LE STAGIONI DEL CUORE presenta...TORNERAI, TORNERO' di Elisabetta Fiumeri

Luglio: l'estate è scoppiata! Che siamo al mare, ai monti o ancora in città, ci meritiamo qualche minuto tutto per noi e una bella storia con cui iniziare bene la giornata. Questo mese RACCONTI PER UN ANNO triplicherà gli appuntamenti . Il racconto di oggi è di ELISABETTA FLUMERI, che abbiamo conosciuto come curatrice del libro La Vie en Rose - Letteratura rosa e bisogni femminili (vedi qui). TORNERAI, TORNERO'  è la storia di un ricordo, che ha il sapore delle estati di un tempo, quelle accompagnate dalle 'canzoni tormentone', a cui ci legano sensazioni dolci e melanconiche al tempo stesso. Che piacere poterci ritornare, anche se solo per un breve momento! Buona lettura.

Mia sorella ha cominciato a vomitare.  Soffre ogni mezzo di locomozione.  Mamma sta cercando di tamponare la situazione quando la porta dello scompartimento si apre e compare lui. E’ biondissimo, bellissimo … e fissa disgustato mia sorella. Io faccio finta di non conoscerla. Di stare per conto mio. Lui richiude la porta senza una parola. In questo momento odio mia sorella. 
Si guardò  intorno. Stupita. 
Il vagone era così diverso da quello che in un tempo ormai remoto la conduceva d’estate a Ortona. Si diede della sciocca. Cosa si era aspettata? La vecchia littorina dalle poltrone di velluto rosso col poggiatesta di batista bianca dello scompartimento di prima classe? Suo padre, all’epoca, era il direttore generale di una importante impresa  edile, impegnata nella costruzione di un lotto della nuova autostrada abruzzese, che avrebbe finalmente permesso di raggiungere la costa senza quel viaggio da far west, quel saliscendi da montagne russe sulla vecchia statale attraverso paesi inerpicati in luoghi inaccessibili. Un viaggio avventuroso che a lei, che non era debole di stomaco, piaceva. Se c’era sua sorella, invece, prendevano il treno. E quando, finalmente, uno scintillio all’orizzonte rivelava l’avvicinarsi del mare provava ogni volta un meraviglioso senso di eccitazione. Come se fosse il premio di quel viaggio, un Graal agognato e finalmente a portata di mano.
Quando l’autostrada era stata ultimata, c’erano stati altri lavori, altre città. Ma alcuni amici erano rimasti. Grazie a internet e skype i contatti non si erano perduti e ora Francesco, per i suoi 50 anni, aveva avuto quell’idea: riunire tutti, anche se sparsi per l’Italia, per una grande festa di tre giorni al mitico “Miramare”, lo stabilimento di proprietà della sua famiglia. Aveva esitato prima di accettare. Temeva un amarcord dal sapore un po’ stantio di grande freddo, ma poi si era lasciata convincere. E, d’impulso, aveva deciso di lasciare la macchina in garage e di prendere il treno. Ma ora, di fronte a quel corridoio asettico, dove la privacy era bandita, a quelle poltrone dalle stoffe ruvide e anonime, rimpianse lo scompartimento che il padre prendeva tutto per loro, una piccola casa di bambola, nel suo immaginario di dodicenne, dove quel giorno si era affacciato “lui” e lei, con gli occhi fissi sul suo caschetto biondo, per un attimo aveva sperato che le rivolgesse la parola, malgrado sua sorella. E poi, quando quel primo desiderio si era avverato, aveva inviato una fervida preghiera al Dio della sua infanzia, quello con la barba bianca e lo sguardo buono, perché il viaggio non finisse mai…
Sedette.

Sono uscita nel corridoio. Lo vedo subito. E’ seduto, chissà perché, sullo strapuntino e sta leggendo. Mi avvicino. Il cuore mi batte a mille ma cerco di avere un’aria indifferente. Non so bene cosa fare, sto per tornare indietro quando lui alza la testa e fa: “Ciao”.
  “Ciao…” Dico la prima cosa che mi passa per la mente: “Cosa leggi?”
Gira la copertina per mostrarmela: Le tigri della Malesia, Emilio Salgari.
“Scommetto che non lo conosci, non è roba da femmine”. La stessa faccia del mio amico Francesco quando gli ho detto che, se facevamo una corsa sulla spiaggia, avrei vinto io.
“Sandokan, Yanez, Tremal-naik , Kammamuri, Sambigliong, Giro Batol” tiro fuori tutto di un fiato.
E ora fa la stessa identica faccia di Francesco, quando sono arrivata prima al traguardo.
“Leggi Salgari?!?” sembra proprio che non ci riesca a credere.
“Li ho letti tutti”.
“Io veramente pensavo che le femmine leggessero Piccole Donne e quella roba lì”.
“Mica siamo tutte uguali!”
Non sembra convinto. Gli dico di Francesco, che credeva di essere il più  veloce della spiaggia.
“Pensi che sia una bugiarda?”
Mi guarda strano. “Eppure sembri proprio una femmina…femmina”
Mi viene da ridere. “E com’è una femmina femmina?”
Diventa rosso. Poi si allontana, entra nel suo scompartimento e dopo poco torna con un foglietto piegato in quattro. Me lo dà  senza dire niente. Sono proprio curiosa. Lo apro e leggo: “Con la bocca da baciare”. Adesso sono io che divento rossa. Anzi, rossissima. Non so più dove guardare. Per fortuna arriva mia madre: devo tornare nello scompartimento per tenere compagnia a  mia sorella. Lo saluto, sempre senza riuscire a guardarlo.
Gli occhi chiusi, cercò di riafferrare quell’emozione. Per un attimo credette di esserci riuscita. I ricordi affiorarono in superficie ma, come pesci dei fondali profondi, storditi, disorientati dalla luce del presente. La mappa del suo immaginario emotivo si sovrapponeva al paesaggio reale, che dal finestrino le sfilava davanti in una successione di quadri che declinavano tutte le tonalità diverse del verde, per confondersi poi con le sfumature blu del mare. I nomi familiari delle stazioni, che ripassava tra sé come una litania, emergevano dall’inconscio, nitidi e, quelli sì, ancora reali.
Gli scheletri dei trabocchi, velati dalla foschia, le apparvero avamposti di un regno di fantasia, sentinelle messe a guardia di un mondo indimenticato, che esisteva  ancora da qualche parte dentro di lei. In quella parte bambina che non era mai cresciuta. I luoghi, pensò, sono i custodi delle nostre fantasie.
Lo sai cosa sono quelli?”
“Sembrano palafitte”
Ride. “Si chiamano trabocchi, servono per la pesca. Io ci sono stato a vedere i  pescatori tirare su le reti”
“Mi piacerebbe salirci…ma non è pericoloso?”
Ride ancora. Ha i denti bianchissimi. “No, se ci vai con qualcuno che li conosce”.
Mi guarda e mi accorgo che i suoi occhi cambiano colore come quelli del mare che scorre fuori del finestrino. Adesso sono verdi.
“Ti ci porto io”.
Guardo la sagoma del trabocco, da qui sembra un galeone, o forse un praho, pronto a salpare, come se stesse per alzare le vele, c’è anche la cabina di comando…Faccio un sogno a occhi aperti, come quando la sera, prima di addormentarmi, mi racconto una storia. Dove io sono la Perla di Labuan o Honorata van Gould, di cui si è innamorato il Corsaro Nero, anche se è la figlia del suo peggior nemico. Adesso sono lei. Lui mi prende per mano, camminiamo, poi corriamo verso quella barca che è la nostra salvezza, mi aiuta a salire, scivolo, mi tiene stretta e, una volta su, dà il comando di sciogliere gli ormeggi e guardiamo insieme verso l’orizzonte infinito, verso la libertà, verso…
“Ehi!” fa lui. “Ti sei incantata?”
Ecco, ha detto la parola giusta.  In questo momento  lo vedo vestito tutto di nero, con gli stivali alla scudiera , il cappello con la lunga piuma e la spada dall’elsa incrostata di pietre preziose… ma certo mica glielo posso dire!
“Allora, ci vieni con me sul trabocco?”
Faccio sì  con la testa.
“Poi ti porto col canotto in una caletta bellissima, si chiama Cala Turchina…”
Lui parla ed è come se davanti agli occhi mi scorresse un film: io e lui soli sul canotto, intorno a noi il silenzio, lui rema e io guardo il mare trasparente, i sassi bianchi, il verde delle piante che sfiorano l’acqua, i gabbiani sugli scogli…mi sembra anche di sentire il vento tra  i capelli e il rumore delle onde…


… il rumore che le giungeva alle orecchie in un crescendo fastidioso non era decisamente quello delle onde. Il ragazzo della poltrona accanto aveva tirato fuori una play-station portatile e avviato un gioco a base di sparatorie e combattimenti intergalattici e si mostrò del tutto impermeabile alle sue occhiate infastidite. Lei allora cercò di erigere una barriera mentale che la mettesse al riparo dall’invasione di quei suoni, perché non prendesse il sopravvento sui suoi pensieri. A poco a poco il suono si affievolì, fino a diventare solo un ronzio fastidioso alla periferia della mente. Detestava i giochi elettronici. Aveva acquistato per curiosità il primo Nintendo ma si era subito arenata di fronte alle difficoltà che Super Mario doveva superare. Aveva ritentato in seguito con i figli, ma il risultato era stato lo stesso: sotto le sue dita refrattarie, la pulsantiera dava impulsi contrapposti e contraddittori e Lara Croft continuava a precipitare dalle pareti del burrone o a perdersi all’infinito nel labirinto. Il “game over” a tempo di record era garantito.  Con l’incondizionata approvazione dei figli, aveva rinunciato. Anche se aveva imparato l’uso – elementare - del computer e di internet per cause di forza maggiore, era rimasta legata ai vecchi giochi della sua infanzia, che i suddetti figli consideravano con una certa compassionevole condiscendenza: Monopoli, battaglia navale, scarabeo, dama cinese…
“Gli piaccio, gli piaccio, gli piaccio…” mi sembra di scoppiare se sto zitta e non riesco a trattenermi. Ma anche se l’ho detto a voce bassa, mia sorella deve sempre impicciarsi:
“Che dici? Perché non fai la mossa?”
Fisso i due schieramenti di palline colorate della dama cinese. Tocca a me, ma la mia testa è da un’altra parte.
“Niente, cose mie. E adesso non mi va di giocare”.
“Mammaaa! “ urla la rompiscatole. “Ali non vuole giocare!”
Mia madre interviene: “Ali, per favore…”
“Mamma, scusa, ma non mi va proprio…”
Mia sorella comincia a piagnucolare, mia madre mi lancia un’occhiata di rimprovero, che io faccio finta di non vedere, e cerca di distrarla:
“Dai Isi, guarda i contadini con le mucche là nel prato…perché non cantiamo quella canzone che ti piaceva tanto? ”  e attacca “All’alba quando spunta il sole, là nell’Abruzzo tutto d’or…” ma non funziona.
Isi prende la dama e la butta a terra, con le palline che finiscono da tutte le parti.
“Voglio giocare a dama!”  urla.
Mamma allora le molla uno scapaccione e Isi strilla ancora più forte. Io raccolgo in fretta i pezzi della dama e sgattaiolo fuori dallo scompartimento.
“Vado a fare un giro, torno tra poco” dico, ma nessuno sembra sentirmi.
Lui è sempre lì.
“Ti aspettavo” mi dice.
E io mi sento come quando mi stanno  per venire i crampi allo stomaco. Ma che c’entra il cuore con lo stomaco? Forse sono collegati e io non  lo sapevo…
Mi prende il gioco dalle mani.
“ Giochi a dama cinese?”
“Sì, ma non mi andava di fare una partita con mia sorella”
Mi fa uno dei suoi bellissimi sorrisi.
“ E con me?”
La risposta la conosce già.
Ci sediamo in uno scompartimento vuoto, la dama fra di noi. Io in genere sono bravissima, ma stavolta è come se mi si fosse paralizzato il cervello. Non riesco a fare neanche le mosse più stupide. E’ chiaro che il cervello è collegato pure lui al cuore e allo stomaco! Davanti al mio ennesimo errore, lui mi ferma:
“Aspetta…” appoggia la mano sulla mia “Potevi fare così…”
Mi sembra che la mano mi stia andando a fuoco. Però  vorrei che non la togliesse più.  Mi fa fare la mossa giusta, sempre tenendomi la mano con la sua.
“Meglio, no?” la mano è ancora lì, sulla mia.
Vorrei parlare, ma ho la bocca secca. Vorrei dirgli che è il ragazzo più bello che abbia mai visto, ma poi sprofonderei sotto il treno.
“I vostri biglietti, per favore”.
Il controllore ci guarda.
Noi lo guardiamo.
Le nostre mani si allontanano.

Il treno rallentò. Accanto ai binari, su una baracchetta di legno, dipinta in rosso vivo campeggiava la scritta “ARROSTICINI”.
Il profumo della carne arrostita si diffuse nel vagone.
Quel profumo. E quel sapore, che non avrebbe mai dimenticato.
Se avesse dovuto rispondere alla domanda di uno di quegli stupidi quiz da ombrellone - Qual è il sapore del primo amore? -  non avrebbe avuto dubbi: per lei il primo amore sapeva di arrosticini. 
  “Ti piacciono gli arrosticini?”
Lui si sporge dal finestrino e compra un cartoccio di spiedini dal venditore che passa col carrettino lungo i binari.
“Ne vuoi uno?”
“No grazie”.
Anche se mi piacciono un sacco, in questo momento il mio stomaco rifiuta qualsiasi cosa. Sarà per la storia del collegamento col cuore.
Si vede che i ragazzi funzionano diversamente, perché lui, invece, se ne mangia due come se fosse affamato.
Poi mi fissa: “Scommettiamo che se facciamo una gara di corsa ti batto?”
“Cos’è? Una sfida?”
Annuisce. “Chi perde paga pegno”.
Un’altra stretta allo stomaco.
“E dove la faresti questa gara?”
Indica il corridoio vuoto: “Qui”.
Le porte degli scompartimenti sono chiuse. Le tende tirate. La gente riposa.
“Però se ci vede il controllore, o mia madre…”
“E dai, non fare la donnicciola!”
Vedo rosso. Quella parola non doveva proprio dirla.
”Facciamo questa gara”.
Contiamo insieme: uno due tre…via!
E’ veloce, ma io di più. Lo supero, mi raggiunge, ci spingiamo, il corridoio è stretto, siamo uno addosso all’altra, è come una lotta ma non è una lotta, è una sensazione che non ho mai provato, vorrei che non finisse mai…Perché ho l’impressione che lui rallenti di proposito? 
  “Ho vinto” fatico a parlare “tocca te pagar pegno”.
Sorride… e sembra che non gli dispiaccia per niente…
Di colpo è buio. Siamo entrati in una galleria. Le luci del corridoio non funzionano. Non lo vedo, ma sento il suo respiro accelerato a pochi centimetri da me.
“Dire fare baciare lettera testamento “ gli dico tutto d’un fiato.
Un attimo di silenzio, poi:
“Baciare”.
Restiamo immobili. Ho un rombo nelle orecchie, non so se è il treno o il mio cuore matto, come quello di Little Tony. Poi sento qualcosa di caldo e morbido sulle labbra. E quel meraviglioso sapore di arrosticini. E di lui.
Chiudo gli occhi, anche se è buio. 
Una volta qualcuno le aveva chiesto cosa era per lei la felicità.  Lì per lì  non aveva saputo rispondere. Adesso avrebbe detto che erano degli attimi. Solo attimi, ma   capaci di rimanere stampati nel cuore e nella mente per tutta la vita.
Come quel primo bacio.

Siamo vicini, appoggiati al finestrino. Guardiamo fuori, ma le nostre mani si sfiorano. Non parliamo. Restiamo così, in silenzio, ma è come se ci stessimo dicendo tante cose. A un certo punto una nuvola nera, spuntata non so da dove, copre il sole. Il mare diventa grigio piombo. E anche i suoi occhi. Ho i brividi, ma non fa freddo. Una ventata fa entrare dal finestrino delle foglie secche. Cosa c’entrano con l’estate? Sono strane lì per terra, vicino ai nostri piedi. Lo guardo e all’improvviso mi  viene una grande tristezza e non so perché.
Il treno entra in una stazione. La sua.
“Devo scendere”.
“Lo so”.
“Magari ci vediamo sul treno al ritorno”.
“Magari…sì”.
Non riesco a guardarlo. Lui mi alza il viso e i suoi occhi adesso sono nei miei.
“ Mi chiamo Gianni”.
“Io Alice…”.
Prende dalla tasca il biglietto del treno e scrive qualcosa con un mozzicone di matita.
Poi me lo dà.
“Ciao, Alice”.
Dopo un attimo non c’è più.
Leggo il biglietto, c’è scritto: ”Ad Alice. Non ti dimenticherò mai. Gianni”.

Il suo sguardo non riusciva a staccarsi dalla fuga dei binari che correvano davanti a lei, paralleli, incrociati, sovrapposti e di nuovo lontani.  Come la vita. Due persone si incontrano, per un istante sono una,  poi riprendono la propria strada e si perdono.
Per poi incrociarsi di nuovo?
Non sapeva dove fosse salito. Se lo ritrovò di colpo di fronte. Un cenno di saluto impersonale e sedette davanti a lei.
Gli occhi. Quegli occhi. I suoi occhi.
Era possibile?
Alla fine si decise.
- Scusi…
Lui sollevò  lo sguardo dal giornale
E lei non ebbe più dubbi.
- Sì…? La guardava incuriosito.
- Gianni…
Tese la mano verso di lui. 
Un fischio stridulo. Uno scossone d’arresto.
Si svegliò  di colpo. La mano ancora a mezz’aria.
Protesa verso il sedile di fronte. Vuoto.
Un altoparlante annunciò: “Stazione di Ortona”.
Si alzò  lentamente.
Era arrivata.
Gianni non c’è.
L’ho cercato per tutto il treno. Mentre percorro per un’ultima e inutile volta il corridoio, qualcuno accende una radio e le parole della canzone mi arrivano dalla porta socchiusa dello scompartimento:
“Tornerai… tornerò,
ridicolo pensarci amore mio
al primo incontro  è stato già un addio,
tornerai… tornerò.”
 
 VI RICORDATE QUELLA CANZONE?

CHI E' L'AUTRICE

Elisabetta Flumeri , lavora da anni in coppia con Gabriella Giacometti . Esordiscono come autrici di romanzi rosa e fotoromanzi, per poi passare a scrivere per la radio, la pubblicità e le riviste per ragazzi. Pubblicano anche diverse guide per gli Oscar Mondadori e successivamente lavorano come sceneggiatrici televisive di lunga serialità, affrontando generi diversi, dalla commedia al sentimentale, dal ‘legal’ al dramma in costume. Nello stesso tempo operano come editors e supervisori di fiction tv e tengono corsi di scrittura creativa per insegnanti e alunni delle scuole elementari e medio superiori.

VI E' PIACIUTO TORNERAI, TORNERO' ? GLI AMORI SOLO SOGNATI, MAI DAVVERO REALIZZATI, DELLA NOSTRA VITA, QUELLI CHE CI HANNO PROCURATO I PRIMI BATTICUORI, SONO COMUNQUE AMORI?  ASPETTIAMO I VOSTRI COMMENTI.

3 commenti:

  1. Racconto molto interessante e fluido.Complimenti all'autrice.

    RispondiElimina
  2. Cassandra Rocca04/07/12, 21:04

    Se dovessi descriverlo con una sola parola, direi "Evocativo"!
    Bello, mi è piaciuto, anche se è un po' malinconico... Le descrizioni rendono bene l'idea, sembrava di stare su quel treno :)
    Complimenti!
    Cassie

    RispondiElimina
  3. Mi è piaciuta molto la scelta dell'autrice di portare avanti la trama su due scansioni temporali diverse, nn dev'essere facile, si vede che ha una dimestichezza con l'attività della scrittura che si acquisisce con l'esperienza.

    Gli amori sognati tali devono restare, secondo me, pena cocenti delusioni. Il passato è passato e nn ritorna, mai.

    RispondiElimina

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