…
il rumore che le giungeva alle orecchie in un crescendo fastidioso non
era decisamente quello delle onde. Il ragazzo della poltrona accanto
aveva tirato fuori una play-station portatile e avviato un gioco a base
di sparatorie e combattimenti intergalattici e si mostrò del tutto
impermeabile alle sue occhiate infastidite. Lei allora cercò di erigere
una barriera mentale che la mettesse al riparo dall’invasione di quei
suoni, perché non prendesse il sopravvento sui suoi pensieri. A poco a
poco il suono si affievolì, fino a diventare solo un ronzio fastidioso
alla periferia della mente. Detestava i giochi elettronici. Aveva
acquistato per curiosità il primo Nintendo ma si era subito arenata di
fronte alle difficoltà che Super Mario doveva superare. Aveva
ritentato in seguito con i figli, ma il risultato era stato lo stesso:
sotto le sue dita refrattarie, la pulsantiera dava impulsi contrapposti
e contraddittori e Lara Croft continuava a precipitare dalle pareti
del burrone o a perdersi all’infinito nel labirinto. Il “game over” a
tempo di record era garantito. Con l’incondizionata approvazione dei
figli, aveva rinunciato. Anche se aveva imparato l’uso – elementare -
del computer e di internet per cause di forza maggiore, era rimasta
legata ai vecchi giochi della sua infanzia, che i suddetti figli
consideravano con una certa compassionevole condiscendenza: Monopoli,
battaglia navale, scarabeo, dama cinese…
“Gli
piaccio, gli piaccio, gli piaccio…” mi sembra di scoppiare se sto
zitta e non riesco a trattenermi. Ma anche se l’ho detto a voce bassa,
mia sorella deve sempre impicciarsi:
“Che dici? Perché non fai la mossa?”
Fisso i due schieramenti di palline colorate della dama cinese. Tocca a me, ma la mia testa è da un’altra parte.
“Niente, cose mie. E adesso non mi va di giocare”.
“Mammaaa! “ urla la rompiscatole. “Ali non vuole giocare!”
Mia madre interviene: “Ali, per favore…”
“Mamma, scusa, ma non mi va proprio…”
Mia
sorella comincia a piagnucolare, mia madre mi lancia un’occhiata di
rimprovero, che io faccio finta di non vedere, e cerca di distrarla:
“Dai
Isi, guarda i contadini con le mucche là nel prato…perché non
cantiamo quella canzone che ti piaceva tanto? ” e attacca “All’alba
quando spunta il sole, là nell’Abruzzo tutto d’or…” ma non funziona.
Isi prende la dama e la butta a terra, con le palline che finiscono da tutte le parti.
“Voglio giocare a dama!” urla.
Mamma
allora le molla uno scapaccione e Isi strilla ancora più forte. Io
raccolgo in fretta i pezzi della dama e sgattaiolo fuori dallo
scompartimento.
“Vado a fare un giro, torno tra poco” dico, ma nessuno sembra sentirmi.
Lui è sempre lì.
“Ti aspettavo” mi dice.
E
io mi sento come quando mi stanno per venire i crampi allo stomaco.
Ma che c’entra il cuore con lo stomaco? Forse sono collegati e io non
lo sapevo…
Mi prende il gioco dalle mani.
“ Giochi a dama cinese?”
“Sì, ma non mi andava di fare una partita con mia sorella”
Mi fa uno dei suoi bellissimi sorrisi.
“ E con me?”
La risposta la conosce già.
Ci
sediamo in uno scompartimento vuoto, la dama fra di noi. Io in genere
sono bravissima, ma stavolta è come se mi si fosse paralizzato il
cervello. Non riesco a fare neanche le mosse più stupide. E’ chiaro
che il cervello è collegato pure lui al cuore e allo stomaco! Davanti
al mio ennesimo errore, lui mi ferma:
“Aspetta…” appoggia la mano sulla mia “Potevi fare così…”
Mi
sembra che la mano mi stia andando a fuoco. Però vorrei che non la
togliesse più. Mi fa fare la mossa giusta, sempre tenendomi la mano
con la sua.
“Meglio, no?” la mano è ancora lì, sulla mia.
Vorrei
parlare, ma ho la bocca secca. Vorrei dirgli che è il ragazzo più
bello che abbia mai visto, ma poi sprofonderei sotto il treno.
“I vostri biglietti, per favore”.
Il controllore ci guarda.
Noi lo guardiamo.
Le nostre mani si allontanano.
Il treno rallentò. Accanto ai binari, su una baracchetta di legno, dipinta in rosso vivo campeggiava la scritta “ARROSTICINI”.
Il profumo della carne arrostita si diffuse nel vagone.
Quel profumo. E quel sapore, che non avrebbe mai dimenticato.
Se
avesse dovuto rispondere alla domanda di uno di quegli stupidi quiz da
ombrellone - Qual è il sapore del primo amore? - non avrebbe avuto
dubbi: per lei il primo amore sapeva di arrosticini.
“Ti piacciono gli arrosticini?”
Lui si sporge dal finestrino e compra un cartoccio di spiedini dal venditore che passa col carrettino lungo i binari.
“Ne vuoi uno?”
“No grazie”.
Anche
se mi piacciono un sacco, in questo momento il mio stomaco rifiuta
qualsiasi cosa. Sarà per la storia del collegamento col cuore.
Si vede che i ragazzi funzionano diversamente, perché lui, invece, se ne mangia due come se fosse affamato.
Poi mi fissa: “Scommettiamo che se facciamo una gara di corsa ti batto?”
“Cos’è? Una sfida?”
Annuisce. “Chi perde paga pegno”.
Un’altra stretta allo stomaco.
“E dove la faresti questa gara?”
Indica il corridoio vuoto: “Qui”.
Le porte degli scompartimenti sono chiuse. Le tende tirate. La gente riposa.
“Però se ci vede il controllore, o mia madre…”
“E dai, non fare la donnicciola!”
Vedo rosso. Quella parola non doveva proprio dirla.
”Facciamo questa gara”.
Contiamo insieme: uno due tre…via!
E’
veloce, ma io di più. Lo supero, mi raggiunge, ci spingiamo, il
corridoio è stretto, siamo uno addosso all’altra, è come una lotta ma
non è una lotta, è una sensazione che non ho mai provato, vorrei che
non finisse mai…Perché ho l’impressione che lui rallenti di proposito?
“Ho vinto” fatico a parlare “tocca te pagar pegno”.
Sorride… e sembra che non gli dispiaccia per niente…
Di
colpo è buio. Siamo entrati in una galleria. Le luci del corridoio
non funzionano. Non lo vedo, ma sento il suo respiro accelerato a pochi
centimetri da me.
“Dire fare baciare lettera testamento “ gli dico tutto d’un fiato.
Un attimo di silenzio, poi:
“Baciare”.
Restiamo
immobili. Ho un rombo nelle orecchie, non so se è il treno o il mio
cuore matto, come quello di Little Tony. Poi sento qualcosa di caldo e
morbido sulle labbra. E quel meraviglioso sapore di arrosticini. E di
lui.
Chiudo gli occhi, anche se è buio.
Una
volta qualcuno le aveva chiesto cosa era per lei la felicità. Lì per
lì non aveva saputo rispondere. Adesso avrebbe detto che erano degli
attimi. Solo attimi, ma capaci di rimanere stampati nel cuore e
nella mente per tutta la vita.
Come quel primo bacio.
Siamo
vicini, appoggiati al finestrino. Guardiamo fuori, ma le nostre mani
si sfiorano. Non parliamo. Restiamo così, in silenzio, ma è come se ci
stessimo dicendo tante cose. A un certo punto una nuvola nera,
spuntata non so da dove, copre il sole. Il mare diventa grigio piombo. E
anche i suoi occhi. Ho i brividi, ma non fa freddo. Una ventata fa
entrare dal finestrino delle foglie secche. Cosa c’entrano con
l’estate? Sono strane lì per terra, vicino ai nostri piedi. Lo guardo e
all’improvviso mi viene una grande tristezza e non so perché.
Il treno entra in una stazione. La sua.
“Devo scendere”.
“Lo so”.
“Magari ci vediamo sul treno al ritorno”.
“Magari…sì”.
Non riesco a guardarlo. Lui mi alza il viso e i suoi occhi adesso sono nei miei.
“ Mi chiamo Gianni”.
“Io Alice…”.
Prende dalla tasca il biglietto del treno e scrive qualcosa con un mozzicone di matita.
Poi me lo dà.
“Ciao, Alice”.
Dopo un attimo non c’è più.
Leggo il biglietto, c’è scritto: ”Ad Alice. Non ti dimenticherò mai. Gianni”.
Il
suo sguardo non riusciva a staccarsi dalla fuga dei binari che
correvano davanti a lei, paralleli, incrociati, sovrapposti e di nuovo
lontani. Come la vita. Due persone si incontrano, per un istante sono
una, poi riprendono la propria strada e si perdono.
Per poi incrociarsi di nuovo?
Non sapeva dove fosse salito. Se lo ritrovò di colpo di fronte. Un cenno di saluto impersonale e sedette davanti a lei.
Gli occhi. Quegli occhi. I suoi occhi.
Era possibile?
Alla fine si decise.
- Scusi…
Lui sollevò lo sguardo dal giornale
E lei non ebbe più dubbi.
- Sì…? La guardava incuriosito.
- Gianni…
Tese la mano verso di lui.
Un fischio stridulo. Uno scossone d’arresto.
Si svegliò di colpo. La mano ancora a mezz’aria.
Protesa verso il sedile di fronte. Vuoto.
Un altoparlante annunciò: “Stazione di Ortona”.
Si alzò lentamente.
Era arrivata.
Gianni non c’è.
L’ho cercato per tutto il treno. Mentre percorro per un’ultima e
inutile volta il corridoio, qualcuno accende una radio e le parole
della canzone mi arrivano dalla porta socchiusa dello scompartimento:
“Tornerai… tornerò,
ridicolo pensarci amore mio
al primo incontro è stato già un addio,
tornerai… tornerò.”
Racconto molto interessante e fluido.Complimenti all'autrice.
RispondiEliminaSe dovessi descriverlo con una sola parola, direi "Evocativo"!
RispondiEliminaBello, mi è piaciuto, anche se è un po' malinconico... Le descrizioni rendono bene l'idea, sembrava di stare su quel treno :)
Complimenti!
Cassie
Mi è piaciuta molto la scelta dell'autrice di portare avanti la trama su due scansioni temporali diverse, nn dev'essere facile, si vede che ha una dimestichezza con l'attività della scrittura che si acquisisce con l'esperienza.
RispondiEliminaGli amori sognati tali devono restare, secondo me, pena cocenti delusioni. Il passato è passato e nn ritorna, mai.