DARK SHADOWS di Tim Burton, con Johnny Depp, Michelle Pfeiffer, Helena Bonham Carter, Eva Green, Chloe Moretz
Verso
metà Settecento la famiglia Collins, con il piccolo Barnabas, parte
dall'Inghilterra diretta in Maine, dove impianta una fiorente attività
commerciale dando vita anche ad un porto, Collinsport.
Gli anni passano e Barnabas, un ragazzo bello e ricco, s'innamora
della dolce ed eterea Josette, scatenando le ire di Angelique, che lo
ama fin dall'infanzia, ma che, purtroppo per Barnabas, è anche una
potente e crudele strega. La sua vendetta non si fa attendere: Josette
sarà indotta al suicidio e Barnabas, disperato, la segue, ma viene
trasformato da Angelique in vampiro. Seppellito come "non-morto",
Barnabas si risveglia nel 1972 ritrovando vecchie conoscenze, mentre la
sua città, la sua casa e i suoi discendenti versano in evidenti
difficoltà.
Il film è in perfetto stile Burton, quindi deve
piacere il genere, o almeno, bisogna apprezzarlo, benché a piccole dosi
(come nel mio caso). Burton è forse il meno "allineato" dei registi
americani, o comunque uno refrattario al "mainstream" della mentalità
corrente tra i suoi colleghi e compatrioti.
Il momento più alto di questo suo "disagio" nei confronti della
madrepatria è, a mio modesto avviso, quando Barnabas, risvegliatosi in
un' America a lui completamente estranea, interpreta la gigantesca M di
una notissima catena americana di fast food, come l'iniziale di
Mefistofele; nella sua perfida genialità vale molto di più di qualsiasi
indagine approfondita e di qualsiasi denuncia o protesta.
Tim Burton, californiano purosangue, nato ad una manciata di
chilometri da Los Angeles, vive ormai da anni a Londra, per rifuggire,
secondo la sua stessa ammissione, dal sole implacabile e dalla luce
accecante tipici del "Golden State". Non smentisce la sua personale
preferenza nemmeno in questo film, che è visivamente sfarzoso, una vera
festa per gli occhi e per le orecchie, con una colonna sonora anni '70
che intenerisce anche i cuori di pietra, ma in cui l'atmosfera è
tipicamente dark, gotica, in qualche caso con tocchi
gore, però sempre
filtrata da quella sua ironia leggera, così poco americana e così tanto
inglese.
È ben presente anche un altro dei temi cari al regista,
l'accettazione e l'indulgenza nei confronti di chi è "diverso",
qualunque cosa questo significhi, dei drop out, degli outsider, di
coloro, insomma, che cantano fuori dal coro (battuta chiave: «Be', sono
un licantropo, non facciamone un dramma!»).
GUARDA QUI il trailer del film.
COSMOPOLIS, di David Cronenberg, con Robert Pattinson
Erick
Packer, giovane e brillante supermanager dell'alta finanza di New York,
decide di attraversare la città a bordo della propria fiammante
limousine, corredata di autista e guardia del corpo, per raggiungere il
negozio del suo parrucchiere di fiducia e farsi sistemare il taglio. La
giornata, però, si preannuncia viabilisticamente difficile, in una
città, peraltro, già ampiamente abituata a questo genere di problemi, a
causa della presenza del Presidente degli Stati Uniti. Il viaggio reale
attraverso la città diventa, così, viaggio metaforico attraverso una
drammatica quotidianità dilaniata dalla crisi economica, sociale e di
valori.
Un film fortemente simbolico, non facile da capire
e, infatti, io alcuni spunti li ho colti, per altri sono ancora un po'
in alto mare. Cominciamo dalle cose che ho capito. Prima di tutto è
abbastanza evidente l'opinione del regista sugli intrecci tra politica e
finanza e sulla ormai avvalorata, benché occultata ai più, supremazia
della seconda sulla prima (all'inizio del film, il protagonista Erick
chiede alla propria guardia del corpo a cosa sia dovuto il blocco quasi
totale del già normalmente convulso traffico newyorkese e l'altro
risponde: «Alla visita del Presidente», al che Erick chiede: «Di che
Presidente stiamo parlando?», risposta: «Di quello degli Stati Uniti». A
scanso di equivoci). Anche la ragione che spinge Erick a volersi
spostare a tutti i costi in auto in una giornata così poco indicata è
rivelatoria di quel che pensa il regista della casta dei finanzieri (un
taglio di capelli a fronte di persone che hanno perso il lavoro e non
sanno più dove sbattere la testa).
La limo procede lentamente nel traffico impazzito e questo dà la
possibilità a Erick di far salire ed intrattenersi con varie persone
della sua cerchia di conoscenze, dall'esperto d'informatica alla sua
amante più o meno occasionale con la quale consuma un rapporto sessuale
tra i più angoscianti che mi sia capitato di vedere al cinema,
senz'anima, senza trasporto, senza un minimo non dico di sentimento, ma
nemmeno di coinvolgimento emotivo, semplicemente uno dei tanti impegni
che vanno espletati durante la giornata.
Mentre lo spettatore vede e sente direttamente quanto accade
all'interno dell'auto, fuori si intravedono assembramenti di persone che
protestano per il perdurare di una crisi economica drammatica, per il
lavoro che non c'è, soprattutto protestano contro quell'alta finanza che
è la vera responsabile ultima di tutti i loro problemi. Sintomatico è
il fatto che, all'interno dell'abitacolo, non si senta nulla di tutto
ciò, che si assista solo a scene senza audio, come se si svolgessero in
una specie di acquario, figure sgranate e poco chiare che si muovono
come burattini fuori dai finestrini della limo che rimane impermeabile e
impenetrabile a qualsiasi contatto con il mondo esterno, con la realtà
della vita, così come la finanza rimane indifferente ai problemi
dell'economia reale. Insomma, il regista sembra dirci che questi
signori, poche centinaia di individui, giocano con il futuro e i soldi
che milioni di persone si guadagnano duramente in una vita di lavoro,
senza badare minimamente a ciò che fanno, ad eccezione del proprio
interesse e del proprio tornaconto personale.
Tra gli aspetti più ostici ci sono alcune azioni del protagonista
che, sinceramente, secondo me sfuggono alla logica o, almeno, alla mia
personale comprensione; ad esempio, perché Erick uccide la propria
guardia del corpo? Chi diavolo è il personaggio che Erick incontra verso
la fine del film e che sembra voglia ucciderlo a sua volta? È reale
oppure, mi è venuto anche questo dubbio, rappresenta il senso di colpa
di Erick che alla fine viene fuori? Perché io sono fermamente convinta
che non si possano far certe cose senza pagarne, prima o poi, lo scotto.
Morale della favola, sullo stesso argomento avevo apprezzato molto di più
Margin Call, meno simbolismi e più chiarezza d'intenti.
GUARDA QUI il trailer del film.
MARILYN, di Simon Curtis, con Michelle Williams, Kenneth Branagh
Nell'estate del 1956 Marilyn Monroe,
già diva affermata, arriva in Inghilterra, fresca sposa del
commediografo Arthur Miller, per girare con il grande attore britannico
Lawrence Olivier la commedia Il Principe e la ballerina. La
sceneggiatura si basa sul libro di memorie dello scrittore inglese Colin
Clark che, allora giovane neolaureato ingenuo e sognatore, desideroso
di entrare nel mondo del cinema, accetta un lavoro offertogli quasi per
caso ritrovandosi così a vivere un'intera settimana a stretto contatto
con la diva più desiderata di allora, diventandone il confidente e
assistendo ad un campionario dei drammi che ne costellarono tutta
l'esistenza (un probabile aborto e la fine del rapporto matrimoniale con
Arthur Miller, ancor prima che avesse modo di cominciare).
Per parafrasare un'altra mitica diva e donna
infelice, Rita Hayworth, gli uomini andavano a letto con Marilyn e si
svegliavano con Norma Jean.
Il film narra un'unica settimana
nella vita della diva, dal punto di vista del giovane terzo assistente
al regista (Lawrence Olivier, anche protagonista maschile) della
commedia Il Principe e la ballerina, di cui la Monroe era protagonista femminile.
Marilyn era una grande attrice, purtroppo allora sottovalutata, e, a
giudicare da questo libro di memorie di chi la conobbe così bene,
benché brevemente, anche un'ottima persona, molto dolce, sensibile,
intuitiva ed intelligente. Sfortunatamente era anche fragile ed
estremamente insicura, preda di crisi depressive al sorgere della minima
difficoltà, ogni volta che Olivier la maltrattava per qualche mancanza
sul set o per ogni manifestazione di insensibilità e disinteresse da
parte del neo marito.
Nonostante il film si occupi di una sola settimana nella vita della
diva, si potrebbe definire un'istantanea della sua vita, che però si
rivela rappresentativa di tutti i problemi e i dolori che dovette
affrontare nel corso dell'intero arco della sua esistenza e che, con
ogni probabilità, concorsero a trascinarla verso la fine che sappiamo.
Benché Marilyn, allora, fosse all'apice della carriera e della
notorietà, il film lascia trasparire in filigrana una malinconia
diffusa, un ineluttabile senso di una fine incombente, se non sapessimo
già tutto probabilmente lo immagineremmo e, forse, lo immaginava già
anche lei.
In fondo, le vere, segrete aspirazioni di Marilyn erano molto
normali, una famiglia (che non aveva mai avuto durante un'infanzia
travagliata), qualcuno che le volesse bene veramente per ciò che era e
non per ciò che rappresentava o gli altri pensavano che fosse; aveva
creato il personaggio di Marilyn per affrontare un mondo che la
intimidiva, in realtà avrebbe voluto essere semplicemente Norma Jean, ma
questo il resto del mondo non glielo concesse mai.
Forse, se Norma Jean non fosse stata tormentata dall'insicurezza,
da un senso di inadeguatezza e di inferiorità che la perseguitarono per
tutta la vita e dall'angoscia esistenziale, dal male di vivere, non
avremmo mai avuto Marilyn. Non so se, dal suo punto di vista, ne sia
valsa la pena, quando sarà il momento glielo chiederò.
La protagonista, Michelle Williams, offre una prova attoriale di
prim'ordine. Finalmente ho visto qualcuno "interpretare" Marilyn e non
un'improbabile bionda platino che cerca tristemente di imitarla.
GUARDA QUI il trailer del film.
Le Paludi della Morte - Texas Killing Fields, di Ami Canaan
Mann, con Jeffrey Dean Morgan, Sam Worthington, Jessica Chastain, Chloe
Moretz
Un thriller che promette bene, basato su fatti realmente accaduti.
The Blues Brothers, di John Landis, con Dan Aykroyd, John Belushi
A
32 anni dall'uscita, viene riproposto uno dei cult assoluti del cinema
americano per ricordare, a 30 anni dalla morte, il geniale e dissacrante
attore comico John Belushi e celebrare il 100° anniversario della
Universal.
Detachment - Il distacco, di Tony Kaye, con Adrien Brody
Un prof di letteratura delle scuole superiori americane alle prese con allievi e ambienti difficili.
il primo mi è piaciuto moltissimo.
RispondiEliminagli altri non li ho visti ma prevedo di recuperarli