio il posto ideale.
Presi in prestito qualche cuscino dall’albergo e uscii per dirigermi verso il bosco. Il sole non era ancora riuscito a scaldare l’aria fresca del mattino, così mi allacciai anche la felpa.
Dopo una rapida camminata di una decina di minuti, arrivai sotto la chioma folta dell’albero e mi sedetti per terra. Sui rami si sentivano gli uccellini chiamarsi fra loro e la leggera brezza faceva muovere le foglie in un lento sussurro.
I residui di rabbia della sera prima si dissolsero.
Accesi il mio lettore, ovviamente su un bell’erotico, e m’immersi nella storia di sconosciuti e aeroporti, scritta da una delle mie autrici preferite.
Ero alle prese con una scena davvero bollente, quando dei rumori mi fecero sollevare lo sguardo verso il sentiero. Un filo lucente penzolava davanti ai miei occhi e attaccato a esso c’era un… RAGNO.
Il mio grido acuto bucò le foglie sovrastanti. Io odiavo i ragni!
Saltai su come se le radici fossero diventate delle molle e mi buttai verso il sentiero poco distante sbattendo le mani sulla felpa. “Dio che schifo. Dio che schifo!” strillai. Avrei potuto trovare momento migliore? No! Dovevo scegliere l’esatto istante in cui il distaccamento dei rugbisti arrivava di corsa.
Io finii dritta addosso a uno di loro, beccandomi, tra l’altro, una gomitata in una costola. Lui, montagna umana, quasi non se ne accorse. Mi afferrò alla vita per impedirmi di finire a terra e mi sorrise.
“Scusi, grazie.” dissi viola per l’imbarazzo, la mano sul punto dove il suo braccio doveva avermi incrinato qualcosa.
“Ça va?” mi chiese, guardando il mio viso sofferente.
Io annuii, intuendo la domanda, mentre gli altri ci sorpassavano. Riconobbi i due ragazzi della sera prima che si girarono e quello biondo mi fece persino l’occhiolino.
L’allenatore chiudeva il gruppo. “Allons, Marcel, vas-y!” Con uno scappellotto incitò il ragazzo a riprendere la corsa. Il suo sguardo azzurro mi trafisse con milioni di dardi acuminati.
“Non l’ho fatto apposta!” gli gridai dietro e gli vidi scrollare le spalle.
Mi fermai qualche secondo. Vederlo correre era davvero un bello spettacolo. Elegante, sciolto, la falcata delle lunghe gambe e l’ondeggiare in sintonia delle braccia vigorose. Che sfortuna, tanta magnificenza con così tanta antipatia.

Recuperai le mie cose e decisi di andare altrove. Ma la mia odissea non era ancora finita.
Dopo fu la volta del bar del paese.
Mi ero fermata a bere un Kir, un cocktail di cui avevo tanto sentito parlare, e avevo trovato un magnifico posticino nella veranda posteriore con vista spettacolare sulle montagne circostanti.
C’erano anche alcuni giochi: due tavoli da ping pong, un calciobalilla e due macchinette per videogiochi.  Non ci diedi molto peso.
E commisi un errore.
Il mio bicchiere era ormai a metà e il sapore del cassis mi aveva indotto a rimuginare su Norman, sul nostro rapporto e le vere ragioni per cui era andato a rotoli, quando una gran confusione alle mie spalle mi fece congelare con il bicchiere mezzo sollevato.
Qualcuno doveva proprio avercela con me.
Un gruppo di ragazzi entrò nella veranda, senza prestarmi la minima attenzione. Quattro di loro si sfidarono a calcetto a suon di frulli, colpi con le aste ed esclamazioni. Altri iniziarono una sorta di ping pong semi acrobatico in cui correvano intorno al tavolo mentre colpivano la pallina.
E io dovetti dire addio al mio momento idilliaco.
Il loro guardiano entrò per ultimo, si sedette a un tavolino un po’ distante e, con mia somma gioia, non mi notò.
Volevo centellinare il mio cocktail, il mio rapporto con l’alcol non era dei migliori, così mi feci un po’ indietro, giusto per mimetizzarmi meglio con l’ambiente, e rimasi a osservarlo.
Era un peccato fosse così arrabbiato con me, era proprio un uomo attraente, anche da dietro. Il busto usciva di un bel pezzo fuori dallo schienale della sedia e la polo blu conteneva a fatica le ampie spalle e i dorsali da manuale del perfetto culturista. Ma in quanto a carattere…
Sorseggiai ancora un po’ il mio Kir quando la mia fortuna girò di nuovo bandiera. Uno dei ragazzi, ancora uno di quelli della camera, mi notò e mi fece un gran sorriso.
Il suo allenatore seguì subito la direzione del suo sguardo e mi beccò in flagrante con il bicchiere mezzo sollevato. Aggrottò le sopracciglia in quel suo modo spaventoso e scostò la sedia come per alzarsi.
Non voleva mica venire lì? Non ero pronta a un altro confronto.
Ingollai il mio cocktail di colpo e l’attimo dopo stavo quasi correndo fuori dal bar, inseguita da un “Mademoiselle, aspetti.”
Certo! I demoni si aspettano sempre.
Speravo di aver finito con i brutti incontri ma purtroppo la mia “buona” stella aveva ancora qualcosa in serbo per me.
L’albergo era dotato di una piscina, una delle ragioni per cui l’avevo scelto. Non era un’olimpionica ma i suoi onesti venticinque metri per quattro corsie la rendevano ben più che adatta per una bella nuotata in santa pace. Era coperta da una sorta di veranda a vetri, utile per le giornate fredde, dotata di porte scorrevoli che davano su un terrazzo con lettini e ombrelloni. Il posto ideale dove rifugiarmi, mi dissi.
Che ingenua!
Mi ero sdraiata da una decina di minuti su uno dei lettini. Il calore del sole mitigato dall’aria fresca, la quiete dei pomeriggi in montagna, un bicchiere di Schweppes al limone per combattere la sete. Cosa c’era di meglio? Niente.
Chi altri poteva pensare la stessa cosa?
La bibita frizzante mi andò di traverso quando l’orda al gran completo della squadra under 21, di non so quale cittadina, invase la struttura.
Mi sedetti di colpo per non soffocare. “Non ci posso credere.” sussurrai tra me.
L’area coperta cominciò a rimbombare delle loro grida, dei loro giochi e dei loro scherzi. Palline volavano da una parte all’altra, grandi spruzzi si sollevavano dall’acqua quando qualcuno vi si buttava o veniva spinto dentro, persino un frisbee giallo roteava nell’aria, avanti e indietro.
Non potevo rimanere. La confusione era ai massimi livelli e c’era sempre la questione di quel cecchino dell’allenatore.
L’uscita, però, era all’interno della veranda, sarei stata costretta a passare tra loro per raggiungere la salvezza. Avevo altra scelta?
Mi alzai dal lettino, strinsi il nodo del pareo intorno ai fianchi e mi avviai, testa bassa e passo deciso, verso la veranda.
Avevo quasi oltrepassato il punto critico quando, in slow motion, vidi una pallina di gomma gialla passarmi davanti in volo, uno di quei marcantoni, pelle scura e cresta nera con i capelli rasati ai lati, saltare per afferrarla e ricadere esattamente contro di me.
Essere travolti da un Tir non doveva essere molto diverso.
Mi ritrovai catapultata in acqua insieme al ragazzo che, molto più agile di me, riuscì a evitare di sbattermi sul fondo. Mi afferrò in qualche modo alla vita e mi riportò in superficie insieme a lui e metà piscina nello stomaco.
Tornai a galla tossendo e sputando come si conviene a chi è quasi annegato.
“Excusez-moi, Madame. Je suis désolé. Pardon.” Il giovane si stava scusando a profusione, o almeno il tono sembrava suggerire così. Dopo un controllo generale, capii di essere tutta intera, solo un bel po’ spaventata. Per fortuna avevo lasciato e-reader e telefono in camera e il pareo si sarebbe asciugato in fretta.
L’efficiente allenatore arrivò subito dopo per constatare il danno.
Al suo giocatore, ovviamente.
L’uomo cominciò ad abbaiare in quella lingua, in genere così dolce, ma che lui usava come una mitraglietta.
Quelle erre arrotate avrebbero potuto ferire qualcuno.
Il ragazzo si avvicinò, mise due mani sul bordo e si issò fuori dalla piscina in un solo fluido movimento. L’allenatore continuò a rimproverarlo e lui rimase a occhi bassi a prendersi la sua dose.
Quasi mi dispiacque per il ragazzone. “E’ stato un incidente.” cercai di difenderlo.
La furia nello sguardo che mi rivolse bastò a farmi desistere.
Meglio dileguarsi.
Con quattro bracciate raggiunsi la scaletta, salii fretta e mi diressi a passo veloce verso l’uscita.
A cena, il fato decise di avere ancora un altro conto in sospeso con me.
L’arrivo di nuovi clienti aveva costretto i padroni a ridisporre la sala ed io, essendo sola, ero stata spostata proprio in fondo alla tavolata dei giovani atleti. Le mie proteste non erano servite a molto. In un inglese stentato mi avevano fatto capire che era l’unico posto disponibile.
Mi ritrovai di nuovo a ingollare il pasto, un’incandescente Soupe à l'Oignon, tenendo lo sguardo fisso sul piatto.
Solo alla fine, incrociai gli occhi gelidi di monsieur Dumont che strinse le labbra e scosse la testa.
Fossi stata un altro tipo di donna avrei potuto mettermi a discutere, ma a che pro? Era la pace quella che cercavo, non duellare verbalmente con un emerito cafone davanti a tutti gli ospiti.
Alla fine della cena non rimasi neanche in giro per la hall, anzi, decisi che quella giornata meritava di essere affogata in una bottiglia di Vin de Savoye.
Salii in camera mia, buttai via le scarpe, recuperai un bicchiere dalla dotazione della camera e portai il tutto fuori sul terrazzino.
Seduta con i piedi sulla balaustra, circondata dal profumo dolce delle petunie, guardai il cielo stellato, un sorso dopo l’altro, nutrendo il mio senso di inadeguatezza con pensieri sempre più neri.
Ero davvero un impostore? La mia vena di scrittrice si era del tutto esaurita? Perché nessuno mi capiva?
Quando raggiunsi il giusto grado di stordimento, mi alzai traballante dalla sedia e mi diressi sul mio letto.
Ero nelle condizioni ideali per appoggiare la testa sul cuscino e sprofondare in un lungo sonno ristoratore, cosa che avvenne per almeno due ore. Poi, i miei deliziosi vicini, decisero di dare il via a un incontro di lotta libera.
Mi svegliai di soprassalto per il rumore di qualcosa di pesante che cadeva a terra, poi lo scricchiolio dei mobili spostati, i grugniti dei contendenti e le voci degli spettatori che li incitavano.
L’alcol ancora girava nel mio corpo e mi diede coraggio. Scalciai via le coperte e misi i piedi giù dal letto. Il mondo ondeggiò con tale forza da costringermi a prendere qualche respiro prima di rischiare ad alzarmi.
Infilai le mie pantofoline con le piume, indossai anche la vestaglia e con passo deciso, se pur barcollante, marciai verso la porta, fuori dalla camera.
Mi fermai davanti all’uscio accanto, il pugno alzato, pronta a picchiare sul legno, quando un’idea repentina mi fece abbassare il braccio. Mi voltai e andai verso la porta del famigerato allenatore.
Bussai una volta, niente.
Una seconda, ancora niente.
Una terza…
Stavo per bussare la quarta quando la porta si aprì di scatto e l’allenatore mi comparve davanti, i capelli scompigliati dal sonno, l’espressione, ancora innocua, di chi è stato appena buttato giù dal letto.
Quella sera aveva deciso che la t-shirt era di troppo. Le mie nocche erano arrivate a pochi millimetri da un perfetto uscio di carne, una doppia anta suddivisa in listoni di puro muscolo, corredata di passatoia centrale di peluria che si perdeva sotto l’elastico dei calzoncini.
Fui colta da un attimo di sbandamento e la gola secca mi costrinse a deglutire con forza.
Alzai lo sguardo e proseguii lungo i pettorali perfetti con il loro bottoncino rosa scuro al centro, le spalle larghe, il collo velato di barba, il mento volitivo, gli zigomi alti e, quando finii il mio giro panoramico, rimasi surgelata dai due laghi ghiacciati che mi fissavano.
“Cosa vuole ancora?” Il tono sgarbato non riuscì a far sembrare meno sexy quell’accento.
“I suoi ragazzi mi hanno svegliata un’altra volta.” risposi con la stessa voce brusca, decisa a ignorare l’effetto di tutto quel ben di Dio su di me. “Stanno giocando ai piccoli demolitori là dentro.” Indicai la camera con il pollice.
Lui uscì dalla stanza a piedi scalzi e, incurante del suo abbigliamento, o per l’assenza di esso, sbatté i piedi sulla moquette fino alla camera.
Si fermò davanti all’uscio e allungò un orecchio. Dopo quattro secondi in cui invidiai quei calzoncini così ben stretti attorno al suo lato B, si voltò verso di me, in perfetta posa da asso di coppe. “I miei ragazzi sono silenziosi, Madame. La prego di smetterla di mettersi in mostra. Sono troppo giovani e siamo qui per allenarci.”
“Io non mi sto mettendo in mostra.” Mi misi nella sua identica posizione. “Siete voi che mi perseguitate. Io voglio solo stare tranquilla. Ho bisogno di pace, di dormire.”
“E allora vada in camera e faccia dei bei sogni.” rispose lui, ritornando verso la sua porta.
“Non ci riesco!” Alzai il tono della voce. “Siete dappertutto e fate sempre un sacco di confusione. Devo riposare, devo concentrarmi.” Mi odiai quando la mia voce si ruppe in un piagnucolio.
Lui si fermò a pochi centimetri e rimase a fissarmi in silenzio.
La mia bocca, invece, non ne volle sapere di rimanere chiusa. “Non riesco a pensare, non riesco a scrivere. Il mio agente mi mollerà, il mio editore mi citerà in giudizio, Quentin non avrà mai la sua storia e io sarò rovinata. Rovinata!” Misi le mani davanti agli occhi e le cataratte si aprirono con lunghi e intensi singhiozzi.
Attraverso le dita, vidi i suoi piedi nudi avvicinarsi e un braccio mi cinse le spalle. “Madame, si calmi.” quasi preoccupato.
Appoggiai le mani che coprivano il viso al suo torace e continuai a piangere.
“Non faccia così.” disse piano. Poi mi attirò nella sua stanza, chiuse la porta con un piede e continuò a farmi retrocedere, fino a mettermi seduta su una poltroncina.
Ci sono diversi tipi di ubriacatura: chi la prende violenta, chi non riesce a smettere di ridere e chi piange come un bambino.
Io non potevo che essere dell’ultima categoria, la più imbarazzante, la più stupida.
Avvertii a malapena i suoi movimenti nella stanza mentre sfogavo la mia tensione, frustrazione,  rabbia, paura con un fiume e mezzo di lacrime.
Non so quanto tempo passò. A un certo punto avvertii una mano e dei piccoli movimenti circolari sulla spalla.
Sollevai il viso e lui mi porse un grande fazzoletto maschile che profumava di detersivo. “Prenda.”
Un sonoro “tloc” lo fece girare. Si avvicinò a un tavolino, staccò il bollitore dalla base, aprì una bustina e ne versò il contenuto dentro una tazza, seguito dall’acqua bollente.
Un intenso aroma di camomilla si sparse nell’aria.
Mescolò il liquido e poi me lo portò, tenendola per il manico. “Solubile.” Me la porse. “Quello che ci vuole per calmarsi un po’.” Poi fece l’errore di sorridermi.
Non mi aveva mai sorriso.
Rimasi abbagliata da quella visione, dimenticando perché ero lì e lo spettacolo che avevo appena dato di me stessa.
Spinse la tazza fin sotto il mio naso e io mi riscosse dal mio incanto. La presi con le mani ancora tremanti e ne bevetti un sorso.
Il calore scacciò un po’ degli effetti dell’alcol e la mia figuraccia mi apparve in tutta la sua mostruosità. Fantastico!
Dopo essere passata per una seduttrice di ragazzini, ero riuscita ad apparire come un’ubriacona piagnucolosa. Ben fatto Margaret, mi dissi.
“Mi scusi. Io…” sussurrai, vergognandomi da morire. “Grazie.” Affondai il naso nella tazza.
Lui fece un gesto con la mano per minimizzare la cosa, si sedette sull’altra poltroncina e si lasciò andare a braccia aperte contro lo schienale, lo sguardo intenso su di me. Sembrava lo facesse apposta a sbattermi in faccia tutta la sua maschile prestanza.
“Mi sembra di capire che è una scrittrice.” Disse, questa volta in tono gentile.
“Sì.” annuii e avvicinai ancora il bordo alla bocca. Avrei dovuto aggiungere “forse” ma la parola mi morì in gola davanti a un altro dei suoi sorrisi.
“E chi è Quentìn?”
“Il capo della Cobra Security.”
“Cobra Security? Qu’est que c’est?”
“Un’agenzia di guardie del corpo… un po’ speciali.” Intuendo, dal tono interrogativo, cosa mi avesse chiesto.
“Lei ha bisogno di una guardia del corpo?” Le sopracciglia folte scattarono in alto. “Allora è molto famosa.”
Che scema! I personaggi giravano sempre nella mia testa e io ne parlavo come persone vere.
“Non è la mia guardia del corpo. È il personaggio della serie che sto scrivendo.”
“Aah!” Lui annuì. “Quindi questo Quentìn non esiste.”
“Solo nella mia testa. Ma nell’ultimo mese è sparito. Puff! La sua storia svanita.” Mi si incrinò la voce. L’alcol non mi aveva ancora mollato.
“Che cosa è successo in questo mese?”
“Niente di particolare, a parte…” Mi ritrovai a raccontare tutto a un perfetto sconosciuto, lo stesso che poco prima mi aveva accusato di mettermi in mostra con dei ventenni.
L’ultimo mese in cui Norman se n’era andato, il mio agente aveva incominciato a pressarmi perché scrivessi la mia storia, l’editore mi aveva chiamato per i primi capitoli, mia madre mi aveva tormentato perché non ero più con Norman e il mio gatto era scappato da casa.
“Questo Norman era geloso?” L’uomo intervenne solo alla fine del mio racconto.
“No! Lui era troppo bravo. Mi ha detto che pensavo troppo alla mia carriera e non lo amavo abbastanza.”
“Geloso, senza dubbio.” affermò lui. “Cosa intende: non riesco a scrivere?”
“Mi metto davanti alla pagina bianca e il mio cervello si svuota.” Girai un po’ il liquido nella tazza per far sciogliere qualche granulo rimasto sul fondo e bevetti l’ultimo sorso. “Di solito ci sono delle immagini nella mia testa. Ho la scena davanti, sento le voci dei protagonisti, avverto gli odori, guardo scorrere gli eventi, poi scrivo.” Sospirai a fondo. “In questo momento non c’è nulla, a parte Norman e gli errori commessi con lui.”
“E i suoi sbagli?”
Io sollevai le spalle. “Non so.” dissi piano.
Lui appoggiò il mento su due dita, il gomito sul bracciolo, e mi fissò qualche secondo. “Quando è stata l’ultima volta che ha pensato davvero a se stessa?”
Che strana domanda. “Ci penso sempre.”
Lui scosse piano la testa. “Io vedo una bella donna davanti a me che ha smesso di volersi bene. Si è convinta di non essere più “amabile” e si è lasciata andare.”
Lo guardai sconcertata. Chi era, Sigmund Freud?
Dovette capire al volo perché sorrise indulgente. “Non potrei essere un buon allenatore senza capire la base della psicologia umana e lei, ma chère mademoiselle, si è arresa e la mente l’ha seguita.” Si allungò in avanti, i gomiti sulle ginocchia. “Conosce il latino? C’è una frase che noi sportivi amiamo molto mens sana in corpore sano. Mia cara, lei deve ritrovare la sanità del corpo per guarire la testa.”
Mi era capitato anche l’allenatore filosofo.
Il mio scetticismo era talmente palese che l’uomo rise. “Vedo che non mi crede.” disse. “Vuole fare una scommessa?”
“Non è una cosa su cui scherzare.” risposi, ora infastidita.
“Sono serissimo. Preferisce rimuginare tutto il tempo e nascondersi nel bosco per spiare i miei ragazzi allenarsi?”
“Io non mi sono nascosta nel bosco.” mi alterai. “Siete voi che spuntate dappertutto.”
“Le è servito a qualcosa stare a pensare?”
Fui costretta a scuotere la testa. Cosa avevo ottenuto in quella giornata? Un bel niente. Anzi, da sola ero riuscita a fare pensieri ancora più neri.
“Proviamo come dico io. Da domani, lei si allenerà con noi.”
“Ma è matto!” Saltai sulla poltroncina. “Non ce la faccio.”
“Non la farò correre con i tronchi sulla schiena o allenarsi a fare la mischia” La faccia di chi pensava fossi un po’ stupida. “ Però il gruppo aiuta, sostiene, carica.” Strinse il pugno per enfatizzare il concetto. “Se, alla fine della settimana, non ha ottenuto risultati anche sulla sua mente, le darò cento euro.”
“E in caso contrario?” sospettosa.
“La dedica nel libro di questo Quentìn.”
Rimasi a fissare gli occhi azzurri decisi, le sopracciglia distese, il vago sorriso e pensai fosse davvero un bel tipo. Ma poi tornai sul soggetto in questione.
Cosa avevo da perdere? Volevo riposarmi ma da cosa? Più stavo sola a non far niente, più mi flagellavo sul rapporto con Norman. Perché non provare?
“Affare fatto?” L’allenatore allungò la mano con un sorriso di vittoria.
A leggere le espressioni era davvero bravo.
“Affare fatto.” risposi. La strinsi un po’ titubante.
“Non so ancora il suo nome.” disse.
“Margaret.”
Moi, je suis Étienne.” Si alzò dandomi un’altra visione di quel torace perfettamente scolpito. Accidenti a lui, era davvero un pezzo d’uomo. “Bien, Marguerite. Adesso, a letto.” Mi fece tirare su dalla poltroncina. “Domattina sveglia alle sei, colazione e poi a correre nel bosco.” aggiunse mentre andavamo alla porta.
Avrei voluto correggerlo sul mio nome ma la mia attenzione fu catturata dall’affermazione successiva. “Eh!” esclamai inorridita. “Alle sei?”
“Le prime ore del mattino sono le migliori.”
“Ma l’altra mattina non siete passati alle sei.”
“Era il secondo giro.” rispose con un sorrisetto.
“Ma sono in vacanza.” tentai ancora una protesta.
“Abbiamo un patto.” Non lo avrei smosso neanche di un millimetro.
Il mio sospiro fece fremere le tendine alla finestra e risposi un “Ok.” davvero riluttante. “Domattina alle sei.” aggiunsi.
Uscii dalla camera dell’allenatore e mi avviai a passo strascicato alla mia camera. Forse mi ero lasciata convincere troppo in fretta, forse non era la cosa giusta da fare, forse dovevo solo stare ferma a guardare il soffitto, forse…
Mi girai con la bocca aperta come per replicare.
Lui era ancora sulla porta, con tutto quello splendore in bella vista, e mi sorrise. “Alle sei.” ripeté.
E io, completamente ipnotizzata da quel torace degno della copertina di uno dei miei romanzi, non potei che annuire.
Lui rientrò in camera ed io feci lo stesso.
Me ne sarei pentita! Già lo sapevo.


Toc, toc.
“Mmm.” mugugnai, senza svegliarmi.
Toc, toc.
“Mmm, che c’è.” Sollevai la testa dolorante e aprii un occhio. Era ancora buio, chi era a quell’ora della notte?
Bum, bum. “Marguerite, sono le sei.” La voce dell’allenatore…
La serata mi tornò in mente tutta in una volta, insieme alla promessa fatta a Étienne. Gran bel nome, tra parentesi.
Con un certo sforzo mi misi seduta e il dolore alla testa mi fece stringere gli occhi. La scusa buona per ritornare a letto.
Bum, bum. Più forte. “Va tutto bene?” La voce quasi preoccupata.
Mi trascinai verso la porta e aprì uno spiraglio. “Buongiorno.” gracchiai. “Non me la sento. Ho troppo mal di testa.”
Lui era spettacolare. Maglietta seconda-pelle in lycra sopra quei muscoli d’acciaio, pantaloncini aderenti sui fianchi da corridore e le gambe imponenti pronte allo scatto. Mi sorrise. “Nessuna scusa, Marguerite. Vai a farti una doccia. Le aspirine ti aspettano di fianco alla spremuta.”
“Ma… davvero…”
“O ci vai da sola o ti ci porto io sotto la doccia.” affermò.
Lo fissai indecisa ma la risposta era scritta nei suoi occhi: lo avrebbe fatto.
“Ti aspetto in sala da pranzo. Se entro dieci minuti non scendi, ti vengo a prendere.” Si girò e si allontanò verso le scale.
Rimasi qualche secondo ad ammirarlo fino a quando non si voltò di nuovo. “Sotto la doccia. Vite!” Poi sparì dietro l’angolo.
Richiusi piano la porta.
Étienne Dumont sembrava proprio deciso. E le mie possibilità di fuga? Pari a zero. Chi poteva combattere contro quel forzuto ammasso di muscoli?
Mi trascinai a passo strascicato verso il bagno.
Dopo una doccia, il mondo sembrava meno brutto. Mi infilai una maglietta e un paio di fuseaux, messi in valigia per ogni evenienza, e scesi a far colazione.
Una seggiola era stata aggiunta alla tavolata dei ragazzi, già tutti seduti. Regnava un raro silenzio nel gruppo. All’apparenza neanche quei super Duracell amavano le levatacce.
“Marguerite, vieni qui.” Étienne indicò il posto. “Una buona colazione e poi a correre.”
Poi si rivolse alla tavolata. “Aujourd'hui, Mademoiselle Marguerite s’entrainerait avec nous. Soyez-sage.”
Troppo stordita per lasciarmi impressionare dai loro sguardi analitici, mi lasciai cadere sulla sedia.
I ragazzi risposero con gesti della mano, “Bienvenue” ad alta voce e cenni con la testa.
Due pastiglie bianche riposavano di fianco a un bicchierone di succo d’arancia. Sulla tavola, invece di croissant o biscotti al burro, c’erano baguette con la marmellata, uova e prosciutto e spremute di diversi tipi.
“Niente caffè?” chiesi lamentosa.
L’allenatore mi guardò severo. “Solo oggi perché ieri sera hai bevuto trop de vin.”
Un santo me ne portò una tazza e con quella, le aspirine e un po’ di colazione nello stomaco, mi sembrò di tornare quasi normale.
“Finite di prepararvi. Tra dieci minuti fuori dall’albergo.”
Tornai in camera, mi lavai i denti e mi guardai allo specchio.
Dovevo ammetterlo: negli ultimi mesi mi ero lasciata un po’ andare. Avevo preso su qualche chilo di troppo, non mi ero più curata dei miei capelli, adesso disordinati e senza forma. La palestra era diventata un ricordo, ossessionata dal pensiero di scrivere l’ultimo capitolo o trovare la verità su Quentin. Avevo mangiato solo schifezze a tutte le ore, seduta davanti a quell’accidente di schermo bianco o a piagnucolare sulla perdita di Norman.
Il bell’allenatore aveva ragione. Ma ne avevo la forza?
Dopo un’ultima occhiata, uscii dal bagno per raggiungere il gruppo.
Mi trovai con gli altri davanti all’albergo. Étienne fece un lungo discorso in francese, di cui seguii solo il suono armonioso e il tono autoritario, poi si rivolse a me.
“Prenderemo il sentiero del bosco, dove ti sei scontrata con Marcel.” Qualcuno ridacchiò e altri si diedero di gomito per sapere cosa stava dicendo.
Io arrossii “Non è stata colpa mia.”
Étienne fece un gesto come per dimenticare la cosa. “I miei ragazzi devono fare cinque giri. Tu ne potrai fare solo due.”
Annuii rassegnata.
“Allons, vite, on y va.” disse rivolto a tutti. Il plotone partì con me al centro. Cercai di tenere il passo con quelle lunghe gambe poderose ma fu assolutamente inutile. Però non mi arresi e poco dopo mi ritrovai sul sentiero. A quell’ora del mattino l’aria era piuttosto frizzante e gli uccellini cantavano a squarciagola in attesa dell’uscita del sole da dietro le montagne, facendomi compagnia insieme al profumo intenso della terra, le foglie decomposte, le erbe pungenti del bosco.
Batticuore e fiato corto non tardarono molto. Rallentai a metà del primo giro, decisa ad arrendermi. “Non ti fermare.” Étienne mi doppiò. “Piuttosto continua una camminata veloce, ma non fermarti.”
Mi impegnai per rispondere alla sua richiesta/ordine.
Il fiato si fece ancora più grosso, il cuore sembrò scoppiare ma, solo per orgoglio, continuai imperterrita ad andare.
Uno dei ragazzi mi doppiò e mi fece un segno con il pollice alto, un altro mi diede una pacca sulla schiena.
“Vas-y, cougar!” Un altro mi fece l’occhiolino. Stupidaggini che mi spronarono a non mollare.
Riuscii a prendere il ritmo giusto ma alla fine dei due giri ero pronta per tornare a letto.
Invece mi radunai con gli altri, i polmoni ancora in fiamme, e aspettai nuove istruzioni.
Étienne mi diede una pacca su una spalla. “Très bien. Bravissima. Adesso andiamo al campo.”
A fare cosa? Mi chiesi. Lo imparai anche troppo presto.
Percorremmo parte del paesino a piedi, scendemmo giù per una stradina laterale e ci ritrovammo in un’area adibita a giochi sportivi. C’era un grande campo da calcio circondato da un anello in terra battuta, dove erano sistemati delle attrezzature: un percorso con gomme da camion, una serie di ostacoli alti forse una trentina di centimetri, delle barre molto basse, una piramide in legno e una sbarra.
Étienne dovette spiegarmi due volte cosa dovevo fare.
Si doveva partire di corsa e continuare così tra una postazione e l’altra.
Prima la serie di pneumatici, saltelli con un piede dentro ognuno di loro, poi la fila di ostacoli e gli addominali, sdraiata a terra con i piedi sotto le barre più basse. Étienne Dumont, credendo di essere nei Navy SEALs, aveva aggiunto l’arrampicata sulla piramide di legno, una serie di burpees, un complicato esercizio di rannicchiamenti, estensioni e flessioni, e una manciata di sollevamenti con le mani appese alla sbarra. Alla fine si tornava alla partenza e via, un altro giro di giostra.
“Tu devi essere completamente matto.” gli dissi a occhi sbarrati, dopo la seconda spiegazione. “Non ce la farò mai.”
“Vous dites de bêtises! Farai meno ripetizioni ma puoi farcela.”
Poi smise di prestarmi attenzione.
Un lungo fischio. “Marcel, Armand, Benoit, vous serez les prémiers.”
I ragazzoni si misero in fila e li guardai iniziare il percorso con un senso di vuoto allo stomaco.
“Alors! Sto aspettando.” Étienne mi fissava con i pugni sui fianchi, implacabile.
Lo guardai per qualche secondo prima di decidermi. Avevo scommesso? Avrei provato.
Partii di corsa e superai le gomme con una certa facilità, poi gli ostacoli e gli addominali, dove il nono e il decimo mi fecero quasi arrendere. La piramide aveva qualche appiglio e una rete dall’altro lato per scendere, ma non fu per niente facile. Ai burpees, che non avevo capito, mi fermai a guardare i ragazzi e li imitai con molta fatica e, al terzo sollevamento alla sbarra avrei pianto.
“Ancora due.” sentii urlare da lontano ed ero certa fosse per me.
Dopo aver ubbidito, rischiando di staccarmi entrambi i polsi, tornai alla partenza.
“Pas mal.” Il suo aperto sorriso compensò in parte il fiatone e il dolore generalizzato. “Al secondo giro voglio sette sollevamenti all’asta, quindici addominali e sette burpees.”
“Tiranno!” risposi, ma la sua approvazione mi aveva dato nuova energia.
Completai il percorso con i numeri richiesti, anche se, per i sollevamenti, qualcuno mi prese per la vita e mi aiutò a fare l’ultimo.
“Encore!” Il sadico allenatore ordinò e dopo qualche minuto di riposo, ripartii.
Alla piramide ero prosciugata, non riuscivo neanche a sollevare la gamba per spingerla sul successivo appiglio. Una benedetta mano sotto il sedere m spinse verso l’alto.
“Armand.” Si sentì urlare dal fondo. “Gardes tes mains!”
Lui mi fece l’occhiolino e si buttò dall’altra parte.
Alla fine del percorso avevo perso tre chili di sudore, tre mesi di vita, tre pezzi di unghia e tre lobi polmonari. Mi fermai con le braccia sulle cosce, piegata in due a tentare di respirare.
“Sei stata vraiment douée.” mi disse.
Sollevai la testa di traverso e lo sorpresi a fissare qualcosa dentro la mia scollatura con un sorriso d’interesse. Piantai una mano sulla maglia per nascondere la vista.
“Riposo adesso.” Non sembrò preoccupato di essere stato colto in flagrante. “Doccia e poi quello che vuoi. Dopo pranzo andremo a fare un'altra corsetta e nuoto in piscina.”
“Sei un despota.” gli dissi.
“Se vuoi essere il migliore, non puoi essere pigro.”
Quando il respiro tornò a un ritmo normale, m’incamminai verso l’albergo.
Ero a pezzi ma, mi resi conto, anche contenta, leggera, come se tutto il sudore avesse portato via anche un po’ delle “schifezze” che m’inquinavano il cervello.
Arrivata all’hotel, mi sedetti su uno sdraio nella veranda esterna a godermi l’aria ancora fresca. Osservai un uccellino posarsi su un ramo e svolazzare di qua e di là per catturare mosche da portare al nido, odorai il profumo delle rose arrampicate su per un arco di ferro all’ingresso.
Quentin era lì in mezzo, la sua stazza da ex marine stagliata contro il paesaggio, la spazzola di capelli corti, il naso rotto, il mento squadrato con quell’intrigante fossetta, spruzzato di barba non fatta. Mi fissò severo per qualche secondo, poi sorrise e mi fece l’occhiolino.
Mi tirai su di scatto dalla sedia e la visione svanì.
Accidenti! Era lui. Voleva dirmi qualcosa? Ero sulla strada giusta?



FINE PRIMA PARTE

*****
CHI E' L'AUTRICE

 MARIA CRISTINA ROBB è nata a Bologna e vive a Castel Maggiore, con la sua famiglia: un marito e una figlia. Fa l’infermiera da oltre vent'anni nel dipartimento di chirurgia di un grosso ospedale universitario in cui si occupa anche di ricerca.  Si definisce una lettrice compulsiva e ha sempre desiderato poter scrivere qualcosa che desse agli altri le stesse emozioni che prova lei quando tiene un libro tra le mani. Per questo ha frequentato alcuni corsi di Scrittura Creativa e Collettiva che le hanno fornito validi elementi per affinare il suo stile.  Il suo debutto è stato il concorso sul blog “La Mia Biblioteca Romantica”, dove il suo racconto “Mr. Talbot” è risultato vincitore di una rassegna di Romance Erotico.  Da allora ha continuato a scrivere, pubblicare su blog e partecipare a contest dove è risultata tra i finalisti in diverse occasioni. Di recente, con uno pseudonimo ha iniziato a pubblicare racconti appassionanti ed erotici per una nota casa editrice.

*****

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 APPUNTAMENTO A VENERDI' 11/8 PER LA SECONDA E ULTIMA PARTE. 
NON PERDETELA!




9 commenti:

  1. Maria Cristina07/08/17, 14:19

    Forza, dite qualcosa!

    RispondiElimina
  2. Belloooo. Mi piace questo racconto. Aspetto il seguito. Floriana

    RispondiElimina
  3. E' davvero bellissimo!!! Non vedo l'ora di leggere il seguito!

    RispondiElimina
  4. Che carino! Non vedo l'ora di leggere il seguito. È bellissima anche la copertina!

    RispondiElimina
  5. bello bello bello aspetto venerdi con impazienza

    RispondiElimina
  6. Maria Cristina07/08/17, 18:05

    Grazie mille. Mi sentivo così sola :)

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  7. Maria Cristina07/08/17, 18:07

    La copertina é tutta opera della bravissima Francy!!!

    RispondiElimina
  8. Molto bello, complimenti! =)

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  9. Lo lessi qualche giorno fa ma dimenticai di commentare o.O
    Complimenti all'autrice, scrittura coinvolgente,lui ha quell'atteggiamento che stuzzica la curiosità in una donna, perché nn lusinga e non è un tipo banale!

    RispondiElimina

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