“Che
paradiso!” Allargai le braccia in una mezza giravolta.
Quel
posto era assolutamente magnifico. Il tipico albergo con il tetto a falde
ripide e i terrazzini in legno, grondanti di fiori multicolori, gli aspri
picchi montani alle spalle, ancora chiazzati di neve, e il bosco intorno,
brillante di tutte le tonalità del verde, con i suoi profumi e il tappeto
sonoro degli abitanti.
Chiusi
gli occhi e respirai a pieni polmoni l’aria frizzante. Avevo fatto la scelta
giusta. Mollare tutto per andare in quel paesino dell’Alta Savoia a “schiarirmi
la testa”, parole del mio agente, era stata la prima decisione sensata da un
mese a quella parte.
“Signorina, mi deve pagare la corsa.” La voce
nasale del taxista mi risvegliò dalla mia trance idilliaca.
“Certo,
certo.” Frugai nella borsetta alla ricerca del portafogli.
Il
conducente aprì il baule della macchina e tirò fuori le mie valigie. “Ecco a
lei, mademoiselle.”
Gli
passai il denaro concordato all’aeroporto. “Merci, monsieur” risposi con, in
pratica, tutto il francese che conoscevo.
Tra
i folti baffoni grigi comparve un accenno di denti giallognoli “Pas de quoi.”
L’uomo si toccò il cappello con due dita. “Buone vacanze.”
“Grazie.”
feci un piccolo inchino.
Sganciai
il manico del mio trolley, afferrai il beauty e mi incamminai lungo il
lastricato verso l’ingresso dell’albergo.
Che
cos’era quello?
Respirai
a pieni polmoni. Pane fresco! Oddio, che voglia di pane fresco. Quando mai,
nella mia frenetica vita a Londra, potevo mangiare del pane fresco?
Che
fortuna aver trovato quel posto.
Feci
il mio ingresso nell’atrio silenzioso con i suoi bei mobili in stile rustico e
le pareti rivestite di listoni di legno.
La
ragazza alla reception sollevò lo sguardo e mi accolse con un sorriso.
“Bonjour, madame.”
Oddio!
Se non parlavano la mia lingua? Il pensiero non mi aveva neanche sfiorata nella
mia tipica arroganza britannica.
Arrivata
al bancone, vi appoggiai il foglio della prenotazione. “Parla inglese?” chiesi
subito.
“Certamente
signora.” rispose con un perfetto accento oxfordiano un po’ arrotondato.
Sorrisi
sollevata, che disastro sarebbe stato. “Salve, sono Margaret Burton. Ho
riservato una stanza per una settimana.”
La
ragazza bionda controllò nella schermata del computer. “Eccola qua.” rispose.
“Mi vuole dare i suoi documenti?”
Presi
il passaporto e la carta di credito e glieli allungai. È un posto davvero
magnifico. C’è una pace, una tranquillità.”
La
ragazza sollevò su di me gli occhi un po’ sgranati ma non ci feci troppo caso e
continuai a blaterare. “Vengo da un periodo difficile. Avevo proprio bisogno di
un luogo come questo: silenzio, paesaggio fantastico, alberi sotto cui leggere.
Un posto dove staccare completamente la spina.”
Il
sorrisino di circostanza fu un po’ stirato.
Forse
stavo esagerando ma ero davvero così contenta di essere lì. Quella vacanza
poteva essere la mia cura, doveva essere la mia cura: qui avrei ritrovato la
mia ispirazione, la mia benedetta musa.
Avevo
sempre voluto diventare una scrittrice, raccontare storie per far sognare le
donne di tutto il mondo. Ma la dura realtà era che nessuno voleva leggerle le
mie storie e avevo passato anni a inviare racconti e romanzi senza ricevere
neanche un “crepa” in risposta.
Poi
il miracolo: la trama adatta, i protagonisti giusti, un editore che aveva
creduto in me. Così ero diventata una scrittrice best seller.
I
miei romanzi erotici avevano venduto migliaia di copie. Non come la James , anche se,
segretamente, pensavo di scrivere meglio, ma la mia serie “Bodyguard”, basata
su un’agenzia di guardie del corpo molto “speciali”, aveva avuto un grande
successo.
Adesso
mi trovavo a un punto morto. Dopo averne pubblicati quattro, dovevo scrivere il
romanzo più importante, quello che tutti aspettavano, quello che tutti
chiedevano: Quentin, il mitico capo/fondatore/mentore del gruppo.
Un
personaggio travagliato, difficile, con una personalità elusiva e dominatrice e
un passato di cui non parlava mai. Le mie lettrici chiedevano a gran voce il
suo HEA e il mio editore aveva deciso
fosse arrivato il momento.
Peccato
che la mia mente fosse una tabula rasa. La storia di Quentin mi sfuggiva, come
la sua personalità: neanche un’idea intelligente, neanche una scena erotica,
neanche una co-protagonista adatta.
Ero
molto preoccupata, il mio agente era molto preoccupato. Avevamo già firmato il
contratto per i diritti ma io non riuscivo a scrivere una sola, singola parola.
Ecco
perché Les Carroz d'Arâches in Alta
Savoia ed ecco perché quella pace mi sarebbe servita come
l’ossigeno.
“Bene,
signorina Burton.” La ragazza mi passò una
tessera magnetica. “Camera 123, primo piano, corridoio a sinistra. La luce si
accende quando la inserisce nell’alloggiamento di fianco alla porta.”
Raccolsi
tutte le mie carte e la card. “Grazie mille.” sorrisi.
Abbassai
le dita sul manico del trolley ma rimasi folgorata sul posto.
Un
caos di voci maschili, grida, fischi e battimani mi ancorò al pavimento in
legno. La ragazza spalancò gli occhi, poi mi guardò e mi riservò un sorriso
rassicurante, un finto sorriso rassicurante, che sortì l’effetto opposto.
Con
un senso di malessere, mi girai verso la porta d’ingresso. Un’orda di ragazzoni
in abbigliamento sportivo superò la vetrata. Erano tanti, erano giovani, erano
grossi ed erano... rumorosi!
Li
guardai avanzare a bocca aperta, inorridita davanti alla prospettiva: le scarpe
da ginnastica cigolanti, le voci profonde da uomini ma con l’energia dei
giovanissimi e la tipica voglia di farsi sentire e farsi vedere.
I
ragazzi si avvicinarono al bancone, riservarono vari cenni di saluto alla
ragazza, adesso con un sorrisetto ebete incollato alla faccia, e proseguirono
verso le scale.
Alla
fine del branco comparve un uomo imponente, capelli brizzolati sulle tempie, un
accenno di barba non fatta su una mascella squadrata, zigomi alti e una bocca
larga dal labbro superiore arrotondato in modo molto sexy. I penetranti occhi
azzurri, un po’ infossati dietro le sopracciglia folte, vagarono su di noi con
un’espressione benevolmente neutra ma, un attimo dopo, si puntarono severi su
di me.
Cosa
stava succedendo?
Era
appena passata l’orda dei barbari e il loro comandante mi guardava anche male?
“Bonjour,
Marie.” salutò rigido e continuò a passo di marcia.
“Bonjour,
monsieur Dumont.” rispose piano la ragazza.
Seguii
l’avanzare dell’uomo con un certo interesse, soprattutto su per le scale, con
le lunghe gambe poderose e il didietro ben allenato.
Finito
lo spettacolo mi girai verso Marie. “Chi… sono questi?”
Lei
abbassò lo sguardo, conscia di essere in fallo, la pace della mia vacanza
calpestata da un branco di giovani tori guidati da un arcigno, se pur molto
piacente, mandriano brizzolato.
“Squadra
di rugby under 21 del Faucigny Mont Blanc di Cluses.” disse piano.
“E
rimangono qui?” Domanda retorica ma chissà, forse partivano quel pomeriggio.
“Sì,
ma non deve preoccuparsi.” Cercò di rimediare. “Sono molto bravi. Si allenano
tanto. Sono sempre in giro per i boschi e la notte sono troppo stanchi, non
fanno rumore.”
Mi
aveva preso per stupida? “Ma li ha guardati?” Ero certa lo avesse fatto,
l’espressione mezza sognante con cui li aveva seguiti era un chiaro segno. “Con
tutto quel testosterone si potrebbero far crescere i baffi all’intera
popolazione femminile dell’Inghilterra.”
Lei
si strinse nelle spalle ed io la fissai con una certa voglia di spargere del
sangue.
Dovevo
andarmene? Girare il sedere e perdere la caparra? Cosa ne avrei ricavato?
Quella vacanza mi serviva come l’aria, senza contare il mio agente: mi avrebbe
stracciato il contratto in faccia.
Sollevai
le spalle, non avevo molta scelta. Forse la receptionist non era stata troppo
ottimista...
“Va
bene.” Presi le mie valigie e mi diressi alla colonna dell’ascensore, seguita
da un rumoroso sospiro della ragazza.
Non
era possibile!
Guardai
di nuovo la sveglia: le due! Quei maledetti rugbisti, traboccanti di ormoni e
birra, stavano facendo un baccano del diavolo. Erano ore che fissavo le travi
del soffitto!
Avevo
trascorso il pomeriggio a sistemare le mie cose, riposarmi e a fare una piccola
passeggiata di acclimatazione. Alle sette, ora di cena, mi ero presentata nella
sala da pranzo dell’hotel e mi era stato assegnato un piccolo tavolo appartato.
Un piatto fumante era arrivato subito dopo.
Che
pace.
Il
calore del consommè, le chiacchiere sommesse degli altri clienti, il lieve
profumo di sapone di Marsiglia della biancheria. Cinque minuti di assoluto
benessere. Solo cinque minuti.
Poi
il gruppo di marcantoni aveva invaso il salone, urlato e fischiato alle cameriere,
strisciato e sbattuto una decina di sedie e si era accomodato attorno a un
lungo tavolo facendo di tutto per farmi rimpiangere la mia partenza da Gatwick.
Grida,
dialoghi a voce alta, scherzi, pugni, stridore di seggiole, tutto ciò che una
ventina di giovani esuberanti poteva fare.
E
come se non bastasse, il loro guardiano, l’atletico, brizzolato, muscoloso,
mascella volitiva monsieur Dumont, mi aveva lanciato delle occhiate feroci
senza motivo.
Avevo
mangiato il più in fretta possibile, scottandomi lingua e palato, e mi ero
precipitata fuori dall’hotel, nella speranza di trovare un po’ di consolazione
nell’aria fresca della sera e nei suoni sommessi del bosco.
Mi
ero seduta su una panchina lungo il sentiero ed ero rimasta a compiangermi per
una buona mezz’ora.
Potevo
essere più sfortunata? Due ore di aereo, un taxi costosissimo fino nel cuore
delle Alpi francesi per trovare pace e mi ritrovavo nel mezzo del ritiro di una
squadra sportiva giovanile? Qualcuno doveva avercela con me.
Era
stato un mese schifoso.
Finita
la sfacchinata promozionale per i miei romanzi, ogni giorno una città
differente, orari diversi, la folla delle fan e tutto quello che ne conseguiva,
tutto quello che avrei voluto era dormire una settimana e godermi un po’ di
pausa. Invece, al mio rientro a Londra, Norman, il mio fidanzato, se n’era
andato.
Stavamo
passando un momento difficile, continue discussioni, critiche immeritate,
pretese e ricatti, ma avevo sperato di sistemare tutto al mio ritorno, quando
avrei avuto il tempo di ragionare.
Norman
non era stato dello stesso parere. Lo avevo trovato con la valigia chiusa, la
giacca su un braccio e un “non mi ami abbastanza” pronto da sbattermi in
faccia, insieme alla porta di casa.
Norman
era stato un sogno diventato realtà. Incontrato in un gruppo di scrittori su
Facebook, era tutto ciò che avevo sempre desiderato: poetico, romantico, stesso
interesse per la scrittura e la lettura. Sarei rimasta ad ascoltarlo per ore
con il suo parlare colto, i suoi termini forbiti le
sue bellissime citazioni. Scriveva poesie e racconti ermetici e aveva un lungo
romanzo nel cassetto su una saga familiare, la sua, che iniziava nella Polonia
di fine Ottocento.
Aveva
quell’aria da intellettuale sognatore, gli spessi occhiali da miope, il fisico
asciutto leggermente curvo, una voluta trascuratezza nel vestire e nella cura
personale. Non era un adone, ma non m’importava. La sua anima riluceva negli
occhi scuri pieni di tormento e a me bastava.
Soffriva
molto per il ritardo nella pubblicazione del suo romanzo. Anche lui aveva
contattato decine e decine di editori ma nessuno aveva mostrato interesse.
Quando
avevo pubblicato il primo libro della mia serie, Daniel, era stato il mio
maggior sostenitore. Pubblicità, raid sui social, creazione del sito, Twitter,
Pinterest e tutto ciò che ci girava intorno. Con il secondo, Marcus,
l’entusiasmo era già diminuito. Aveva cominciato a trovare difetti nel mio
stile, nelle mie storie, a rendermi insicura su tutto.
Al
terzo romanzo, Rodriguez, aveva cominciato a essere più aspro. Mi rimproverava
per come mi vestivo, come mi truccavo. Mi aveva persino accusata di prendere
ispirazione altrove per i romanzi. Come se non mi vedesse perennemente seduta
al computer.
Micha,
il quarto, gli aveva fatto dire che amavo più i miei libri di lui e se n’era
andato.
La
separazione mi aveva devastata. Avevo creduto in lui, in noi. Avevo cercato di
sostenerlo, di incoraggiarlo, avevo persino fatto leggere il suo romanzo al mio
agente, ma non era stato sufficiente.
Come
se non fosse bastato, alla rottura si era aggiunta l’incalzante pressione del mio
agente e dell’editore per leggere le prime
pagine del mio Quentin. Il boss, invece, come lo chiamavano gli u omini della
sua squadra di guardie del corpo, aveva deciso di tacere, di abbandonarmi e di
sparire dalla circolazione.
L’allenatore
della squadra di rugby un po’ me lo ricordava: l’aria decisa, severa, lo
sguardo penetrante, il fisico da modello di Men’s
Health. Mancava solo la cicatrice sul lato della mascella e la fossetta,
molto sexy, sul mento.
Dovevo
ritrovare l’ispirazione e quella vacanza era la mia ultima speranza.
Dopo
essermi pianta un po’ addosso, avevo fatto una passeggiata nell’area attorno
all’albergo e mi ero ritirata in camera a leggere.
La
rumba era cominciata poco dopo e tuttora, alle due di notte, non si era ancora
fermata.
Un
forte colpo contro il muro divisorio mi fece sussultare, seguito da una
sguaiata risata generale.
La
rabbia e la frustrazione esplosero.
Adesso
basta! Dovevo fare qualcosa. Va bene essere giovani e pieni di vita ma anch’io
avevo qualche diritto.
Scalciai
via le coperte e scesi dal letto fumante dell’ira dei giusti. Infilai le mie
pantofole con un po’ di tacco e il ciuffetto di piume sopra e mi diressi
all’uscita. Sfilai la tessera dall’alloggiamento nel muro e pestai i piedi fino
alla stanza centoventicinque.
Bussai
una prima volta senza ottenere risposta, poi una seconda, una terza e alla fine
battei a palmi aperti con tutte e due le mani per farmi sentire.
Un
ragazzo molto alto e molto grosso, con una zazzera di capelli neri tutti
spettinati, spalancò la porta, mi scannerizzò da cima a fondo e poi fece
affiorare un lento sorriso malizioso.
A
me! Un sorriso malizioso!
“Bonsoir
madame.” Il ragazzo si appoggiò allo stipite. “Voulez-vous quelque chose?” Il
tono basso e pieno di sottintesi riuscì a farmi arrabbiare ancora di più.
“Sono
le due di notte!” dissi a denti stretti per evitare di svegliare l’albergo con
i miei urli. “Vorrei dormire.”
Lui
aggrottò le sopracciglia poi girò la testa all’indietro. “Benoit!” gridò. “Viens ici. Il y a une demoiselle que
parle anglais. ”
Un
altro marcantonio, questa volta biondo con due folte basette lunghe fino
all’angolo della mandibola comparve sull’uscio. Altra scannerizzazione, altro
sorrisino.
“Buona
sera signorina.” disse in un inglese con forte accento. “Ha bisogno di
qualcosa?”
“Sono
le due di notte!” Questa volta il tono basso andò a farsi friggere. “Voglio
dormire!”
“Qu'at-elle dit?” chiese
il primo ragazzo.
“Elle
veut coucher.” rispose il secondo.
Mi
soppesarono entrambi con lo sguardo. Qualcosa non andava, me lo sentivo. Se
solo avessi studiato il francese a scuola invece che quello stupido spagnolo.
Il
cigolio di una porta fece sollevare lo sguardo ai due ragazzi che si diedero
una gomitata, drizzarono la schiena e la loro espressione divenne di totale
innocenza.
“Qu’est-ce
qui passe ici?” Un’imperiosa voce baritonale mi fece sobbalzare.
Mi
girai di scatto e mi trovai davanti al severo e prestante allenatore, con una
t-shirt bianca mooolto aderente, sui pettorali mooolto ben sviluppati e un paio
di pantaloncini che lasciavano scoperte le gambe robuste e muscolose, coperte
da una leggera peluria castana su cui il mio
occhio indugiò qualche secondo. Se non fossi stata così furiosa, avrei potuto
trovarlo…moolto interessante.
Gli
occhi stretti a fessura fecero una veloce ricognizione del mio corpo e poi si
fissarono sui ragazzi. L’ultimo arrivato cominciò a parlare un velocissimo
francese e io rimasi a fissare il bel signor Dumont cambiare espressione da
mediamente infastidita a decisamente incavolata.
Abbaiò
qualcosa in francese, dal tono doveva per forza essere un ordine, i ragazzi
rientrarono in camera e chiusero la porta.
Subito
dopo il prestante allenatore puntò i suoi laser azzurri su di me, le folte
sopracciglia aggrottate in modo molto inquietante.
“Cosa
crede di fare?” mi disse in un inglese scivolato, dalle vocali strette e dalle
bellissime erre arrotate che mi provocarono una strana reazione.
Mi
persi un attimo in quello sguardo così simile al cielo sopra quelle montagne. Avrebbero
potuto volarci un po’ delle ali che mi frullavano nello stomaco.
“Allora!”
ribadì l’uomo, impaziente
I
suoi modi così poco cortesi mi riscossero dalla trance da “occhi blu”. “Volevo
dormire.” risposi, tornando a inalberarmi. “I suoi ragazzi stanno facendo un
gran baccano: risate, grida, sbattevano cose contro il muro.”
“E
le sembra questo il modo di presentarsi in una camera piena di giovanotti?”
continuò lui, la sua mano fece una panoramica della mia persona.
Mi
guardai e mi resi conto di essere nella mia camicia da notte corta di seta e le
ciabattine, tacco e piume, comprate per un weekend con Norman.
“Ero
a letto e stavo cercando di dormire.” gli
risposi acida. “Non ho pensato a rivestirmi.”
“Non
faccia la furba.” Avvicinò il viso al mio, scandendo bene le parole. “Quello
non è cibo per i suoi denti.”
Cibo
per i miei denti? Cosa voleva dire? Non voleva mica insinuare…
“Non
vuole mica insinuare…”
La
risposta nei suoi occhi fu molto eloquente.
Quel
maleducato, zotico, fighissimo francese pensava che io avessi trovato una scusa
per sedurre dei ragazzini poco più che maggiorenni?
“Lei
è pazzo.” esclamai. “Volevo solo dormire. Nella MIA stanza, nel MIO letto, DA
SOLA!”
“Allora
ci vada nel SUO letto.” Mano su un fianco, indice puntato verso la stanza 123.
“Non si azzardi mai più a presentarsi davanti a una stanza di ventenni vestita
come una sgualdrina.”
“Non
sono vestita come una sgualdrina!” strillai. “Ero a letto. Questa è la mia
camicia da notte.”
Qualche
porta si socchiuse, le teste di alcuni degli altri ragazzi sbucarono dagli
spiragli così come quelle di alcuni clienti più anziani.
Perfetto,
proprio perfetto.
“Non
faccia l’innocentina. La prossima volta che ha qualcosa da dire, bussi alla mia
porta invece di cercare di adescare i miei giocatori.” Girò su se stesso e si
avviò verso la sua camera.
“Come
osa!” sbraitai ancora più forte,alla sua schiena. “Lei è un gran cafone, non
capisce niente.” continuai.
L’allenatore
varcò la soglia e mi sbatté la porta in faccia.
Mi
lasciai andare a una bella crisi di nervi. Battei i piedi per terra, strinsi i
pugni verso l’uscio e mi uscì un verso inarticolato di rabbia. Le risatine
degli spettatori mi fecero girare verso di loro con uno sguardo omicida.
Le
porte si richiusero di colpo.
Mi
voltai per tornarmene in camera ancora più fumante di quando mi ero alzata.
Entrai
sbattendo le ciabattine, rinfilai la tessera nell’alloggiamento per la luce e a
passo di marcia me ne tornai a letto.
Un
assoluto silenzio regnava nella camera accanto ma mi ci volle comunque un bel
po’ prima di addormentarmi.
Non
punterò la sveglia, mi ero detta subito prima di partire.
Purtroppo
al mio galletto interiore non gliene fregava niente che fossi in vacanza o che
avessi litigato con un bello zoticone come il signor Dumont alle due di notte.
I
miei occhi si spalancarono sulle travi del soffitto alle sette e non ci fu più
modo di riaddormentarsi.
Rimasi
un po’ sdraiata a rimuginare sulle ingiustizie della vita e così potei
assistere al risveglio in sordina della squadra.
Lo
sciacquone nel bagno, le porte chiuse, lo scricchiolio delle scarpe sul legno,
i borbottii sussurrati. Mi consolai con il fatto che non ero l’unica a navigare
fra lo stato di zombie e il bradipo a quell’ora del mattino.
La
loro partenza mi diede la spinta per alzarmi. Andai nel bagno a fare tutto ciò
che era in mio potere per svegliarmi prima del caffè e poi mi fermai davanti
allo specchio.
Ero
proprio sbattuta. Le occhiaie nere, i capelli stanchi e opachi, il viso un po’
gonfio, il colorito giallognolo. Ero venuta lì per riposarmi e questo era il
risultato.
Dopo
un’indispensabile tazza di caffè, una coppia di toast con il formaggio e una crêpe
con la marmellata, le mie facoltà mentali entrarono in modalità start.
La
prima decisione della giornata fu: evitare a tutti i costi la squadra e quell’insopportabile,
maleducato del loro allenatore.
Un
fallimento su tutta la linea.
Iniziai
con il prendere il mio e-reader e
cercare un posto appartato e tranquillo dove fermarmi. La mia escursione del
pomeriggio precedente mi aveva fatto scoprire un grande albero, con larghe
foglie verde scuro e grosse radici ritorte in modo da formare una sorta di
sedile. Era un po’ discosto dal sentiero, senza essere troppo lontano, e
sembrava proprio il posto ideale.
Presi
in prestito qualche cuscino dall’albergo e uscii per dirigermi verso il bosco.
Il sole non era ancora riuscito a scaldare l’aria fresca del mattino, così mi
allacciai anche la felpa.
Dopo
una rapida camminata di una decina di minuti, arrivai sotto la chioma folta
dell’albero e mi sedetti per terra. Sui rami si sentivano gli uccellini
chiamarsi fra loro e la leggera brezza faceva muovere le foglie in un lento
sussurro.
I
residui di rabbia della sera prima si dissolsero.
Accesi
il mio lettore, ovviamente su un bell’erotico, e m’immersi nella storia di
sconosciuti e aeroporti, scritta da una delle mie autrici preferite.
Ero
alle prese con una scena davvero bollente, quando dei rumori mi fecero
sollevare lo sguardo verso il sentiero. Un filo lucente penzolava davanti ai
miei occhi e attaccato a esso c’era un… RAGNO.
Il
mio grido acuto bucò le foglie sovrastanti. Io odiavo i ragni!
Saltai
su come se le radici fossero diventate delle molle e mi buttai verso il
sentiero poco distante sbattendo le mani sulla felpa. “Dio che schifo. Dio che
schifo!” strillai. Avrei potuto trovare momento migliore? No! Dovevo scegliere
l’esatto istante in cui il distaccamento dei
rugbisti arrivava di corsa.
Io
finii dritta addosso a uno di loro, beccandomi, tra l’altro, una gomitata in
una costola. Lui, montagna umana, quasi non se ne accorse. Mi afferrò alla vita
per impedirmi di finire a terra e mi sorrise.
“Scusi,
grazie.” dissi viola per l’imbarazzo, la mano sul punto dove il suo braccio
doveva avermi incrinato qualcosa.
“Ça
va?” mi chiese, guardando il mio viso sofferente.
Io
annuii, intuendo la domanda, mentre gli altri ci sorpassavano. Riconobbi i due
ragazzi della sera prima che si girarono e quello biondo mi fece persino
l’occhiolino.
L’allenatore
chiudeva il gruppo. “Allons, Marcel, vas-y!” Con uno scappellotto incitò il
ragazzo a riprendere la corsa. Il suo sguardo azzurro mi trafisse con milioni
di dardi acuminati.
“Non
l’ho fatto apposta!” gli gridai dietro e gli vidi scrollare le spalle.
Mi
fermai qualche secondo. Vederlo correre era davvero un bello spettacolo.
Elegante, sciolto, la falcata delle lunghe gambe e l’ondeggiare in sintonia
delle braccia vigorose. Che sfortuna, tanta magnificenza con così tanta
antipatia.
Recuperai
le mie cose e decisi di andare altrove. Ma la mia odissea non era ancora
finita.
Dopo
fu la volta del bar del paese.
Mi
ero fermata a bere un Kir, un
cocktail di cui avevo tanto sentito parlare, e avevo trovato un magnifico
posticino nella veranda posteriore con vista spettacolare sulle montagne
circostanti.
C’erano
anche alcuni giochi: due tavoli da ping pong, un calciobalilla e due
macchinette per videogiochi. Non ci
diedi molto peso.
E
commisi un errore.
Il
mio bicchiere era ormai a metà e il sapore del cassis mi aveva indotto a
rimuginare su Norman, sul nostro rapporto e le vere ragioni per cui era andato
a rotoli, quando una gran confusione alle mie spalle mi fece congelare con il
bicchiere mezzo sollevato.
Qualcuno
doveva proprio avercela con me.
Un
gruppo di ragazzi entrò nella veranda, senza prestarmi la minima attenzione. Quattro
di loro si sfidarono a calcetto a suon di frulli, colpi con le aste ed
esclamazioni. Altri iniziarono una sorta di ping pong semi acrobatico in cui
correvano intorno al tavolo mentre colpivano la pallina.
E
io dovetti dire addio al mio momento idilliaco.
Il
loro guardiano entrò per ultimo, si sedette a un tavolino un po’ distante e,
con mia somma gioia, non mi notò.
Volevo
centellinare il mio cocktail, il mio rapporto con l’alcol non era dei migliori,
così mi feci un po’ indietro, giusto per mimetizzarmi meglio con l’ambiente, e
rimasi a osservarlo.
Era
un peccato fosse così arrabbiato con me, era proprio un uomo attraente, anche
da dietro. Il busto usciva di un bel pezzo fuori dallo schienale della sedia e
la polo blu conteneva a fatica le ampie spalle e i dorsali da manuale del
perfetto culturista. Ma in quanto a carattere…
Sorseggiai
ancora un po’ il mio Kir quando la
mia fortuna girò di nuovo bandiera. Uno dei ragazzi, ancora uno di quelli della
camera, mi notò e mi fece un gran sorriso.
Il
suo allenatore seguì subito la direzione del suo sguardo e mi beccò in
flagrante con il bicchiere mezzo sollevato. Aggrottò le sopracciglia in quel
suo modo spaventoso e scostò la sedia come per alzarsi.
Non
voleva mica venire lì? Non ero pronta a un altro confronto.
Ingollai
il mio cocktail di colpo e l’attimo dopo stavo quasi correndo fuori dal bar,
inseguita da un “Mademoiselle, aspetti.”
Certo!
I demoni si aspettano sempre.
Speravo
di aver finito con i brutti incontri ma purtroppo la mia “buona” stella aveva
ancora qualcosa in serbo per me.
L’albergo
era dotato di una piscina, una delle ragioni per cui l’avevo scelto. Non era
un’olimpionica ma i suoi onesti venticinque metri per quattro corsie la
rendevano ben più che adatta per una bella nuotata in santa pace. Era coperta
da una sorta di veranda a vetri, utile per le giornate fredde, dotata di porte
scorrevoli che davano su un terrazzo con lettini e ombrelloni. Il posto ideale
dove rifugiarmi, mi dissi.
Che
ingenua!
Mi
ero sdraiata da una decina di minuti su uno dei lettini. Il calore del sole
mitigato dall’aria fresca, la quiete dei pomeriggi in montagna, un bicchiere di
Schweppes al limone per combattere la sete. Cosa c’era di meglio? Niente.
Chi
altri poteva pensare la stessa cosa?
La
bibita frizzante mi andò di traverso quando l’orda al gran completo della
squadra under 21, di non so quale cittadina, invase la struttura.
Mi
sedetti di colpo per non soffocare. “Non ci posso credere.” sussurrai tra me.
L’area
coperta cominciò a rimbombare delle loro grida, dei loro giochi e dei loro
scherzi. Palline volavano da una parte all’altra, grandi spruzzi si sollevavano
dall’acqua quando qualcuno vi si buttava o veniva spinto dentro, persino un
frisbee giallo roteava nell’aria, avanti e indietro.
Non
potevo rimanere. La confusione era ai massimi livelli e c’era sempre la
questione di quel cecchino dell’allenatore.
L’uscita,
però, era all’interno della veranda, sarei stata costretta a passare tra loro
per raggiungere la salvezza. Avevo altra scelta?
Mi
alzai dal lettino, strinsi il nodo del pareo intorno ai fianchi e mi avviai,
testa bassa e passo deciso, verso la veranda.
Avevo
quasi oltrepassato il punto critico quando, in slow motion, vidi una pallina di gomma gialla passarmi davanti in volo,
uno di quei marcantoni, pelle scura e cresta nera con i capelli rasati ai lati,
saltare per afferrarla e ricadere esattamente contro di me.
Essere
travolti da un Tir non doveva essere molto diverso.
Mi
ritrovai catapultata in acqua insieme al ragazzo che, molto più agile di me,
riuscì a evitare di sbattermi sul fondo. Mi afferrò in qualche modo alla vita e
mi riportò in superficie insieme a lui e metà piscina nello stomaco.
Tornai
a galla tossendo e sputando come si conviene a chi è quasi annegato.
“Excusez-moi, Madame. Je suis désolé. Pardon.”
Il giovane si stava scusando a profusione, o almeno il tono sembrava suggerire
così. Dopo un controllo generale, capii di essere tutta intera, solo un bel po’
spaventata. Per fortuna avevo lasciato e-reader
e telefono in camera e il pareo si sarebbe asciugato in fretta.
L’efficiente
allenatore arrivò subito dopo per constatare il danno.
Al
suo giocatore, ovviamente.
L’uomo
cominciò ad abbaiare in quella lingua, in genere così dolce, ma che lui usava
come una mitraglietta.
Quelle
erre arrotate avrebbero potuto ferire qualcuno.
Il
ragazzo si avvicinò, mise due mani sul bordo e si issò fuori dalla piscina in
un solo fluido movimento. L’allenatore continuò a rimproverarlo e lui rimase a
occhi bassi a prendersi la sua dose.
Quasi
mi dispiacque per il ragazzone. “E’ stato un incidente.” cercai di difenderlo.
La
furia nello sguardo che mi rivolse bastò a farmi desistere.
Meglio
dileguarsi.
Con
quattro bracciate raggiunsi la scaletta, salii fretta e mi diressi a passo
veloce verso l’uscita.
A
cena, il fato decise di avere ancora un altro conto in sospeso con me.
L’arrivo
di nuovi clienti aveva costretto i padroni a ridisporre la sala ed io, essendo
sola, ero stata spostata proprio in fondo alla tavolata dei giovani atleti. Le
mie proteste non erano servite a molto. In un inglese stentato mi avevano fatto
capire che era l’unico posto disponibile.
Mi
ritrovai di nuovo a ingollare il pasto, un’incandescente Soupe à l'Oignon, tenendo lo
sguardo fisso sul piatto.
Solo
alla fine, incrociai gli occhi gelidi di monsieur Dumont che strinse le labbra
e scosse la testa.
Fossi
stata un altro tipo di donna avrei potuto mettermi a discutere, ma a che pro?
Era la pace quella che cercavo, non duellare verbalmente con un emerito cafone
davanti a tutti gli ospiti.
Alla
fine della cena non rimasi neanche in giro per la hall, anzi, decisi che quella
giornata meritava di essere affogata in una bottiglia di Vin de Savoye.
Salii
in camera mia, buttai via le scarpe, recuperai un bicchiere dalla dotazione
della camera e portai il tutto fuori sul terrazzino.
Seduta
con i piedi sulla balaustra, circondata dal profumo dolce delle petunie,
guardai il cielo stellato, un sorso dopo l’altro, nutrendo il mio senso di
inadeguatezza con pensieri sempre più neri.
Ero
davvero un impostore? La mia vena di scrittrice si era del tutto esaurita?
Perché nessuno mi capiva?
Quando
raggiunsi il giusto grado di stordimento, mi alzai traballante dalla sedia e mi
diressi sul mio letto.
Ero
nelle condizioni ideali per appoggiare la testa sul cuscino e sprofondare in un
lungo sonno ristoratore, cosa che avvenne per almeno due ore. Poi, i miei
deliziosi vicini, decisero di dare il via a un incontro di lotta libera.
Mi
svegliai di soprassalto per il rumore di qualcosa di pesante che cadeva a terra,
poi lo scricchiolio dei mobili spostati, i grugniti dei contendenti e le voci
degli spettatori che li incitavano.
L’alcol
ancora girava nel mio corpo e mi diede coraggio. Scalciai via le coperte e misi
i piedi giù dal letto. Il mondo ondeggiò con tale forza da costringermi a
prendere qualche respiro prima di rischiare ad alzarmi.
Infilai
le mie pantofoline con le piume, indossai anche la vestaglia e con passo
deciso, se pur barcollante, marciai verso la porta, fuori dalla camera.
Mi
fermai davanti all’uscio accanto, il pugno alzato, pronta a picchiare sul
legno, quando un’idea repentina mi fece abbassare il braccio. Mi voltai e andai
verso la porta del famigerato allenatore.
Bussai
una volta, niente.
Una
seconda, ancora niente.
Una
terza…
Stavo
per bussare la quarta quando la porta si aprì di scatto e l’allenatore mi
comparve davanti, i capelli scompigliati dal sonno, l’espressione, ancora
innocua, di chi è stato appena buttato giù dal letto.
Quella
sera aveva deciso che la t-shirt era di troppo. Le mie nocche erano arrivate a
pochi millimetri da un perfetto uscio di carne, una doppia anta suddivisa in
listoni di puro muscolo, corredata di passatoia centrale di peluria che si
perdeva sotto l’elastico dei calzoncini.
Fui
colta da un attimo di sbandamento e la gola secca mi costrinse a deglutire con
forza.
Alzai
lo sguardo e proseguii lungo i pettorali perfetti con il loro bottoncino rosa
scuro al centro, le spalle larghe, il collo velato di barba, il mento volitivo,
gli zigomi alti e, quando finii il mio giro panoramico, rimasi surgelata dai
due laghi ghiacciati che mi fissavano.
“Cosa
vuole ancora?” Il tono sgarbato non riuscì a far sembrare meno sexy
quell’accento.
“I
suoi ragazzi mi hanno svegliata un’altra volta.” risposi con la stessa voce
brusca, decisa a ignorare l’effetto di tutto quel ben di Dio su di me. “Stanno
giocando ai piccoli demolitori là dentro.” Indicai la camera con il pollice.
Lui
uscì dalla stanza a piedi scalzi e, incurante del suo abbigliamento, o per l’assenza
di esso, sbatté i piedi sulla moquette fino alla camera.
Si
fermò davanti all’uscio e allungò un orecchio. Dopo quattro secondi in cui
invidiai quei calzoncini così ben stretti attorno al suo lato B, si voltò verso
di me, in perfetta posa da asso di coppe. “I miei ragazzi sono silenziosi,
Madame. La prego di smetterla di mettersi in mostra. Sono troppo giovani e
siamo qui per allenarci.”
“Io
non mi sto mettendo in mostra.” Mi misi nella sua identica posizione. “Siete
voi che mi perseguitate. Io voglio solo stare tranquilla. Ho bisogno di pace,
di dormire.”
“E
allora vada in camera e faccia dei bei sogni.” rispose lui, ritornando verso la
sua porta.
“Non
ci riesco!” Alzai il tono della voce. “Siete dappertutto e fate sempre un sacco
di confusione. Devo riposare, devo concentrarmi.” Mi odiai quando la mia voce
si ruppe in un piagnucolio.
Lui
si fermò a pochi centimetri e rimase a fissarmi in silenzio.
La
mia bocca, invece, non ne volle sapere di rimanere chiusa. “Non riesco a
pensare, non riesco a scrivere. Il mio agente mi mollerà, il mio editore mi
citerà in giudizio, Quentin non avrà mai la sua storia e io sarò rovinata.
Rovinata!” Misi le mani davanti agli occhi e le cataratte si aprirono con
lunghi e intensi singhiozzi.
Attraverso
le dita, vidi i suoi piedi nudi avvicinarsi e un braccio mi cinse le spalle.
“Madame, si calmi.” quasi preoccupato.
Appoggiai
le mani che coprivano il viso al suo torace e continuai a piangere.
“Non
faccia così.” disse piano. Poi mi attirò nella sua stanza, chiuse la porta con
un piede e continuò a farmi retrocedere, fino a mettermi seduta su una
poltroncina.
Ci
sono diversi tipi di ubriacatura: chi la prende violenta, chi non riesce a
smettere di ridere e chi piange come un bambino.
Io
non potevo che essere dell’ultima categoria, la più imbarazzante, la più
stupida.
Avvertii
a malapena i suoi movimenti nella stanza mentre sfogavo la mia tensione,
frustrazione, rabbia, paura con un fiume
e mezzo di lacrime.
Non
so quanto tempo passò. A un certo punto avvertii una mano e dei piccoli
movimenti circolari sulla spalla.
Sollevai
il viso e lui mi porse un grande fazzoletto maschile che profumava di
detersivo. “Prenda.”
Un
sonoro “tloc” lo fece girare. Si avvicinò a un tavolino, staccò il bollitore
dalla base, aprì una bustina e ne versò il contenuto dentro una tazza, seguito
dall’acqua bollente.
Un
intenso aroma di camomilla si sparse nell’aria.
Mescolò
il liquido e poi me lo portò, tenendola per il manico. “Solubile.” Me la porse.
“Quello che ci vuole per calmarsi un po’.” Poi fece l’errore di sorridermi.
Non
mi aveva mai sorriso.
Rimasi
abbagliata da quella visione, dimenticando perché ero lì e lo spettacolo che avevo
appena dato di me stessa.
Spinse
la tazza fin sotto il mio naso e io mi riscosse dal mio incanto. La presi con
le mani ancora tremanti e ne bevetti un sorso.
Il
calore scacciò un po’ degli effetti dell’alcol e la mia figuraccia mi apparve
in tutta la sua mostruosità. Fantastico!
Dopo
essere passata per una seduttrice di ragazzini, ero riuscita ad apparire come
un’ubriacona piagnucolosa. Ben fatto Margaret, mi dissi.
“Mi
scusi. Io…” sussurrai, vergognandomi da morire. “Grazie.” Affondai il naso
nella tazza.
Lui
fece un gesto con la mano per minimizzare la cosa, si sedette sull’altra
poltroncina e si lasciò andare a braccia aperte contro lo schienale, lo sguardo
intenso su di me. Sembrava lo facesse apposta a sbattermi in faccia tutta la
sua maschile prestanza.
“Mi
sembra di capire che è una scrittrice.” Disse, questa volta in tono gentile.
“Sì.”
annuii e avvicinai ancora il bordo alla bocca. Avrei dovuto aggiungere “forse”
ma la parola mi morì in gola davanti a un altro dei suoi sorrisi.
“E
chi è Quentìn?”
“Il
capo della Cobra Security.”
“Cobra
Security? Qu’est que c’est?”
“Un’agenzia
di guardie del corpo… un po’ speciali.” Intuendo, dal tono interrogativo, cosa
mi avesse chiesto.
“Lei
ha bisogno di una guardia del corpo?” Le sopracciglia folte scattarono in alto.
“Allora è molto famosa.”
Che
scema! I personaggi giravano sempre nella mia testa e io ne parlavo come
persone vere.
“Non
è la mia guardia del corpo. È il personaggio della serie che sto scrivendo.”
“Aah!”
Lui annuì. “Quindi questo Quentìn non esiste.”
“Solo
nella mia testa. Ma nell’ultimo mese è sparito. Puff! La sua storia svanita.”
Mi si incrinò la voce. L’alcol non mi aveva ancora mollato.
“Che
cosa è successo in questo mese?”
“Niente
di particolare, a parte…” Mi ritrovai a raccontare tutto a un perfetto
sconosciuto, lo stesso che poco prima mi aveva accusato di mettermi in mostra
con dei ventenni.
L’ultimo
mese in cui Norman se n’era andato, il mio agente aveva incominciato a
pressarmi perché scrivessi la mia storia, l’editore mi aveva chiamato per i
primi capitoli, mia madre mi aveva tormentato perché non ero più con Norman e
il mio gatto era scappato da casa.
“Questo
Norman era geloso?” L’uomo intervenne solo alla fine del mio racconto.
“No!
Lui era troppo bravo. Mi ha detto che pensavo troppo alla mia carriera e non lo
amavo abbastanza.”
“Geloso,
senza dubbio.” affermò lui. “Cosa intende: non riesco a scrivere?”
“Mi
metto davanti alla pagina bianca e il mio cervello si svuota.” Girai un po’ il
liquido nella tazza per far sciogliere qualche granulo rimasto sul fondo e
bevetti l’ultimo sorso. “Di solito ci sono delle immagini nella mia testa. Ho
la scena davanti, sento le voci dei protagonisti, avverto gli odori, guardo
scorrere gli eventi, poi scrivo.” Sospirai a fondo. “In questo momento non c’è
nulla, a parte Norman e gli errori commessi con lui.”
“E
i suoi sbagli?”
Io
sollevai le spalle. “Non so.” dissi piano.
Lui
appoggiò il mento su due dita, il gomito sul bracciolo, e mi fissò qualche
secondo. “Quando è stata l’ultima volta che ha pensato davvero a se stessa?”
Che
strana domanda. “Ci penso sempre.”
Lui
scosse piano la testa. “Io vedo una bella donna davanti a me che ha smesso di
volersi bene. Si è convinta di non essere più “amabile” e si è lasciata
andare.”
Lo
guardai sconcertata. Chi era, Sigmund Freud?
Dovette
capire al volo perché sorrise indulgente. “Non potrei essere un buon allenatore
senza capire la base della psicologia umana e lei, ma chère mademoiselle,
si è arresa e la mente l’ha seguita.” Si allungò in avanti, i gomiti sulle
ginocchia. “Conosce il latino? C’è una frase che noi sportivi amiamo molto mens sana in corpore sano. Mia cara, lei
deve ritrovare la sanità del corpo per guarire la testa.”
Mi
era capitato anche l’allenatore filosofo.
Il
mio scetticismo era talmente palese che l’uomo rise. “Vedo che non mi crede.”
disse. “Vuole fare una scommessa?”
“Non
è una cosa su cui scherzare.” risposi, ora infastidita.
“Sono
serissimo. Preferisce rimuginare tutto il tempo e nascondersi nel bosco per
spiare i miei ragazzi allenarsi?”
“Io
non mi sono nascosta nel bosco.” mi alterai. “Siete voi che spuntate
dappertutto.”
“Le
è servito a qualcosa stare a pensare?”
Fui
costretta a scuotere la testa. Cosa avevo ottenuto in quella giornata? Un bel
niente. Anzi, da sola ero riuscita a fare pensieri ancora più neri.
“Proviamo
come dico io. Da domani, lei si allenerà con noi.”
“Ma
è matto!” Saltai sulla poltroncina. “Non ce la faccio.”
“Non
la farò correre con i tronchi sulla schiena o allenarsi a fare la mischia” La
faccia di chi pensava fossi un po’ stupida. “ Però il gruppo aiuta, sostiene,
carica.” Strinse il pugno per enfatizzare il concetto. “Se, alla fine della
settimana, non ha ottenuto risultati anche sulla sua mente, le darò cento
euro.”
“E
in caso contrario?” sospettosa.
“La
dedica nel libro di questo Quentìn.”
Rimasi
a fissare gli occhi azzurri decisi, le sopracciglia distese, il vago sorriso e
pensai fosse davvero un bel tipo. Ma poi tornai sul soggetto in questione.
Cosa
avevo da perdere? Volevo riposarmi ma da cosa? Più stavo sola a non far niente,
più mi flagellavo sul rapporto con Norman. Perché non provare?
“Affare
fatto?” L’allenatore allungò la mano con un sorriso di vittoria.
A
leggere le espressioni era davvero bravo.
“Affare
fatto.” risposi. La strinsi un po’ titubante.
“Non
so ancora il suo nome.” disse.
“Margaret.”
“Moi, je suis Étienne.” Si alzò dandomi
un’altra visione di quel torace perfettamente scolpito. Accidenti a lui, era
davvero un pezzo d’uomo. “Bien, Marguerite. Adesso, a letto.” Mi fece tirare su
dalla poltroncina. “Domattina sveglia alle sei, colazione e poi a correre nel
bosco.” aggiunse mentre andavamo alla porta.
Avrei
voluto correggerlo sul mio nome ma la mia attenzione fu catturata
dall’affermazione successiva. “Eh!” esclamai inorridita. “Alle sei?”
“Le
prime ore del mattino sono le migliori.”
“Ma
l’altra mattina non siete passati alle sei.”
“Era
il secondo giro.” rispose con un sorrisetto.
“Ma
sono in vacanza.” tentai ancora una protesta.
“Abbiamo
un patto.” Non lo avrei smosso neanche di un millimetro.
Il
mio sospiro fece fremere le tendine alla finestra e risposi un “Ok.” davvero
riluttante. “Domattina alle sei.” aggiunsi.
Uscii
dalla camera dell’allenatore e mi avviai a passo strascicato alla mia camera.
Forse mi ero lasciata convincere troppo in fretta, forse non era la cosa giusta
da fare, forse dovevo solo stare ferma a guardare il soffitto, forse…
Mi
girai con la bocca aperta come per replicare.
Lui
era ancora sulla porta, con tutto quello splendore in bella vista, e mi
sorrise. “Alle sei.” ripeté.
E
io, completamente ipnotizzata da quel torace degno della copertina di uno dei
miei romanzi, non potei che annuire.
Lui
rientrò in camera ed io feci lo stesso.
Me
ne sarei pentita! Già lo sapevo.
Toc, toc.
“Mmm.”
mugugnai, senza svegliarmi.
Toc, toc.
“Mmm,
che c’è.” Sollevai la testa dolorante e aprii un occhio. Era ancora buio, chi
era a quell’ora della notte?
Bum,
bum. “Marguerite, sono le sei.” La voce dell’allenatore…
La
serata mi tornò in mente tutta in una volta, insieme alla promessa fatta a Étienne.
Gran bel nome, tra parentesi.
Con
un certo sforzo mi misi seduta e il dolore alla testa mi fece stringere gli
occhi. La scusa buona per ritornare a letto.
Bum,
bum. Più forte. “Va tutto bene?” La voce quasi preoccupata.
Mi
trascinai verso la porta e aprì uno spiraglio. “Buongiorno.” gracchiai. “Non me
la sento. Ho troppo mal di testa.”
Lui
era spettacolare. Maglietta seconda-pelle in lycra sopra quei muscoli
d’acciaio, pantaloncini aderenti sui fianchi da corridore e le gambe imponenti
pronte allo scatto. Mi sorrise. “Nessuna scusa, Marguerite. Vai a farti una
doccia. Le aspirine ti aspettano di fianco alla spremuta.”
“Ma…
davvero…”
“O
ci vai da sola o ti ci porto io sotto la doccia.” affermò.
Lo
fissai indecisa ma la risposta era scritta nei suoi occhi: lo avrebbe fatto.
“Ti
aspetto in sala da pranzo. Se entro dieci minuti non scendi, ti vengo a
prendere.” Si girò e si allontanò verso le scale.
Rimasi
qualche secondo ad ammirarlo fino a quando non si voltò di nuovo. “Sotto la
doccia. Vite!” Poi sparì dietro l’angolo.
Richiusi
piano la porta.
Étienne
Dumont sembrava proprio deciso. E le mie possibilità di fuga? Pari a zero. Chi
poteva combattere contro quel forzuto ammasso di muscoli?
Mi
trascinai a passo strascicato verso il bagno.
Dopo
una doccia, il mondo sembrava meno brutto. Mi infilai una maglietta e un paio
di fuseaux, messi in valigia per ogni evenienza, e scesi a far colazione.
Una
seggiola era stata aggiunta alla tavolata dei ragazzi, già tutti seduti.
Regnava un raro silenzio nel gruppo. All’apparenza neanche quei super Duracell
amavano le levatacce.
“Marguerite,
vieni qui.” Étienne indicò il posto. “Una buona colazione e poi a correre.”
Poi
si rivolse alla tavolata. “Aujourd'hui,
Mademoiselle Marguerite s’entrainerait avec nous. Soyez-sage.”
Troppo
stordita per lasciarmi impressionare dai loro sguardi analitici, mi lasciai
cadere sulla sedia.
I
ragazzi risposero con gesti della mano, “Bienvenue” ad alta voce e cenni con la testa.
Due
pastiglie bianche riposavano di fianco a un bicchierone di succo d’arancia.
Sulla tavola, invece di croissant o biscotti al burro, c’erano baguette con la
marmellata, uova e prosciutto e spremute di diversi tipi.
“Niente
caffè?” chiesi lamentosa.
L’allenatore
mi guardò severo. “Solo oggi perché ieri sera hai bevuto trop de vin.”
Un
santo me ne portò una tazza e con quella, le aspirine e un po’ di colazione
nello stomaco, mi sembrò di tornare quasi normale.
“Finite
di prepararvi. Tra dieci minuti fuori dall’albergo.”
Tornai
in camera, mi lavai i denti e mi guardai allo specchio.
Dovevo
ammetterlo: negli ultimi mesi mi ero lasciata un po’ andare. Avevo preso su
qualche chilo di troppo, non mi ero più curata dei miei capelli, adesso
disordinati e senza forma. La palestra era diventata un ricordo, ossessionata
dal pensiero di scrivere l’ultimo capitolo o trovare la verità su Quentin.
Avevo mangiato solo schifezze a tutte le ore, seduta davanti a quell’accidente di
schermo bianco o a piagnucolare sulla perdita di Norman.
Il
bell’allenatore aveva ragione. Ma ne avevo la forza?
Dopo
un’ultima occhiata, uscii dal bagno per
raggiungere il gruppo.
Mi
trovai con gli altri davanti all’albergo. Étienne fece un lungo discorso in
francese, di cui seguii solo il suono armonioso e il tono autoritario, poi si
rivolse a me.
“Prenderemo
il sentiero del bosco, dove ti sei scontrata con Marcel.” Qualcuno ridacchiò e
altri si diedero di gomito per sapere cosa stava dicendo.
Io
arrossii “Non è stata colpa mia.”
Étienne
fece un gesto come per dimenticare la cosa. “I miei ragazzi devono fare cinque
giri. Tu ne potrai fare solo due.”
Annuii
rassegnata.
“Allons,
vite, on y va.” disse rivolto a tutti. Il plotone partì con me al centro.
Cercai di tenere il passo con quelle lunghe gambe poderose ma fu assolutamente
inutile. Però non mi arresi e poco dopo mi ritrovai sul sentiero. A quell’ora
del mattino l’aria era piuttosto frizzante e gli uccellini cantavano a squarciagola in attesa dell’uscita del sole da dietro le montagne, facendomi
compagnia insieme al profumo intenso della terra, le foglie decomposte, le erbe
pungenti del bosco.
Batticuore
e fiato corto non tardarono molto. Rallentai a metà del primo giro, decisa ad arrendermi.
“Non ti fermare.” Étienne mi doppiò. “Piuttosto continua una camminata veloce,
ma non fermarti.”
Mi
impegnai per rispondere alla sua richiesta/ordine.
Il
fiato si fece ancora più grosso, il cuore sembrò scoppiare ma, solo per
orgoglio, continuai imperterrita ad andare.
Uno
dei ragazzi mi doppiò e mi fece un segno con il pollice alto, un altro mi diede
una pacca sulla schiena.
“Vas-y,
cougar!” Un altro mi fece l’occhiolino. Stupidaggini che mi spronarono a non
mollare.
Riuscii
a prendere il ritmo giusto ma alla fine dei due giri ero pronta per tornare a
letto.
Invece
mi radunai con gli altri, i polmoni ancora in fiamme, e aspettai nuove
istruzioni.
Étienne
mi diede una pacca su una spalla. “Très bien. Bravissima. Adesso andiamo al
campo.”
A
fare cosa? Mi chiesi. Lo imparai anche troppo presto.
Percorremmo
parte del paesino a piedi, scendemmo giù per una stradina laterale e ci
ritrovammo in un’area adibita a giochi sportivi. C’era un grande campo da
calcio circondato da un anello in terra battuta, dove erano sistemati delle
attrezzature: un percorso con gomme da camion, una serie di ostacoli alti forse
una trentina di centimetri, delle barre molto basse, una piramide in legno e
una sbarra.
Étienne
dovette spiegarmi due volte cosa dovevo fare.
Si
doveva partire di corsa e continuare così tra una postazione e l’altra.
Prima
la serie di pneumatici, saltelli con un piede dentro ognuno di loro, poi la fila
di ostacoli e gli addominali, sdraiata a terra con i piedi sotto le barre più
basse. Étienne Dumont, credendo di essere nei Navy SEALs, aveva aggiunto l’arrampicata sulla piramide di legno,
una serie di burpees, un complicato
esercizio di rannicchiamenti, estensioni e flessioni, e una manciata di
sollevamenti con le mani appese alla sbarra. Alla fine si tornava alla partenza
e via, un altro giro di giostra.
“Tu
devi essere completamente matto.” gli dissi a occhi sbarrati, dopo la seconda
spiegazione. “Non ce la farò mai.”
“Vous
dites de bêtises! Farai meno ripetizioni ma puoi farcela.”
Poi
smise di prestarmi attenzione.
Un
lungo fischio. “Marcel, Armand, Benoit, vous serez les prémiers.”
I
ragazzoni si misero in fila e li guardai iniziare il percorso con un senso di
vuoto allo stomaco.
“Alors!
Sto aspettando.” Étienne mi fissava con i pugni sui fianchi, implacabile.
Lo
guardai per qualche secondo prima di decidermi. Avevo scommesso? Avrei provato.
Partii
di corsa e superai le gomme con una certa facilità, poi gli ostacoli e gli
addominali, dove il nono e il decimo mi fecero quasi arrendere. La piramide
aveva qualche appiglio e una rete dall’altro lato per scendere, ma non fu per
niente facile. Ai burpees, che non avevo capito, mi fermai a guardare i ragazzi
e li imitai con molta fatica e, al terzo sollevamento alla sbarra avrei pianto.
“Ancora
due.” sentii urlare da lontano ed ero certa fosse per me.
Dopo
aver ubbidito, rischiando di staccarmi entrambi i polsi, tornai alla partenza.
“Pas
mal.” Il suo aperto sorriso compensò in parte il fiatone e il dolore
generalizzato. “Al secondo giro voglio sette sollevamenti all’asta, quindici
addominali e sette burpees.”
“Tiranno!”
risposi, ma la sua approvazione mi aveva dato nuova energia.
Completai
il percorso con i numeri richiesti, anche se, per i sollevamenti, qualcuno mi
prese per la vita e mi aiutò a fare l’ultimo.
“Encore!”
Il sadico allenatore ordinò e dopo qualche minuto di riposo, ripartii.
Alla
piramide ero prosciugata, non riuscivo neanche a sollevare la gamba per
spingerla sul successivo appiglio. Una benedetta mano sotto il sedere m spinse
verso l’alto.
“Armand.”
Si sentì urlare dal fondo. “Gardes tes mains!”
Lui
mi fece l’occhiolino e si buttò dall’altra parte.
Alla
fine del percorso avevo perso tre chili di sudore, tre mesi di vita, tre pezzi
di unghia e tre lobi polmonari. Mi fermai con le braccia sulle cosce, piegata
in due a tentare di respirare.
“Sei
stata vraiment douée.” mi disse.
Sollevai
la testa di traverso e lo sorpresi a fissare qualcosa dentro la mia scollatura
con un sorriso d’interesse. Piantai una mano sulla maglia per nascondere la vista.
“Riposo
adesso.” Non sembrò preoccupato di essere stato colto in flagrante. “Doccia e
poi quello che vuoi. Dopo pranzo andremo a fare un'altra corsetta e nuoto in
piscina.”
“Sei
un despota.” gli dissi.
“Se
vuoi essere il migliore, non puoi essere pigro.”
Quando
il respiro tornò a un ritmo normale, m’incamminai verso l’albergo.
Ero
a pezzi ma, mi resi conto, anche contenta, leggera, come se tutto il sudore
avesse portato via anche un po’ delle “schifezze” che m’inquinavano il
cervello.
Arrivata
all’hotel, mi sedetti su uno sdraio nella veranda esterna a godermi l’aria
ancora fresca. Osservai un uccellino posarsi su un ramo e svolazzare di qua e
di là per catturare mosche da portare al nido, odorai il profumo delle rose
arrampicate su per un arco di ferro all’ingresso.
Quentin
era lì in mezzo, la sua stazza da ex marine stagliata contro il paesaggio, la
spazzola di capelli corti, il naso rotto, il mento squadrato con
quell’intrigante fossetta, spruzzato di barba non fatta. Mi fissò severo per
qualche secondo, poi sorrise e mi fece l’occhiolino.
Mi
tirai su di scatto dalla sedia e la visione svanì.
Accidenti!
Era lui. Voleva dirmi qualcosa? Ero sulla strada giusta?
FINE PRIMA PARTE
*****
CHI E' L'AUTRICE
MARIA CRISTINA ROBB è nata a Bologna e vive a Castel Maggiore, con la sua famiglia: un marito e una figlia. Fa l’infermiera da oltre vent'anni nel dipartimento di chirurgia di un grosso ospedale universitario in cui si occupa anche di ricerca. Si definisce una lettrice compulsiva e ha sempre desiderato poter scrivere qualcosa che desse agli altri le stesse emozioni che prova lei quando tiene un libro tra le mani. Per questo ha frequentato alcuni corsi di Scrittura Creativa e Collettiva che le hanno fornito validi elementi per affinare il suo stile. Il suo debutto è stato il concorso sul blog “La Mia Biblioteca Romantica”, dove il suo racconto “Mr. Talbot” è risultato vincitore di una rassegna di Romance Erotico. Da allora ha continuato a scrivere, pubblicare su blog e partecipare a contest dove è risultata tra i finalisti in diverse occasioni. Di recente, con uno pseudonimo ha iniziato a pubblicare racconti appassionanti ed erotici per una nota casa editrice.
*****
TI E' PIACIUTA LA PRIMA PARTE DI COACH DEL MIO CUORE?
APPUNTAMENTO A VENERDI' 11/8 PER LA SECONDA E ULTIMA PARTE.
NON PERDETELA!
NON PERDETELA!
Forza, dite qualcosa!
RispondiEliminaBelloooo. Mi piace questo racconto. Aspetto il seguito. Floriana
RispondiEliminaE' davvero bellissimo!!! Non vedo l'ora di leggere il seguito!
RispondiEliminaChe carino! Non vedo l'ora di leggere il seguito. È bellissima anche la copertina!
RispondiEliminabello bello bello aspetto venerdi con impazienza
RispondiEliminaGrazie mille. Mi sentivo così sola :)
RispondiEliminaLa copertina é tutta opera della bravissima Francy!!!
RispondiEliminaMolto bello, complimenti! =)
RispondiEliminaLo lessi qualche giorno fa ma dimenticai di commentare o.O
RispondiEliminaComplimenti all'autrice, scrittura coinvolgente,lui ha quell'atteggiamento che stuzzica la curiosità in una donna, perché nn lusinga e non è un tipo banale!