Il Racconto di San Valentino: AD ALTO RISCHIO di Laura Gay


Berlino, febbraio 1943

Kristen Böhm si avviò verso la scala mobile della U-Bahn, accelerando il passo. Era in ritardo. Dopo il lavoro aveva perso tempo a parlare con quella petulante della sua principale e ora avrebbe dovuto affrontarne le conseguenze: Anja non sarebbe stata affatto contenta.
     Anja era sua cognata. Kristen viveva da lei, da quando era rimasta vedova. Purtroppo non si sopportavano. Avrebbe voluto trovare un altro posto dove stare, ma gli affitti erano troppo alti e non poteva permetterselo.
     Frugò nella borsa alla ricerca del biglietto e qualcuno la spinse. A quell’ora della sera la metropolitana era sempre affollata. I berlinesi facevano ritorno a casa, dopo la consueta giornata di lavoro; i visi pallidi e stanchi di chi non vede l’ora di rinchiudersi fra le mura domestiche, per consumare un pasto caldo e fingere che la guerra non esista.
     – Chiedo scusa – disse una voce a lei sconosciuta. Era dell’uomo che l’aveva spinta. Si voltò con aria distratta per ritrovarsi a fissare un paio di occhi scuri, incredibilmente penetranti.
     Stava per replicare, quando lui si fece più vicino per accostare le labbra al suo orecchio. – La prego, faccia finta di essere una mia amica. La sto accompagnando a casa.
     Kristen rabbrividì, ma non per il freddo di quella giornata d’inverno. Poteva sentire il fiato dello sconosciuto sfiorarle la guancia. Sapeva di tabacco e menta, un aroma che a lei parve delizioso.    
     – Lei è pazzo. Nemmeno conosco il suo nome…
     – Se glielo chiedono, dica che mi chiamo Mark Hoffmann.
     Il respiro le si fermò in gola. – È un nome falso?
     In quei tempi bisognava fare molta attenzione a chi si concedeva la propria amicizia. Dichiarare il falso era pericoloso. Estremamente pericoloso. Lo sconosciuto la afferrò per il gomito, sospingendola verso il binario dove si era appena fermata la metropolitana. Le porte si aprirono.
     – La prego… - tentò di protestare Kristen, ma si ritrovò schiacciata all’interno del vagone. La stretta dell’uomo era salda contro il suo braccio, come se avesse avuto dita d’acciaio.
     – Shh… non dica una parola – sussurrò lui contro il suo orecchio. – È questione di vita o di morte.
     Kristen deglutì. Il cuore le batteva in petto come un tamburo, lo avvertiva in gola e persino nelle orecchie. Tentò di calmarsi e riacquistare la propria lucidità, ma proprio quando fece per aprire bocca lo sconosciuto l’attirò a sé e coprì le sue labbra con le proprie. Fu come un elettroshock. Le prese il labbro inferiore fra i denti, accarezzandolo con la punta della lingua. Da quanto tempo qualcuno non la baciava più in quel modo? Kristen si sentì le ginocchia molli, mentre la temperatura si alzava considerevolmente. Aprì la bocca in un muto invito e lui la invase con la sua lingua, calda e sensuale. Un brivido di piacere le percorse tutto il corpo. Si aggrappò al suo collo, stringendosi a lui come per appagare un bisogno primordiale, il sangue che le scorreva più veloce nelle vene.
     Infine lui si staccò. Ebbe la sensazione di essere privata di qualcosa di prezioso, irrinunciabile, e si ritrovò a protestare con un mugolio. Lui le lanciò un’occhiata intensa. Aveva intuito quello che le passava per la testa?
     Dio mio, che vergogna!
     Si era comportata come una cagna in calore. Cosa le era preso?
     – Io… – esclamò con un filo di voce, ma lo sconosciuto si era già allontanato. La metropolitana si fermò alla Anhalter Bahnhof e lui scese, senza voltarsi a guardarla neppure un istante. In un attimo scomparve alla sua vista, quasi fosse stato un sogno. Un incredibile ed eccitante sogno.

* * * * * * * * * *

Jacob fissò il convoglio che si allontanava con un rumore assordante. Doveva essere impazzito. Era pervaso da una smania febbrile che non aveva mai provato in vita sua. La donna della metropolitana era bellissima. Fresca e succosa come un frutto maturo, tutto da mordere. Appena aveva posato le labbra sulle sue lo aveva eccitato all’istante. Erano secoli che non si sentiva così attratto da una donna. E pensare che non l’aveva neppure vista nuda! Al contrario, era vestita di tutto punto, con una gonna al ginocchio, una camicetta accollata e una giacca pesante di lana. I capelli biondi erano stati raccolti sulla sommità del capo, ma qualche ricciolo le era sfuggito alla pettinatura, ricadendole lungo il collo.
     Sospirò. Invece di concentrarsi sulla sua missione e sforzarsi di mantenersi lucido e vigile, si stava abbandonando a un’irrealizzabile fantasia erotica, in cui quella donna terribilmente sensuale si sbottonava la camicia, mettendo a nudo la sua pelle serica e invitante.
     Scrollò il capo, nel tentativo di schiarirsi le idee. Se voleva restare vivo doveva ritrovare il proprio autocontrollo. Subito. Per fortuna era riuscito a nascondere ciò di cui gli premeva liberarsi. Se ne sarebbe riappropriato in un secondo momento.
     Uscendo dai sotterranei della U-Bahn, attraversò la strada per intrufolarsi in un locale. L’interno odorava di caffè e fumo di pipa. Era piccolo e con le finestre piombate, dalle quali si sentiva lo sferragliare incessante dei treni della metropolitana.
     Si sedette a un tavolo e ordinò una cioccolata calda, lo sguardo sempre attento, rivolto all’entrata. Sperò che la persona con cui aveva appuntamento si facesse viva al più presto. Ogni minuto che trascorreva in quell’orribile città, per le strade polverose e percorse quasi esclusivamente da donne, per lui il pericolo aumentava. Considerevolemente.
     La porta si aprì e una raffica di vento lo investì, improvvisa. Alzò lo sguardo sull’uomo avvolto in un cappotto grigio e la sigaretta in bocca, che era entrato in quell’istante.
     – Mi scusi, ha da accendere? – chiese il nuovo arrivato, avvicinatosi al suo tavolo.
     Jacob infilò la mano nella tasca della giacca. Tirò fuori un accendino e glielo porse, senza staccare gli occhi dai suoi. L’uomo si accese la sigaretta con una lentezza esasperante e finalmente ricambiò lo sguardo. – Posso farle compagnia?
     Annuì, ficcandosi nuovamente l’accendino in tasca e indicandogli la sedia vuota, accanto alla propria. Lo osservò prendere posto accanto a lui e aspirare una boccata di fumo.
     – Ho trovato quello che mi ha chiesto – disse il suo contatto, le labbra tese in una linea dura.
     Gli occhi di Jacob si fecero più attenti. – Quando potrò averlo?
     – Ha con sé i soldi?
     – Certamente. Lei mi dica l’ora e il luogo dello scambio.
     L’uomo lo studiò per un istante. – Fra tre giorni, al caffé di Savignyplatz, a mezzogiorno. Sia puntuale.
     Jacob si rese conto di sudare freddo. – Ci sarò.
     Avrebbe dovuto recuperare i diamanti che aveva infilato nella tasca della donna, mentre la baciava. Ma quello era il problema minore.

* * * * * * * * * *

Kristen pagò i tre marchi e mezzo per il biglietto del cinema ed entrò nella sala semivuota. Era domenica pomeriggio e lei era uscita di casa per non dover sopportare le continue lamentele di Anja. Il giorno prima le aveva fatto un interrogatorio, quando l’aveva vista arrivare in ritardo e con le labbra gonfie per il bacio di quello sconosciuto. Probabilmente sospettava che avesse un amante.
     E anche se fosse stato vero? Non aveva forse il diritto di rifarsi una vita, dopo che suo marito l’aveva lasciata sola? Hans era morto in guerra, servendo con onore il proprio Paese. Ma lei era ancora viva. Viva!
     Lacrime pungenti le offuscarono la vista e si sforzò di ricacciarle indietro. Le persone che piangevano non erano aprezzate. Bisognava sorridere, mostrarsi allegri e fieri di essere tedeschi. E lei in particolare avrebbe dovuto sentirsi orgogliosa del sacrificio del proprio marito, al fronte. In realtà si sentiva sola. Terribilmente sola.
     Con un sospiro si lasciò cadere su una poltroncina nell’ultima fila. La sala puzzava di muffa e si pativa un freddo atroce, a causa del pessimo riscaldamento. In città c’era il razionamento: le scorte di carbone erano quasi finite, il cibo scarseggiava e le conseguenze di un altro anno di guerra si facevano sentire, sebbene fosse vietato anche solo parlarne. A quel pensiero Kristen si sentì soffocare.
     Le luci si spensero all’improvviso e il sipario si aprì. Lei si tolse la sciarpa che le avvolgeva il collo, nonostante lì dentro si congelasse. Infine le immagini in bianco e nero del cinegiornale irruppero sullo schermo, mostrando schiere di giovani soldati biondi nelle loro divise, che marciavano imbracciando un fucile. Oppure intere truppe che saltavano in aria per le esplosioni o ancora un carro armato che si schiantava contro un muro.
     Chissà com’era morto Hans? Se lo era chiesto più volte. A lei non era stato detto nulla, si erano limitati a comunicarle il suo decesso senza aggiungere alcun dettaglio. Non sapeva se era stato colpito da una granata, se era morto sul colpo o dopo una terribile agonia. Aveva sofferto? E soprattutto: come era potuto accadere? La radio continuava a parlare della superiorità della Wehrmacht, eppure trecentomila soldati tedeschi erano morti o erano stati fatti prigionieri.
     – Buongiorno Frau Böhm – mormorò una voce inconfondibile, al suo fianco. Era l’uomo della metropolitana, che aveva preso posto accanto a lei.
     Kristen trasalì. – Come sa il mio nome?
     – Ho fatto delle ricerche – rispose lui, con una voce profonda e terribilmente sexy. – Dovevo rintracciarla. Lei ha qualcosa che mi appartiene.
     Kristen si agitò sulla poltroncina. Lanciò una breve occhiata alle persone nelle altre file, per accertarsi che non li stessero ascoltando. Ma erano tutti concentrati sulle immagini che scorrevano sullo schermo. – Allude ai diamanti che mi ha infilato in tasca?
     Una bassa risata la colse di sorpresa. – Dunque li ha trovati?
     – Perché l’ha fatto? – Kristen era furiosa. – Sa in che guaio poteva cacciarmi?
     L’uomo rimase imperturbabile. Finse di guardare il film, mentre riprendeva a parlare piano: – Avevo bisogno che li custodisse per me.
     – E chi le dice che ora voglia restituirglieli?
     Lui si voltò all’istante, negli occhi una furia malcelata. – Non può tenerseli. Appartengono a me.
     Kristen ne dubitava. Altrimenti perché avrebbe dovuto nasconderli? – Ne è proprio sicuro? Come li ha avuti? Li ha rubati?
     – Non è affar suo e la smetta con questo interrogatorio!
     L’uomo si era accigliato. C’era qualcosa di ribelle nella sua espressione, quasi celasse un inconfessabile segreto. E probabilmente era così. Non c’era dubbio che vivesse ai limiti della legalità e forse era proprio per quello che si sentiva così affascinata da lui.
     Lo studiò da sotto le ciglia abbassate: aveva lucenti capelli scuri che gli arrivavano alla nuca, sopracciglia folte e un’ombra di barba sulle guance. Indossava un cappotto di cachemire, un’eleganza piuttosto insolita in quel periodo, quando ai tedeschi veniva richiesto di donare tutto ciò che avevano di prezioso, per sostenere lo sforzo bellico. Chi era? Emanava un’aura di mistero che le sarebbe tanto piaciuto svelare.
     Deglutì. – È anche affar mio, visto che mi ha coinvolta.
     La risposta le era uscita in un sibilo. Lui la fissò per un istante, contraendo leggermente la mascella. – Sono sinceramente addolorato per questo, ma non ho potuto evitarlo. Tuttavia, possiamo arrivare a un accordo soddisfacente per entrambi. Che ne dice?
     Kristen non capì. – Che accordo? Cosa pensa che io possa volere da lei?
     L’uomo della metropolitana non rispose, ma Kristine si accorse che le aveva posato una mano su un ginocchio. Un brivido caldo le percorse la schiena. Avrebbe voluto scostare quella mano, ma si sentiva come paralizzata. – Chi è lei? – riuscì a chiedere, in un sussurro tremulo.
     – Gliel’ho già detto: Mark Hoffmann, ma può chiamarmi Mark.
     La mano proseguì il suo cammino e si insinuò sotto la sua gonna, fino a raggiungere il reggicalze. Massaggiò con lievi movimenti circolari la tenera carne delle cosce, strappandole un piccolo gemito. Le sue mutandine si bagnarono all’istante.
     – Non ha risposto alla mia domanda: cosa pensa che io possa volere da lei? – riuscì a dire, col cuore in gola.
     Mark fermò la propria esplorazione e Kristen avrebbe voluto mettersi a gridare di frustrazione.  Non voleva che smettesse.
     Cristo, voleva quella mano , fra le sue cosce.
     Mentre lo schermo del cinema inquadrava le immagini di un attacco aereo, lui le afferrò il polso, guidando con calma la sua mano verso il cavallo dei pantaloni. – Ecco la tua risposta. Non è questo che vuoi?
     Kristen chiuse gli occhi.
     Sì, sì, si.
     Non riusciva a esprimerlo a parole, ma lui aveva inteso bene ciò che lei desiderava. Si morse il labbro, quasi fino a farlo sanguinare. Molte coppie consumavano rapporti frettolosi nei cinema. Prostitute, soldati in licenza… nessuno avrebbe badato a loro. Ciononostante Kristen non aveva mai fatto una cosa simile. Né aveva mai provato quell’intensa attrazione che la opprimeva; la voglia incessante di essere posseduta da un perfetto sconosciuto. – D’accordo – si sentì rispondere, il cuore che le batteva furioso nel petto.
     – D’accordo – ripetè Mark. Avrebbe giurato di averlo visto sorridere, nel buio della sala. Ma forse lo aveva soltanto immaginato.
     Un attimo dopo le labbra di lui erano premute sulle sue, provocanti ed esigenti. Le loro lingue si intrecciarono e divampò l’incendio. Prima ancora di rendersene conto Kristen si ritrovò in braccio a Mark, con la gonna tirata su e le mani che frugavano sotto la sua camicia.
     – Aspetta – mormorò lui, col fiato corto. – Calma, fai con calma.
     Ma lei non riusciva a calmarsi. Provava un’urgenza febbrile: voleva averlo dentro. Continuò a baciarlo con una frenesia tale da stupire lei per prima. Desiderava sentire il suo sapore, succhiare la linfa vitale da quella bocca morbida e calda, che si muoveva sulla sua.
     Lui intanto le aveva sbottonato la camicetta e stava armeggiando con i ganci del reggiseno.
     Dio, sì. Voleva le sue mani su di sé, essere accarezzata e baciata. Pelle contro pelle.
     – Mark – ansimò, inarcandosi contro di lui. – Ti voglio. Ora.
     Lui rise piano e finalmente la liberò del reggiseno. L’aria fredda della sala le fece inturgidire i capezzoli, ma poi le mani di Mark le coprirono i seni ed ebbe la sensazione di andare a fuoco.
     – Adesso, ti prego… adesso – Le sue labbra erano contro il suo collo, mentre i fianchi si strofinavano frenetici contro il suo inguine. Il bisogno che provava era pressante, incontrollabile. Infine lui le strappò le mutandine e la penetrò. Kristen allacciò le proprie gambe, fasciate nelle calze di nylon, ai suoi fianchi e ne assecondò i movimenti. Mark prese a muoversi sempre più veloce, sempre più in profondità, facendola godere così tanto che dovette portarsi una mano alla bocca e mordersi le nocche per non gridare. – Domani – disse lui contro il suo orecchio, quando tutto fu finito. – Vediamoci qui domani, appena finisci di lavorare.
     Il suo petto si alzava e abbassava al ritmo del respiro. Kristen notò solo in quel momento che i pantaloni gli erano scesi fino alle ginocchia. Lo vide tirarli su con gesti resi impacciati dalla fretta. – E porta quello che ti ho chiesto, mi raccomando – aggiunse lui, finendo di sistemarsi le braghe.
     Lei si limitò ad annuire. Era rimasta senza fiato e si sentiva priva di forze.
     Domani.
     Lo avrebbe rivisto domani. Tutto il resto era privo di importanza.

* * * * * * * * * *

Jacob richiuse la porta alle sue spalle, appoggiandovisi contro. Aveva portato Kristen nell’angusto monolocale che un amico gli aveva messo a disposizione e che si trovava a poca distanza dal cinema. – Allora? – chiese, senza riuscire a controllare la propria ansia. – Hai portato i diamanti?
     Lei tentennò. Non era affatto un buon segno, maledizione.
     – Non li ho trovati – rispose, con un filo di voce. – Nel cassetto dove li avevo nascosti non c’erano più, quando ieri sono rientrata. Deve essere stata mia cognata. Si diverte a frugare tra le mie cose, quella maledetta.
     Jacob si accorse di aver trattenuto il respiro.
     Cazzo, cazzo, cazzo.
     – Pensi che li abbia consegnati alla polizia?
     – Chi, Anja? Certo che no! Avida com’è se li sarà tenuti. Troverò il modo di farmeli restituire, stai tranquillo.
     Come poteva stare tranquillo? Ogni ritardo era un rischio in più. Ma la colpa era sua. Non avrebbe dovuto caricare Kristen di quella responsabilità. Lei non sapeva nemmeno a che rischio si era esposta per lui. Doveva dirglielo. Doveva…
     Maledizione!
     Da quando era diventato così sentimentale? Non si era mai preoccupato in quel modo per un altro essere vivente. Non negli ultimi mesi, per lo meno. Eppure quello che era accaduto ieri nella sala del cinema lo aveva cambiato. Non era stata solo una scopata, come aveva pensato in un primo momento. Kristen aveva toccato in lui un nervo scoperto, portando alla luce le sue fragilità.
     La vide girare per il piccolo appartamento, con la curiosità tipica delle donne.
     – Non è un granché – disse, per rompere il silenzio. – Un posto come un altro dove avere un po’ di tranquillità.
     Lei sorrise e il suo sorriso lo abbagliò. Era bella. Dannatamente bella.
     Poi cominciò a sbottonarsi il cappotto. – Già che siamo qui è meglio farne buon uso, non credi?
     – Cosa?
     – Di questo appartamento e di quel letto – indicò la parete alle sue spalle, dove era posizionato un vecchio letto con la spalliera in ottone. Aveva visto di meglio, ma se non altro le lenzuola erano pulite.
     Dopo aver gettato il cappotto su una sedia, Kristen avanzò verso di lui. Sembrava impaziente.
     Jacob si passò una mano fra i capelli. – Prima è meglio che ti mostri una cosa – disse, sbottonandosi i calzoni. Gli occhi incredibilmente azzurri di Kristine si illuminarono di una luce maliziosa.
     – Hai ragione – rispose, ridacchiando. – Ieri era talmente buio in quella sala che non ho potuto esaminare la mercanzia. E visto che in cambio di ciò che offri mi toccherà discutere con Anja… beh, è meglio che io dia un’occhiata, giusto?
     Jacob non rispose. Si limitò ad abbassarsi le braghe, senza distogliere gli occhi da quelli di lei. La vide trasalire, la bocca spalancata per la sorpresa. Probabilmente era rimasta di sasso, com’era da prevedere.
     Si schiarì la voce, mentre lei continuava a fissarlo incredula. – Avevi ragione: il mio vero nome non è Mark Hoffmann. Mi chiamo Jacob Adler.
     – Sei ebreo? – tremò leggermente, pronunciando quella frase. Jacob avrebbe voluto evitare tutto ciò, ma ormai si era spinto troppo oltre con lei. Doveva sapere.
     – Già.
     Kristen si sistemò dietro l’orecchio un ricciolo biondo che era sfuggito all’acconciatura. – Non capisco… come mai non porti la Judenstern?
     La Judenstern. La Stella di Davide, a sei punte, un pezzo di stoffa gialla su cui era ricamata la parola JUDE – ebreo – obbligatoria per legge, per quelli come lui.
     Jacob si riabbottonò i calzoni e si avvicinò all’unica finestra, le mani infilate nelle tasche. Non aveva la forza di guardarla. La fragilità che le leggeva negli occhi lo stava uccidendo. – Ho assunto un’altra identità, quella di Mark Hoffmann, per l’appunto. Fortunatamente ho degli amici potenti. Persone che mi hanno aiutato. Ma il loro aiuto non durerà in eterno. Capisci perché mi servono quei diamanti? Con quelli posso comprare un passaporto falso e un lasciapassare per l’espatrio.
     Si voltò all’improvviso. Voleva leggerle dentro, scoprire cosa provava in quel momento: orrore, disgusto… cosa? Con sua sorpresa, in quello sguardo lesse solo una profonda pena. – Non ha importanza quello che sei – disse Kristine, scrollando le spalle.
     Jacob era incredulo. – Non ha importanza? Le leggi razziali parlano chiaro. Una donna di razza ariana sopresa a fornicare con un ebreo! Hai una vaga idea di quel che potrebbe succederti, se ci scoprono? Potresti finire in galera, se sei fortunata. Nel caso peggiore finiresti in un campo di lavoro. Ne hai sentito parlare, vero?
     Lei annuì, pallida in volto. – Te l’ho detto. Per me non ha importanza. Sono stufa di tutto questo: la guerra, persone che muoiono di continuo, che scompaiono… si ha paura persino della propria ombra, paura di essere traditi, arrestati. È vita questa? Io voglio vivere! Tornare a sentirmi donna, a sentirmi amata. Tu puoi darmi quello che voglio, Jacob?
     Le parole gli sfuggirono di bocca, quasi senza che se ne rendesse conto: – Sì, Kristen. Posso darti quello che vuoi.
     In un lampo accorciò la distanza fra loro. La strinse al petto, afferrandole la nuca e cercandole le labbra. Fu un bacio avido, assetato. Il bacio disperato di chi sa di non avere scelta, di non poter resistere a quella folle attrazione, a quel fuoco che brucia dentro fino a togliere il respiro.
     – Nuda – ansimò, non appena le loro bocche si staccarono. – Ti voglio nuda. Adesso.
     Si ritrasse quel tanto che gli bastava per sbottonarle freneticamente la camicetta, sfiorandole la curva del seno. Kristen sospirò di piacere e protese il viso per farsi baciare di nuovo.
     – No – le disse lui, gettando la camicia per terra. – Voglio guardarti. Ieri non ho potuto farlo. Era troppo buio in quel cinema.
     L’aiutò a togliersi il reggiseno e le sfiorò i capezzoli coi pollici, strappandole un altro sospiro. Era talmente bella che non riusciva a credere alla propria fortuna. All’improvviso il mondo circostante  scomparve e rimasero solo i loro respiri affannati, le loro carezze reciproche.
     Kristen uscì dalla gonna e si tolse anche la sottoveste e le mutandine. Rimase solo con le calze di nylon e il reggicalze.
     – Quelle tienile – le disse, la voce ridotta a un borbottio roco. – Sei terribilmente sensuale con indosso solo le calze.
     La vide mordersi il labbro e andare a sdraiarsi sul letto, le cosce spalancate per lui. Jacob deglutì; il sangue che gli scorreva più veloce nelle vene, affluendo al basso ventre. Ormai la sua erezione era granitica. Infilò una mano tremante nella tasca del cappotto e tirò fuori un preservativo. – Meglio prendere precauzioni – spiegò mentre si spogliava in fretta, abbandonando i propri abiti in un mucchietto disordinato sul pavimento. – Non credo che tu voglia ritrovarti con un figlio ebreo nel ventre.
     Lei spalancò gli occhi, ma non obiettò. – Dove l’hai preso? – chiese soltanto.
     – Il preservativo? Non ha importanza.
     Naturalmente agli ebrei era proibito usarli. Ma lui aveva una falsa identità. Riusciva a fare qualsiasi cosa. O quasi.    
     Dopo averlo indossato la raggiunse, coprendola col suo corpo eccitato; il respiro sempre più affannoso. – Mia. Sei mia, Kristen.
     Lei intrecciò avidamente la propria bocca alla sua, aderendo a lui con tutto il corpo e strofinando il pube contro il suo membro. Fare l’amore con Kristen era incredibile. Aveva il potere di fargli dimenticare tutto il resto; lui che restava sempre vigile, controllato, anche durante gli amplessi. Ma in quel momento esisteva solo lei, il suo sapore e il suo profumo irresistibile.
     Non era solo una scopata. No, era molto di più.
     Sussurrò il suo nome mentre la penetrava, lasciandosi avvolgere dal suo calore. Era stretta e bagnata. Meravigliosa. Tutto il resto non aveva importanza.

* * * * * * * * * *

Kristen rabbrividì. L’aria era gelida in quella stanza, nonostante appena pochi minuti prima i loro corpi fossero andati a fuoco, in quello che era stato l’amplesso più soddisfacente di tutta la sua vita.
     – Con mio marito non è mai stato così – mormorò, distesa nel letto sfatto, tra le lenzuola stropicciate.
     Lui si accese una sigaretta e si voltò a guardarla. – Sei sposata?
     – Vedova. Hans è morto in guerra, all’incirca un anno fa.
     Jacob inspirò il fumo per poi soffiarlo fuori in una nuvola bianca. Le piaceva guardarlo mentre se ne stava lì, nudo, dopo aver condiviso con lei quegli attimi di folle passione. Aveva un corpo che eccitava. Teneva un braccio appoggiato alla fronte, in una posa rilassata. Nell’altra mano, invece,  stringeva la sigaretta. – In che modo era diverso con lui? – chiese a un tratto, la fronte leggermente corrugata.
     – Hans non è mai stato così passionale. Non si spogliava quando facevamo l’amore: si limitava a calarsi i pantaloni del pigiama, per poi rimetterli subito dopo.
     Lui rise e aspirò un’altra boccata di fumo. – La passione non prospera quasi mai all’interno del matrimonio. Per questo esistono gli amanti.
     Kristen si tirò su, appoggiandosi a un gomito. Il suo sguardo continuò a vagare sul corpo perfetto di Jacob. Era difficile credere alla superiorità della razza ariana, osservando un corpo del genere. I peli del torace erano scuri e morbidi al tatto. Non ne aveva troppi, solo quel tanto che bastava per dargli un’aria virile. – E tu? – chiese, senza riuscire a trattenersi. – Sei sposato?
     Lo sguardo di Jacob si incupì. – Lo ero. Mia moglie e mia figlia sono morte. L’ho saputo solo di recente.
     Lo vide spegnere il mozzicone della sigaretta nel posacenere, le labbra tese in una smorfia di dolore. Kristen provò una fitta di gelosia. L’aveva amata molto? Soffriva ancora per lei? Era sciocco e infantile chiederselo, ma non poteva farne a meno. Non dopo quello che avevano appena condiviso, in quel letto. – Mi dispiace – disse, in un sussurro.
     Jacob chiuse gli occhi, come se volesse scacciare l’immagine della moglie defunta. – Non sono riuscito a salvarle – si lasciò sfuggire, in un sibilo. – Ci ho provato in tutti i modi, ma neppure le mie conoscenze sono servite. Sono state deportate e sono morte il giorno stesso del loro arrivo nel campo.
     Kristen rabbrividì. Cosa poteva dire per alleviare il suo dolore? Qualsiasi parola sarebbe sembrata sterile, vuota. Perciò rimase in silenzio. Allungò una mano sul suo ventre piatto e tonico e lo accarezzò. Seguì con lo sguardo la linea dei suoi peli che in basso si assottigliava, fino a sparire sotto al lenzuolo. Lì notò un accattivante rigonfiamento.
     Jacob riaprì gli occhi e la guardò, intensamente. Ma neppure lui pronunciò una parola. Si limitò ad ansimare, quando la sua mano si infilò sotto il lenzuolo, per sfiorare il suo membro eretto. – Ti ho detto quanto mi piace averlo dentro? – chiese lei con un filo di voce.
     Un altro ansito. – Dimmelo adesso.
     – Mi piace da morire. Sentirlo muovere dentro di me, riempirmi – Kristen si interruppe per infilare la testa sotto quell’ammasso di lenzuola aggrovigliate. – Mi chiedo come sia sentirlo in bocca, succhiarlo…
     Jacob tremò impercettibilmente. – Santo cielo, Kristen. Vuoi farmi impazzire?
     Lei si concesse una risatina. – Sì, di piacere.
     E lo prese in bocca.   
    
* * * * * * * * * *

– Vediamoci qui domani – fece Jacob, mentre si rivestiva. – Cerca di fare in modo che tua cognata non sospetti nulla, però. È importante…
     Lei sbuffò, alzando gli occhi al cielo. – Lo so, lo so. Smettila di ripeterlo.
     Lui si fermò, facendo vagare uno sguardo accigliato su di lei. – Cazzo, Kristen… non è un gioco! – Non riusciva a capire come riuscisse a sembrare così controllata, calma. Lui non lo era affatto. Adesso non si preoccupava più solo per se stesso. Doveva pensare anche a lei, alla sua sicurezza. Sentì il cuore battere nelle costole mentre osservava Kristen muoversi per la stanza, ancora completamente nuda. Lei si arrestò davanti alla finestra, per osservare i vetri che si erano appannati.
     – Kristen, mi stai ascoltando?
     – Certo, certo – Il suo dito affusolato disegnò un cuore sul vetro coperto di vapore. Aveva lo sguardo vacuo, sognante. Proprio quello che temeva. Lui aveva bisogno che fosse attenta, sempre all’erta. Quello era un mondo spietato e non c’era tempo per i sogni a occhi aperti e le divagazioni degli innamorati.
     – Sai che giorno è domani? – chiese lei, con un sorriso. Si era voltata, incatenando gli occhi ai suoi.
     Jacob imprecò sottovoce. – Vestiti, se non vuoi beccarti un malanno. Non senti come si gela qui dentro?
     Ma Kristen lo ignorò. Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mordendosi il labbro. – È San Valentino. La festa degli innamorati.
     Lui si mosse verso di lei e l’afferrò per le spalle. Avrebbe voluto scuoterla. – Vuoi ficcarti in quella testa che non c’è tempo per queste sciocchezze? Ascoltami bene: vai a casa e fruga dappertutto. Devi assolutamente trovare quei diamanti e portarmeli. Hai inteso bene? È un rischio anche per te tenerli lì. Se ci fosse una perquisizione, come giustificheresti il fatto di avere quei diamanti?
     Kristen tornò seria all’improvviso. – Tu come li hai avuti? Voglio saperlo.
     – Appartenevano a dei gioielli di famiglia. Li ho tenuti nascosti, come tante altre cose. Ma negli ultimi giorni è diventato un rischio portarli con me: le perquisizioni sono aumentate, i nazisti hanno intensificato la campagna antisemita per distrarre la popolazione da quelli che sono gli esiti della guerra: la stanno perdendo.
     Lei trasalì. Nessuno ne parlava apertamente. – Dunque è vero? – chiese, rabbrividendo.
     Jacob le lanciò la sottoveste. – Vestiti, maledizione! Stai congelando.
     La osservò cupamente mentre indossava anche la camicia e la gonna. – È così – rispose, dopo un attimo di esitazione. – L’esercito tedesco è stato annientato a Stalingrado e la RAF sta facendo piovere bombe su Berlino. La guerra è praticamente persa e la Gestapo rastrella le fabbriche per deportare i lavoratori ebrei e le loro famiglie: uomini, donne, bambini, vecchi, malati… non si salva nessuno.
     Si interruppe per schiarirsi la voce. Aveva un nodo in gola. – Li prendono tutti, capisci? Stanno sguinzagliando i cacciatori del Servizio di ricerca per scovare anche gli U-Boot, quegli ebrei che hanno trovato un posto dove nascondersi. La situazione sta precipitando e non voglio che tu rimanga coinvolta.
     Kristen fece un passo verso di lui e gli posò una mano sulla guancia ispida. – Sono già coinvolta. Ma ti prometto che farò attenzione. Troverò quei diamanti e ti aiuterò a fuggire. Fosse l’ultima cosa che faccio!
     Jacob sussultò. Le afferrò la mano, stringendola fra le dita. – Non dirlo neanche per scherzo. Non voglio il tuo sacrificio. Promettimi che rinuncerai, se diventerà troppo pericoloso. Promettilo.
     Lei annuì. Ma lui sapeva che era menzogna.

* * * * * * * * * *

Rientrata a casa, Kristen trovò Anja sulla soglia. Aveva il volto pallido e si torceva le mani, nervosa. – Merda, Kristen… dov’eri? – chiese, con voce tremula.
     – Che è successo? – Il suo battito cardiaco accelerò considerevolmente. Lanciò un’occhiata ansiosa ad Anja che si muoveva per l’appartamento come un’anima in pena.
     – Hanno arrestato Frau Schmidt!
     Kristen sentì un brivido scenderle lungo la schiena. Frau Schmidt era una loro vicina di casa; una donna irreprensibile che non aveva mai dato problemi e che con lei era sempre stata gentile e cordiale. – Perché? Cosa ha fatto?
     Anja sparì in cucina e dovette seguirla, col fiato in gola. La vide tirare fuori una pentola. Quando era nervosa si metteva a cucinare. Diceva che l’aiutava a rilassarsi.
     – È diventata pazza. Se ne va in giro a dire che la Germania sta perdendo la guerra e altre farneticazioni.
     Kristen si appoggiò alla porta della cucina e chiuse gli occhi. Erano le stesse cose che le aveva appena detto Jacob. Altro che farneticazioni! All’improvviso un pensiero le attraversò la mente confusa. – Hanno fatto delle perquisizioni? – chiese, mentre il cuore le martellava nel petto.
     Anja scosse il capo, i riccioli fulvi che le danzavano intorno al viso lentigginoso. – No, per fortuna – si fermò per studiarla in silenzio. – Stai pensando ai diamanti che avevi nascosto in camera tua, vero?
     Kristen sussultò. Non pensava che tirasse in ballo quell’argomento. Deglutì. – Hai frugato nei miei cassetti? Come hai potuto?
     Anja si strinse nelle spalle. Non sembrava affatto pentita. – Ultimamente eri misteriosa. Non mi piace che mi si nascondano le cose. Avanti, dimmi: dove li hai presi?
     Kristen esitò. Non si fidava della cognata. Non che fosse cattiva, ma fra loro non era mai corso buon sangue e non poteva correre il rischio che la tradisse. In gioco c’era la vita di Jacob. – Ho una relazione con un uomo molto ricco – mentì. In realtà era una menzogna a metà: aveva solo omesso un particolare, e cioè che quell’uomo era un ebreo. – Mi ha regalato quei diamanti come dono per San Valentino, ma sto pensando di restituirglieli. Non li voglio. Di questi tempi non è sicuro tenere cose tanto preziose in casa, mi capisci?
     Anja annuì, riprendendo a trafficare in cucina. Solo dopo qualche secondo si voltò nuovamente a guardarla. – Come hai potuto? – disse, negli occhi un’espressione cupa. – Hans è morto da neanche un anno!
     – Ma io sono viva. Cosa vorresti? Che mi facessi seppellire insieme a lui?
     Anja distolse lo sguardo, mordendosi il labbro. All’improvviso le parve infinitamente fragile e provò il desiderio di consolarla, in qualche modo. – Volevo bene ad Hans e mi manca – disse, con la voce incrinata. – Ma la vita continua e sento il bisogno di essere amata da un uomo.
     La cognata si asciugò una lacrima furtiva con la manica del vestito. – Manca anche a me – mormorò, rimestando il contenuto della pentola, presumibilmente una zuppa di cavolo.
     Kristen per la prima volta provò compassione per lei. Anja aveva perso i genitori che era ancora una bambina e Hans era il suo unico punto di riferimento. Senza riflettere, l’abbracciò. La sentì irrigidirsi, ma finse di non accorgersene. – Anja, dobbiamo restare unite. Possiamo contare solo l’una sull’altra, capisci?
     La cognata sospirò, premendo la guancia contro la sua. Poi si scostò quel tanto che bastava per guardarla negli occhi. – Li ho presi io i diamanti. Li ho nascosti sotto le assi del pavimento di camera mia. Puoi prenderli, se vuoi.
     Kristen sorrise. Un sorriso triste, malinconico. – Ti ringrazio. Credimi, è meglio così.
     – Troncherai la tua relazione con quell’uomo? – chiese Anja, esitante. Pareva preoccupata.
     – Dovrò farlo – rispose Kristen. Jacob sarebbe fuggito dalla Germania e di certo non poteva andare con lui. Non c’era alcun futuro per loro. All’improvviso sentì un peso gravarle sul petto e dovette distogliere lo sguardo. Avrebbe dovuto accontentarsi di saperlo vivo, in salvo da qualche parte. Eppure com’era difficile! Lo conosceva appena, ma già provava sentimenti profondi per quell’uomo coraggioso e misterioso. Un uomo a cui avrebbe dovuto dire addio molto presto.

* * * * * * * * * *

Il giorno successivo, di ritorno dal lavoro, Kristen fece come concordato e si recò nel monolocale dell’amico di Jacob. Bussò alla porta con colpi secchi e decisi, il cuore che le batteva più forte. Poco dopo l’uscio si aprì e il profilo di Jacob le apparve in tutta la sua prorompente sensualità.
     Notò che aveva gli occhi cerchiati e il viso stanco. – Li hai trovati? – chiese, senza nemmeno salutarla.
     Kristen  entrò all’interno e fece per sbottonarsi il cappotto, ma l’impresa le parve più difficile del solito. Aveva le mani congelate: fuori la temperatura era scesa ulteriormente.
     – Allora? – la incalzò Jacob, avvicinandosi per aiutarla. Aveva dita lunghe, sottili, che si muovevano agili. In un attimo si ritrovò spogliata del pesante cappotto di lana, che venne adagiato su una sedia.
     Kristen abbozzò un sorriso. – È tutto a posto. Li ho portati con me.
     Lo udì sospirare di sollievo. – Dove sono?
     – Li ho nascosti nelle calze. Ho pensato che fosse più sicuro.
     Sollevò una gamba, posando il piede, infilato in una scarpa dal tacco alto, sulla sedia dove era stato appoggiato il cappotto. Poi si tirò su la gonna e gli mostrò un sacchettino incastrato fra la calza e il reggicalze. – Ecco qui il mio regalo per San Valentino – disse, con una nota di ironia nella voce.
     In un attimo lui fu alle sue spalle. – Resta ferma così – sussurrò, con voce roca. Prese il sacchetto con i diamanti e lo gettò su un vecchio tavolo di legno, di fronte alla sedia. Quindi le sfiorò la coscia nuda. – Anch’io ho un regalo per te – disse piano, insinuando le dita all’interno della calza.
     Kristen chiuse gli occhi. Jacob aveva il potere di farle scorrere il sangue più veloce nelle vene. Bastava un suo tocco per farla impazzire di desiderio. Quando le sue dita penetrarono all’interno dell’elastico delle mutandine cominciò a tremare. – Credevo che avessi fretta di andartene, ora che hai ottenuto quello che volevi – disse con un sospiro. Si sentiva un po’ irritata per come l’aveva accolta, appena entrata nell’appartamento.
     Lui rise piano. – Ma non ho ancora ottenuto quello che voglio.
     – Mi riferivo ai diamanti.
     Le dita di Jacob cominciarono a tracciare piccoli cerchi fra le sue gambe. Il suo respiro divenne più affannoso. Istintivamente si mosse verso quella mano, assecondandone i movimenti.
     – So a cosa ti riferivi – le sussurrò la sua voce calda, all’orecchio. – Ma i diamanti non sono l’unica cosa che desidero, in questo momento.
     Inaspettatamente, senza alcun preavviso, le infilò un dito dentro e cominciò a muoverlo. Kristine cominciò a gemere forte. Il piacere provato le fece dimenticare ogni cosa, persino dove fosse e con chi. Il pericolo che stava correndo, l’ansia di non trovare Jacob in quell’appartamento, o ancor peggio, di trovare al suo posto gli uomini della Gestapo… tutto svanì come d’incanto.
     Poi lui cominciò a baciarla sul collo, percorrendone la pelle sensibile con le labbra socchiuse. Le baciò la gola, sfiorandola con la lingua, mentre il suo dito continuava a muoversi dentro di lei.  Kristen si sentì mancare e dovette appoggiarsi a lui, abbandonandosi a quei baci e a quelle carezze che la stavano portando al culmine.
     Jacob la lasciò venire, gli occhi sempre fissi su di lei – Vieni, andiamo a letto – mormorò, subito dopo. – Non ho ancora finito con te.
     E Kristen si lasciò sollevare e depositare sulle lenzuola, priva di ogni volontà. Si sentiva come svuotata ed era una sensazione meravigliosa.

* * * * * * * * * *

– Hai mai pensato di risposarti? – le chiese a un tratto Jacob, dopo l’amore. Erano entrambi sdraiati sul letto e lui fumava la solita sigaretta post coito. Kristen si sollevò su un gomito e lo guardò. – Mio marito è morto da neanche un anno. Francamente è una possibilità che non ho ancora preso in considerazione. Perché me lo chiedi?
     Lui scrollò le spalle. Sembrava rilassato, sereno. – Penso che dovresti. Una donna di pura razza ariana, bella, dotata di fianchi larghi adatti alla procreazione… credo che ci siano un sacco di tedeschi che farebbero carte false per avere una moglie come te.
     Nonostante cercasse di apparire indifferente, la sua voce aveva un tono aspro, amaro. Kristen finse di rifletterci e ridacchiò. – Mmm… no, grazie. Preferisco un maschio ebreo, col membro circonciso, che sappia fami godere a letto.
     Lui si fece serio all’improvviso. – Non dovresti scherzare su queste cose.
     – Nemmeno tu. Non sono una giumenta da riproduzione.
     Jacob sospirò e spense la sigaretta. – Lo so. È stata una frase stupida, mi dispiace. È solo che detesto l’idea di doverti lasciare. Ti porterei con me, se potessi.
     Kristen si mise a sedere sul letto. Era ancora sudata per l’amplesso, nonostante il freddo che ghiacciava il vetro dell’unica finestra. – Dici davvero? – la voce le uscì leggermente tremula.
     – Dico davvero.
     Il suo sguardo fu catturato dalla mano di Jacob che scostava una ciocca umida di capelli dalla fronte. Amava i suoi capelli, scuri e morbidi sotto le dita. – Quando partirai?
     Si era ripromessa di non chiederlo. Una parte dentro di lei non voleva sapere, voleva fingere di avere ancora molto tempo da trascorrere con lui, in quel letto. Eppure quella sciocca e patetica domanda le era affiorata alle labbra, inarrestabile.
     – Domani ritirerò i documenti per l’espatrio. Ho appuntamento a mezzogiorno. Suppongo che partirò la sera stessa. Meno tempo trascorro in questa dannata città, più possibilità ho di sopravvivere.
     Kristen annuì in silenzio, il cuore che le doleva. – Capisco – disse, anche se non era vero. In realtà non capiva nulla. Perché tutto ciò doveva succedere? Perché tedeschi ed ebrei non potevano vivere in pace? Qual’era il senso di quell’orrore? Sentì gli occhi bruciare e si impose di non piangere. Doveva essere forte. – E come farai… – si interruppe perché aveva un groppo in gola che le impediva di parlare. Ma non ci fu bisogno di proseguire.
     – Ho degli amici che mi accompagneranno al confine – rispose lui, gli occhi che sembravano due pozze scure.
     – Quali amici?
     Lui accolse la domanda con calma, mentre la studiava in silenzio. – Non sono affari tuoi, Frau Böhm – disse brusco.
     Non le piaceva quando la chiamava in quel modo. – Non sono affari miei? Ci sono dentro fino al collo, Jacob. E ho tutto il diritto di avere delle risposte. O forse non ti importa di me, a parte quello che ho fra le gambe?
     Lo vide stringere gli occhi fino a due fessure. Per un attimo ne ebbe quasi paura. – Meno cose sai di me, meglio è per entrambi. Lo capisci questo? Se venissi catturata… – si fermò per imprecare fra i denti, lo sguardo duro come quello di un rapace.
     Kristine ebbe un tuffo al cuore. – Temi che ti tradisca? Non ti fidi di me?
     – Cazzo, Kristine… non è questione di fiducia. Credimi, hanno mezzi molto convincenti per strappare qualsiasi tipo di informazione.
     Lo vide passarsi una mano fra i capelli scompigliati, i nervi tesi fino allo spasmo. Nei suoi occhi lesse la paura, ma non per se stesso. Paura per lei. Allora un senso di calore le si diffuse in tutto il corpo. – D’accordo – disse, con un sospiro di rassegnazione. – Non ti chiederò più nulla, se è questo che vuoi.
     Lui si appoggiò al cuscino, lo sguardo che vagava sui suoi seni scoperti. – Sul serio vuoi sprecare il poco tempo che ci resta chiacchierando?
     Kristen lo fissò per un momento, poi scosse il capo. – Certo che no.
     Jacob l’attirò a sé, catturandole le labbra con le sue. Lei emise un gemito soffocato, il desiderio che le invadeva il sangue, correndo rapido nelle vene. La penetrò con la punta della lingua, stuzzicandole la bocca prima con dolcezza e poi con crescente passione.
     Ogni curiosità o incertezza fu spazzata via dal desiderio di sentirlo dentro. Si mise a cavalcioni su di lui, lasciandosi riempire dal suo membro eccitato. Un gemito le sfuggì dalle labbra appena dischiuse, perse in un piacere che le sembrava ogni volta irreale. Non voleva perderlo. Non voleva rinunciare a tutto questo. E allora finse che non fosse un addio, ma che quell’attimo sarebbe durato per l’eternità.

* * * * * * * * * *

Si rivestirono in silenzio, ciascuno perso nei propri pensieri. Jacob avrebbe voluto dirle mille cose, ma si sentiva la gola serrata in una morsa che a malappena lo lasciava respirare. Era impotente di fronte a tutto questo e provava una rabbia interiore talmente forte da sopraffarlo.
     Kristine gli era entrata dentro come un uragano. Maledisse se stesso e l’irrefrenabile desiderio di continuare a far parte della sua vita. Per loro non c’era futuro, doveva ficcarselo bene in testa.
     Quando furono sulla porta lei si voltò a guardarlo, gli occhi rigati di lacrime. – Ti prego, non lasciare che tutto finisca così – disse, la voce ridotta a un sussurro.
     – Non abbiamo scelta. Deve finire così.
     Lei lo fissò per un momento, poi emise un sospiro stanco. Sembrava priva di forze, senza alcuna capacità di lottare. – Almeno permettimi di rivederti, prima della partenza.
     – Sai che è pericoloso.
     Kristine si appoggiò al suo petto, la fronte premuta nel punto in cui il suo cuore batteva all’impazzata. – Lo so, ma non mi importa. Vediamoci domani, dopo che avrai ritirato i tuoi documenti. Voglio poterti dire addio.
     Jacob chiuse gli occhi. Tutto ciò non faceva che acuire la loro sofferenza, eppure non se la sentì di rifiutarle quella cortesia. – Mi farò vivo io – rispose. – Se tutto fila liscio, avrai mie notizie. Altrimenti, scordati di me. È la cosa migliore.
     Lei gli lanciò un’occhiata che gli lacerò il cuore. – Non potrò mai scordarmi di te. Mai.
     La guardò scendere le scale di corsa per immergersi nelle strade di Berlino. Non si voltò a guardarlo un’ultima volta.
     Maledizione!
     Sapeva di doversela strappare dal cuore, eppure aveva la sensazione che non vi sarebbe riuscito. Quella donna coraggiosa avrebbe continuato a far parte dei suoi ricordi. Per sempre.

* * * * * * * * * *

La mattina seguente Kristine faticò a concentrarsi sul lavoro. La sua principale la dovette riprendere ben due volte per averla trovata a fissare un punto lontano, oltre le grandi vetrate del negozio di fiori. La sua mente vagava in un’unica direzione: Jacob. Dov’era? Cosa stava facendo? Era in pericolo?
     A un tratto la voce squillante di Frau Meyer la fece trasalire. – Oggi non c’è proprio con la testa, vero Frau Böhm? Allora, pensa di riuscire a fare quest’ultima consegna? Ma non si perda per strada, mi raccomando!
     Kristen arrossì. Lavorava come fiorista da prima della guerra e nessuno si era mai lamentato del suo operato. Era abile coi fiori: aveva gusto nelle composizioni e spesso e volentieri i clienti si rivolgevano a lei per un consiglio. – Stia tranquilla, Frau Meyer – rispose, correndo a infilarsi il cappotto. – Non mi perderò. Qual è l’indirizzo della consegna?
     La principale la studiò attenta e prese dal banco un’enorme composizione floreale. – La deve portare all’Hotel Excelsior.
     Lei annuì, le mani che le tremavano. Aveva fatto milioni di consegne, eppure quel giorno si sentiva agitata. Ci sarebbero stati agenti della Gestapo appostati davanti all’hotel? Prima di allora non se n’era mai curata, ma era tutto diverso adesso. Avrebbero letto sul suo viso che si scopava un ebreo? Ce l’aveva scritto in faccia? Deglutì, prendendo in consegna i fiori e avviandosi verso l’uscio. Il campanello sulla porta tintinnò al suo passaggio, cogliendola quasi di sorpresa. Aveva i nervi a fior di pelle.
     Svoltò all’angolo della strada, il passo svelto e lo sguardo fisso davanti a sé. Poi, a un tratto, si sentì afferrare per le spalle e una mano le chiuse la bocca, impedendole di urlare. Sentì il cuore fare un balzo nel petto, il sangue che scorreva più veloce. Tentò di scalciare e spingere, tutto pur di liberarsi da quel corpo d’acciaio che la stringeva. Fu inutile.
     – Sono io, Jacob – le sussurrò a un tratto una voce familiare. La mano la lasciò andare e lei rilasciò un respiro di sollievo.
     – Sei impazzito? Mi hai fatto venire un colpo!
     Lui la trascinò in una via laterale. – Ho bisogno del tuo aiuto – disse con un sussurro roco. – Le strade sono pattugliate. Ci sono uomini della Gestapo ovunque ed è troppo rischioso per me raggiungere il mio contatto. Qualcuno mi ha tradito e mi stanno cercando. Sanno che devo vedermi con una persona oggi e conoscono il luogo dell’appuntamento.
     Kristine capì all’istante cosa le chiedeva. – Vuoi che vada io al tuo posto? – Si sentiva la gola secca e faceva fatica a parlare. Guardò Jacob negli occhi: aveva uno sguardo allucinato, ansioso.
     Lui sospirò. – Credimi, detesto l’idea di coinvolgerti ancora…
     – Non preoccuparti. Dimmi solo cosa devo fare.
     Jacob frugò nella tasca del proprio cappotto. Infine tirò fuori una busta sgualcita e gliela porse. – Qui dentro ci sono i soldi che ho ricavato dalla vendita dei diamanti, quelli che mi servono per pagare il mio contatto.
     Kristen annuì. Era tutto chiaro: avrebbe dovuto recarsi all’appuntamento e consegnare il denaro. In cambio avrebbe ricevuto i documenti che servivano a Jacob per l’espatrio. Nulla di più facile. Solo in quell’istante le tornò in mente la consegna che doveva fare per il negozio. – A che ora è il tuo appuntamento e dove? – Sperò non fosse troppo lontano dall’Hotel Excelsior. In questo modo sarebbe riuscita a svolgere entrambi i compiti.
     – L’appuntamento è al caffè in Savignyplatz, a mezzogiorno – bisbigliò Jacob. – Fai attenzione. Una donna come te dovrebbe passare inosservata, ma non si sa mai. L’uomo che dovrai avvicinare è alto, magro, scuro di capelli e con piccoli baffi neri. Porta un paio di occhiali dalle lenti piuttosto spesse. Non conosce il mio vero nome, quindi dovrai dirgli che ti manda Herr Hoffmann.
     Kristen tornò ad annuire. Sì, pensava di farcela. Doveva farcela. Non aveva alternative. Afferrò la busta, stringendola fra le dita come per saggiarne la consistenza. La carta era leggermente ruvida sulla pelle. La infilò in una tasca interna del cappotto. – Dove ci incontriamo dopo? All’appartamento?
     Jacob scosse il capo. – No, troppo rischioso. Immagino che dovrai fare ritorno al negozio. Ci vediamo lì. Fingerò di essere un cliente e mi avvicinerò a te per chiederti un consiglio su un mazzo di fiori. È tutto chiaro?
     – Chiarissimo – Kristine si mosse con i fiori ben stretti in una mano e la busta nella tasca, ma Jacob la trattenne. – Aspetta – disse, la mascella contratta. – Prendi anche questa.
     Le porse una capsula di ottone. Lei aggrottò la fronte. – Cos’è?
     – Un veleno che agisce molto rapidamente. Nel caso in cui venissi catturata.
     Kristine sussultò, come se qualcuno l’avesse schiaffeggiata. Un brivido freddo le percorse il corpo, facendola tremare. – Come?
     Jacob continuò a fissarla con quello sguardo da rapace che lo caratterizzava. Si passò la mano fra i capelli, le dita tremanti. – Nascondila fra i capelli, così non la troveranno se ti spogliano prima di gettarti in una cella. Credimi, in quel caso morire sarà la soluzione migliore… e la più indolore. Mi capisci?
     Lei si sentiva come paralizzata dalla paura. – S-sì – rispose con un sibilo. Poi si voltò a guardarlo – Ma… se dovessi averne bisogno tu?
     Gli occhi di Jacob erano neri e impenetrabili. – Preferisco che l’abbia tu. E ora vai.
     Kristine esitò, ma la voce di lui la spronò: – Vai. Adesso.
     Affrettò il passo, tornando nella via principale. Il cuore sembrava volerle balzare fuori dal petto, ma ignorò la sensazione di gelo che le aveva penetrato le ossa e proseguì per la sua strada. Doveva farlo per Jacob, per l’uomo che amava. Doveva restituirgli la sua libertà e quello era l’unico modo.

* * * * * * * * * *

Il caffè di Savignyplatz era un locale piccolo, ma pulito e in ordine. I tavolini erano rotondi, con tovaglie di un bianco immacolato. All’interno vi erano quasi eclusivamente donne, che chiacchieravano animatamente, stringendo fra le dita tazze di porcellana ricolme di cioccolata calda. Qualcuna sorseggiava lentamente un tè.
     L’unico uomo sedeva a un tavolo in un angolo tranquillo. Fumava una sigaretta con aria rilassata e Kristen notò che portava un paio di occhiali. La sua fisionomia combaciava perfettamente con la descrizione fatta da Jacob. Col cuore in gola si avvicinò al tavolino, le mani infilate nelle tasche del cappotto. – Buongiorno – disse, sforzandosi di sorridere. Sperava di non apparire troppo pallida e tesa. – Mi manda Herr Hoffmann. Lui non è potuto venire.
     L’uomo sollevò su di lei un paio di occhi grigi, terribilmente diffidenti. La studiò per quello che le parve un tempo interminabile, ma infine le indicò una sedia accanto a sé. – Prego, si accomodi. Ha portato il denaro?
     Aveva una voce strascicata e parlava sottovoce, senza staccare gli occhi dai suoi. Kristine si sedette e gli porse la busta. – Qui c’è quello che ha chiesto. E i documenti?
     Lui posò un’altra busta sul tavolo, accanto a una bottiglia di birra svuotata per metà. Kristine l’afferrò, cercando di controllare il tremore alle mani. Si accorse di essere sudata, nonostante il freddo che appannava le finestre che davano sulla piazza.
     L’uomo con gli occhiali contò velocemente le banconote e le rivolse un sorriso freddo. – È stato un piacere fare affari con lei. Le auguro una buona giornata.
     Si alzò per avvicinarsi al bancone e pagare la propria ordinazione. Un attimo dopo Kristine lo vide uscire e attraversare la strada con disinvoltura. Aveva notato che portava una spilla con la svastica sul bavero del cappotto, probabilmente per deviare i sospetti da quella che era la sua attività, prettamente illegale.
     Trasalì, accorgendosi solo in quel momento di essere rimasta a fissarlo imbambolata. Si alzò a sua volta, il respiro reso accelerato dall’ansia. Nel farlo, urtò senza volere una sedia che cadde a terra rumorosamente. – Mi scusi – disse alla cameriera che l’aveva guardata storta – Sono così maldestra!
     Poi si avviò verso l’uscita, la busta nascosta in tasca. Fuori dal locale vide degli uomini in divisa che sorvegliavano tutti quelli che entravano e uscivano. Erano armati e i loro visi erano duri, minacciosi. Si sentì mancare il fiato mentre li oltrepassava, i tacchi delle scarpe che risuonavano sul marciapiede.
     A un tratto qualcuno fischiò, gridando: – Alt! Si fermi!
     Kristine si voltò col cuore in gola. Se l’avessero perquisita come avrebbe giustificato il fatto di portare con sé dei documenti di viaggio falsi, intestati a un certo Mark Hoffmann? Dall’altro lato della strada scorse alcune giovani ridacchiare in modo chiassoso, ma nessuna via di fuga. Kristine vide l’uomo con l’uniforme della Gestapo avvicinarsi a lei, il mitra stretto fra le braccia muscolose. Il suo sguardo era minaccioso. Trattenne il respiro. Poi si accorse che una delle ragazze sull’altro marciapiede si stava sbracciando verso di lei. – Kristine! – la chiamò, agitando una mano affusolata.
     – Anja – esclamò lei, con un sospiro di sollievo. – Sei in ritardo! Stavo per andarmene, lo sai?
     L’uomo in divisa la scrutò accigliato, infine le fece un cenno con la testa. – Può andare.
     Kristine abbracciò Anja così stretta da rischiare di soffocarla. – Ti spiego dopo – le sussurrò, afferrandola per mano e allontanandosi con lei. Ancora non riusciva a credere di averla passata liscia. Probabilmente gli agenti della Gestapo si erano insospettiti, vedendola entrare nel caffè per poi uscire subito dopo, senza ordinare nulla. Dovevano averla vista parlare con l’uomo con gli occhiali, attraverso i vetri delle finestre. Se Anja non fosse passata casualmente di lì, non avrebbe avuto scampo. Accelerò il passo. – Vieni, accompagnami fino al negozio – le disse, la gola che le bruciava per le lacrime trattenute.
     Anja non fece domande e la seguì.

* * * * * * * * * *

Berlino, luglio 1946

Kristine si asciugò la fronte madida di sudore. Faceva molto caldo in quella mattina d’estate e in cielo non si scorgeva una nuvola. Forse un po’ di pioggia avrebbe dato sollievo ai Berlinesi impegnati nella ricostruzione della città, dopo la distruzione della guerra.
     Sospirò, guardando fuori dalla finestra del negozio di fiori. La sua principale era uscita per dare una mano alle Trümmerfrauen, le donne delle macerie, e toccava a lei badare al negozio. Per fortuna Anja l’aiutava con le consegne. Aveva cominciato a lavorare anche lei in negozio e il loro rapporto si era fatto di giorno in giorno più affettuoso. Ne avevano passate tante, sarebbe stato sciocco e infantile non tentare di ricucire quel che rimaneva dei legami familiari, specie quando c’era chi una famiglia non l’aveva più.
     A un tratto un uomo attraversò la strada di corsa. Era alto e muscoloso, con capelli scuri che gli ricadevano disordinati sulla fronte. Un senso di deja-vu la fece tremare. Quell’uomo le ricordava qualcuno che continuava a popolare i suoi sogni, nelle notti solitarie trascorse nel piccolo appartamento che divideva con Anja.
     Il tizio muscoloso entrò nel negozio, facendo risuonare il campanello sulla porta. Indossava abiti eleganti, di gran classe, e la fissava con un sorriso talmente affascinante che toglieva il fiato.
     – Buongiorno Frau Böhm – disse, i denti bianchi che scintillavano come pietre preziose.
     Kristine sentì le ginocchia che le cedevano. Spalancò la bocca per dire qualcosa, ma si accorse di non riuscire a parlare. Allora si schiarì la gola e fece un altro tentativo. – Jacob? Sei proprio tu?
     Se era un sogno, non voleva svegliarsi.
     Lui la guardò con tenerezza. I suoi occhi scuri erano penetranti come li ricordava. Bellissimi.
     – Sono proprio io. Sono tornato a prenderti.
     – A prendermi? – Non era sicura di aver udito bene. Non era preparata a quello. Pensava che non lo avrebbe rivisto più, dopo la sua fuga da Berlino.
     Jacob mosse qualche passo verso di lei, finché non si trovarono talmente vicini da poter sentire il suo fiato sul collo. Le afferrò la nuca, attirandola ancora più vicino, mentre le sue labbra cercavano quelle di lei. Aveva quasi dimenticato la dolcezza dei suoi baci.
     Quasi.
     – Avevo giurato a me stesso che sarei tornato da te, dopo la guerra, se fossi sopravvissuto. Ebbene, eccomi. Adesso ho una buona posizione a Londra, dove vivo. Posso offrirti uno stile di vita più che decoroso. Niente più incontri clandestini, niente più fughe, niente più pericoli.
     Kristine sbattè le ciglia, le lacrime che affioravano agli occhi, impedendole di vedere bene. – Mi stai chiedendo di…
     – Sì, Frau Böhm. Ti sto chiedendo di sposarmi. Allora, cosa mi rispondi? Non avrai intenzione di lasciarmi sulle spine, non è vero?
     Lei sentì un groppo in gola. Non riusciva a crederci. Poi si gettò fra le sue braccia. – Sì, sì, sì… mille volte sì.
     La sollevò da terra per farla volteggiare. Infine le loro labbra si unirono di nuovo in un bacio lento e avvolgente, senza fine.

FINE


CHI E' L'AUTRICE
Laura Gay nasce a Genova nel 1970. Esordisce come scrittrice nel 2008 con un romanzo storico:Edmond e Charlotte. Le scelte dell'amore, edito da Enrico Folci Editore, e da allora non si è più fermata.
Ha pubblicato La figlia del re di Francia con la 0111 Edizioni e due time travel: Prigioniera del tempo Ovunque sarai, editi da Boopen. Un suo racconto dal titolo Ventunesimo piano è apparso sul numero 5 della rivista Romance Magazine e un altro, dal titolo Il risveglio del Crociato, è stato inserito nell’antologia 365 storie d’amore, edita da Delos Books. Sul blog ha partecipato con suoi racconti a varie rassegne. Ricordiamo fra gli altri: L'estate del primo amore  e  Resta con me  e il recente  Bad Boy. 

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2 commenti:

  1. Il periodo storico è da sempre uno di quelli che preferisco di più. E il racconto scorre fluido, ben scritto, con due personaggi intensi, dettagli storici precisi e una storia d'amore piena di eros e di sentimento. Non facile gestire tutto questo nella sintesi di un racconto. Brava Laura. Mi è piaciuto molto.

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  2. Sono d'accordo con Virginia su tutto, aggiungo solo che l'aspetto che ho preferito è quello della tensione, una vera suspense mantenuta alta fino alla fine, si avverte nitidamente il senso del costante pericolo che corrono i protagonisti, l'ansia quasi insopportabile di rischiare la vita, o molto peggio come suggerisce Jacob, in ogni momento, veramente brava. E quel finale, poi...ci speravo proprio.

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