'CAMILLE ET EMILE ' racconto di Cristina Contilli

CAMILLE ET EMILE
DANAE (C.Claudel e A. Renoir)
In quel 24 febbraio del 1919, quando sono entrata, ancora infreddolita, alla galleria parigina Durand-Ruel, da sola, come mi era capitato speso negli ultimi anni alle inaugurazioni delle esposizioni a cui venivo invitata, ho notato che diverse persone si sono voltate verso di me, come se avessero visto un fantasma, ma io non ero un fantasma, ero soltanto una donna che aveva amato e sofferto con la medesima intensità e che ora desiderava soltanto ricominciare a vivere dopo sei anni di internamento... Ero e sono ancora, anche se qualcuno ha cercato i cancellarmi come donna e come artista, la scultrice Camille Claudel...

Casa di cura privata di Montfavet, inverno 1918/1919 
“Mi chiamo Emile e sono stato inviato qui per visitarvi e decidere se potete essere dimessa da questa struttura.”
“Finalmente mio fratello si è deciso a tirarmi fuori da qui.”
“No, non è vostro fratello che mi ha inviato qui, ma i vostri amici parigini… pensavano che la vostra permanenza qui sarebbe durata solo qualche mese e, invece, sono già trascorsi cinque anni.”3
“Qualcuno a Parigi si ricorda ancora di me?”
“Ma certo…”
“E allora portatemi via da qui…”
“Voi non siete un pacco, Camille, ma una persona e come tale dovete essere trattata… quindi ora vi lavate e vi cambiate e, poi, noi andiamo a parlare in un luogo dove possiate sentirvi più libera.”
Mezz’ora dopo Camille era seduta con Emile in un caffè.
“Perché mi avete portata qui? Ma siete sicuro di essere un medico?” Gli aveva chiesto, lei sorpresa dal suo comportamento.
“Certo che sono un medico e quello che sto facendo ora io con voi, l’ha già fatto un mio collega con una sua paziente diversi anni fa… in ospedale si rifiutava di parlare non sono con lui, ma anche con gli altri degenti… e allora l’ha portata fuori per qualche ora ed è riuscita a farla aprire con lui… la medicina è una scienza in continua evoluzione e la psichiatria più di altre branche…”
Quando erano tornati in ospedale, Emile aveva completato la visita a Camille e aveva, quindi, compilato il suo foglio di trasferimento dalla struttura, dove era stata internata cinque anni prima per volontà della madre e del fratello di lei alla clinica universitaria della Salpetrière, anche se in realtà Emile era convinto che, dopo un breve ricovero, necessario per capire quali medicine dare a Camille, lei potesse essere dimessa.
Emile era stato proprio all’ospedale parigino della Salpetrière un allievo del dottor Gachet che quasi trent’anni prima aveva avuto in cura il pittore Vincent Van Gogh.
Camille Claudel a 20 anni (1884)
E così, mentre tornava in treno verso Parigi, con Camille seduta accanto a lui, pensava dentro di sé: “Devo dare fiducia a Camille, ma devo anche controllarla, per evitare che in un momento di rabbia o di sconforto, possa commettere qualche gesto pericoloso.”
Il flusso dei suoi pensieri era stato, tuttavia, interrotto da Camille che gli aveva detto: “Ma cosa è accaduto in questi cinque anni? Intorno ci sono case devastate e campi abbandonati.”
“E’ accaduto che la Francia purtroppo è stata un paese in guerra.”
“Anch’io sono stata in guerra, ma come si ricostruiscono le macerie?”
“E’ difficile, ma vale la pena provarci.”
“Io non ho più né un atelier né una casa a Parigi.”
“Lo so, ma mia zia fa l’affittacamere e, anche se ho dovuto insistere parecchio, ha accettato di darvi una stanza.”
Un anno dopo, presso una nota galleria parigina campeggiava un manifesto che pubblicizzava l’apertura di una mostra di sculture di Camille e prometteva la presenza dell’artista all’inaugurazione.
Mancavano, però, pochi minuti all’ora prevista per l’inaugurazione, ma Camille ancora non si vedeva.
“Io ho investito dei soldi su questa esposizione e, se Camille fa una delle sue alzate di ingegno, non ci vorrà molto a farla tornare da dove è venuta.” Si era lamentato il proprietario della galleria con Emile, aggiungendo: “Siete voi che mi avete assicurato che ormai stava bene e che non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad affrontare il pubblico di una mostra.”
“Non temete, vedrete che arriverà.” L’aveva rassicurato Emile, che, per un istante, era stato tentato di andarla a prendere a casa di sua zia, ma, poi, si era trattenuto, pensando: “Camille deve imparare ad affrontare da sola le proprie paure, altrimenti non guarirà mai davvero.”
Quando Camille era arrivata, però, Emile non aveva potuto fare a meno di lasciarsi sfuggire un sospiro di sollievo.
Lei, tuttavia, l’aveva colto di sorpresa, prendendogli una mano e appoggiandosela sul petto: “Ho il cuore che batte all’impazzata, non ce la farò mai ad affrontare non tanto il pubblico dei visitatori, quanto i critici d’arte che si staranno chiedendo se, dopo cinque anni di inattività, sono ancora capace di combinare qualcosa di buono.”
“Siediti, allora e cerca di respirare lentamente, poi, chiudi gli occhi e pensa a qualcosa di piacevole… io sono nato vicino Calais e, per calmarmi, di solito penso al mare e in particolare alle onde che lambiscono la sabbia perché è un’immagine che mi ricorda la mia infanzia.”
Camille aveva sì chiuso gli occhi, ma, nello stesso tempo, aveva infilato le mani sotto la camicia di Emile e aveva iniziato ad accarezzarlo sul petto.
“Ti avevo detto di pensare soltanto a qualcosa di piacevole, non di farla… e poi cosa accadrà se ci vede qualcuno?”
“Abbracciami, altrimenti non ce la farò mai ad affrontare quelle belve che mi aspettano di là.”
“Non posso, non adesso…”
Camille ed Emile si erano separati appena in tempo per non essere scoperti.
L’inaugurazione si era svolta regolarmente e, due ore dopo, mentre gli ultimi visitatori se ne andavano, il gallerista aveva detto a Camille con un’aria tra l’ironico e il minaccioso: “Madame Claudel, la prossima volta siate più puntuale, perché la quotazione delle vostre sculture non è così alta da meritare che io rischi un infarto per colpa vostra.”
Camille, però, invece, di ascoltarlo, gli aveva chiesto: “Ma Emile dov’è?”
“Il dottor. Boulanger sarà andato via insieme agli altri, perché me lo chiedete?”
“Perché io dovevo parlargli, è importante.” Gli aveva risposto Camille, prima di infilarsi il cappotto e uscire di corsa.
Andava così  di fretta che era andata a sbattere contro un passante senza rendersi conto di chi era: “La mia sorellina sempre di corsa e sempre in disordine, ma quando ti deciderai a crescere?”
“Non sei venuto neppure alla mia mostra! Anzi, da quando sono tornata a Parigi, non mi sembra che tu ti sia preoccupato molto di me!”
“C’ero stasera, ma tu eri troppo presa dal tuo ultimo amante per accorgerti di chi avevi attorno.”
“Ma quale amante?! Se, da quando sono tornata a Parigi, non ho fatto altro che cercarmi un nuovo atelier e lavorare dalla mattina alla sera per allestire questa mostra!” Si era difesa Camille.
“Nostro padre ha fatto finta per dieci anni di non vedere che eri l’amante di Rodin, ma io non sono cieco come lui… da quando sei tornata a Parigi stai a pensione dalla zia del tuo medico e i tuoi vecchi amici sembra che ti vogliano proteggere da te stessa e anche da me. Me ne sono accorto da come qualcuno di loro mi fissava stasera alla mostra.”
“Emile non è il mio amante, ma, anche se lo fosse, la cosa non ti riguarda… ho più di quarant’anni e so badare a me stessa, anche se tu non ne sei mai stato convinto… e poi, visto che, secondo te, sono malata, cosa c’è di meglio che avere un medico come amante?! Almeno, ogni volta che ne ho bisogno, si prenderà cura di me.”
“Finché avrà la pazienza di sopportarti… comunque, visto che è lui che stavi inseguendo, ricordati che, se ha un turno di notte in ospedale, non puoi andarlo a disturbare sul lavoro…” 
 
Tornai a casa in preda allo sconforto. In poche ore ero riuscita non solo a far fuggire Emile, ma anche a litigare per l’ennesima volta con mio fratello.
Mi chiusi nella mia camera e mi stesi sul letto, ancora vestita, con la sensazione di aver gettato al vento un anno di paziente lavoro.
Mancavano pochi giorni al Natale e, mentre tornavo a casa, cominciò anche a nevicare fitto, fitto, finché i fiocchi bianchi non riempirono tutta l’aria, posandosi lievemente sui tetti e sulle strade.
La mattina seguente decisi, tuttavia, di fare forza su me stessa e così mi alzai, mi lavai, mi vestii e andai ad aprire il mio atelier. Non so per quale ragione, ma una parte di me era convinta che davanti alla porta avrei trovato Emile.
Emile, invece, non c’era e al suo posto trovai una ragazza che si sfregava le mani per il freddo e che mi disse: “Madame Claudel, ieri sera ero all’inaugurazione della sua mostra e sono rimasta colpita dalle sue sculture… mi piacerebbe imparare qualcosa da lei, ma non so se accetta ancora allievi nel suo atelier…”
“Perché non dovrei accettarli? Non so se ho davvero qualcosa da insegnarti, ma per me sei la benvenuta.”
Lavorai con la mia nuova allieva fino alla vigilia di Natale, pensando che, anche se Emile purtroppo era fuggito di fronte al mio amore, avevo sempre la mia arte a cui dedicare tempo ed energie.
Il pomeriggio della vigilia, tuttavia, trovai una sorpresa inaspettata ad attendermi al ritorno a casa: nella mia camera c’era, infatti, un pacco, posato ai piedi del letto.
“Madame Boulanger, siete stata troppo gentile a farmi un regalo, anche perché io non so come ricambiarvi.” Dissi pensando che fosse stata la mia padrona di casa a farmi quel gesto di gentilezza.
“Non è il mio questo regalo: non sono abituata a fare regali alle persone a cui affitto le camere… stamattina un corriere ha suonato alla porta e ha lasciato questo pacco per voi, io mi sono soltanto limitata a prenderlo.” Rispose tuttavia madame Boulanger, stupita dal fatto che io l’avessi potuta ritenere l’autrice di quel regalo.
Curiosa, ma anche un po’ intimorita dalla mole di quel pacco che troneggiava nella mia stanza, ricoperto di una carta rossa, decorata da motivi natalizi, lo scartai, scoprendo che si trattava di un grammofono, corredato da un disco con una scelta di musiche di Chopin.
Purtroppo non c’era nessun biglietto che potesse rivelarmi chi era stato l’autore di quel prezioso regalo, ma, visto che era senza alcun dubbio destinato a me, lo presi come il segno di una nuova fase della mia vita che si stava aprendo proprio in quel Natale del 1919, perciò, misi su il disco, chiusi gli occhi e mi abbandonai al piacere della musica, pensando che quello era dopo tanto tempo il mio primo Natale da persona libera.
Il 26 dicembre, dopo essere stato fuori per un convegno medico e aver passato il giorno di Natale dalla cugina, Emile aveva ripreso servizio in ospedale.
Purtroppo aveva scoperto che Camille era stata ricoverata alla Salpetrière il giorno precedente, ma, prima di andare a parlare direttamente con lei, aveva voluto farsi spiegare la situazione da un collega.
“L’ha accompagnata qui il fratello, il giorno di Natale, era piuttosto agitata ed inveiva contro la propria famiglia… volevo avvertirti, sapendo che la stai seguendo tu, da quando è uscita dalla casa di cura di Montfavet, ma era il giorno di Natale e ho pensato che eri fuori Parigi.”
“Adesso come sta?”
“Sta dormendo, almeno credo, le ho dato un calmante, ma non è stato sufficiente e così l’ho fatta legare al letto.”
“Capisco, anche se non mi sembra necessario continuare ad usare questi sistemi di costrizione, una volta che la situazione si è stabilizzata.”
“Tu sei appena tornato da un convegno, ma qui bisogna tenere conto della pratica e non della teoria.”
“Visto che devo fare un giro di visite, ora vado a vedere come sta.”
Quando aveva visto Camille, legata al letto, Emile aveva provato un moto di tenerezza nei suoi confronti, perché si era rannicchiata sotto le coperte come fanno i bambini.
Cercando di parlare a bassa voce, per non svegliarla bruscamente, le aveva detto: “Svegliati che devo visitarti.”
Dopo aver aperto gli occhi, riconoscendo la voce di Emile, Camille gli aveva detto: “Non ho fatto nulla di male, ti prego, fammi uscire da qui, non voglio perdere di nuovo la mia libertà… non adesso che ho aperto un nuovo atelier e ho ricominciato a lavorare.”
“Se non mi spieghi cosa ti è accaduto, io non posso aiutarti.”
“Ho ricevuto un regalo meraviglioso la vigilia di Natale: un grammofono, accompagnato da un disco con le musiche di Chopin, all’inizio, pensavo fosse stato un pensiero di tua zia, poi, mi sono convinta che fosse il tuo e, infine, visto che tua zia ha smentito entrambe le ipotesi… ho sperato che fosse un regalo da parte della mia famiglia e così il giorno di Natale sono andata a casa di mia madre per ringraziarla. Purtroppo non soltanto il regalo non era il suo, ma si è anche rifiutata di incontrarmi e così io ho perso il controllo… ho salito le scale di casa, ho aperto con la forza la porta della camera di mia madre e l’ho riempita di insulti… non mi ricordo neanche più cosa le ho detto, ma ero fuori di me, quindi, potrei averle detto qualunque cosa… E’ un anno che cerco di fare del mio meglio… pensi che sia facile ricominciare a scolpire, dopo essere stata ferma per cinque anni? Non farmi tornare indietro… ti prego…”
Camille aveva cercato di avvicinare una mano a quella di Emile, per accarezzarla, ma era legata e non c’era riuscita.
“Ora ti faccio slegare da un infermiere, ma mi devi promettere che starai calma e non insulterai nessuno. Io mi fido di te, dimostrami che non mi sto sbagliando.”
“Ce l’hanno con me, Emile, non vogliano che io viva qui a Parigi… per loro sono solo una presenza ingombrante… e io che sono stata così ingenua da pensare che potessero avermi fatto un regalo, come segno di riconciliazione.”
“Anch’io ho avuto una famiglia ingombrante, mio padre era un industriale, mentre mio zio era il generale Boulanger che è stato ministro della guerra una ventina di anni fa e voleva avviarmi alla carriera militare… ma io ho scelto di studiare farmacia, come mio nonno e di specializzarmi nell’ambito della farmacologia clinica… nella vita bisogna capire cosa si vuole veramente e poi andare per la propria strada, senza preoccuparsi se gli altri la condividono o no… certo, se questa strada è onesta… se avessi deciso di fare il ladro, invece che il medico e i miei familiari avessero cercato di impedirmelo, ne avrebbero avuto tutte le ragioni…”
Dopo aver completato il giro di visita delle pazienti, Emile si era chiuso nella sua stanza e aveva iniziato ad aggiornare le cartelle delle ricoverate.
Mezz’ora dopo, mentre stava ancora scrivendo, aveva sentito bussare alla porta.
“Avanti.”  Aveva risposto, lasciando entrare un collega dell’ospedale.
“Cosa ne pensi di quella paziente con una diagnosi di sospetta sifilide?”
“Secondo me, purtroppo, si tratta davvero di sifilide, ma, prima di segnarla con una diagnosi così pesante, sarebbe opportuno consultare un dermatologo per sentire se i segni che ha sulla pelle sono la conseguenza della sua malattia.”
“E della Claudel cosa ne pensi? Per me è un’isterica… dovevi sentire come inveiva contro tutto e tutti il giorno in cui è stata ricoverata.”
“Ma ora mi sembra piuttosto calma e ragionevole.”
“Sì, è vero, ma quanto durerà?”
“Questo non può prevederlo nessuno, purtroppo. La Claudel, secondo me, ha un rapporto irrisolto con la propria famiglia d’origine, ma alla sua età comincia ad essere tardi per tentare di risolverlo. Per come l’ho potuta valutare io, comunque, non è isterica, ma soffre di una lieve forma di paranoia e, quando si sente oppressa dagli altri, perde il controllo.”
“Bisognerà parlare con i familiari per decidere cosa farne?”
“Non credo sia obbligatorio, anche perché, se vede qui qualcuno della propria famiglia, potrebbe avere una nuova crisi e questo darebbe una valutazione parziale della sua situazione.”
“E allora? Non è ai livelli di Nadine, ma, quando è stata ricoverata, era davvero incontrollabile. Per poco, non ha dato uno schiaffo ad un’infermiera.”
“Un paziente paranoico, se si sente in pericolo, per difendersi, può anche diventare violento.”
“Ti conosco, Emile, tu, ci stai girando intorno con questi discorsi teorici, ma in realtà vorresti farla uscire da qui e limitarti a tenerla sotto controllo con dei calmanti.”
“Se hai già capito quali sono le mie valutazioni, perché insisti allora a dirmi che la Claudel secondo te è pericolosa?”
“Perché temo che tu nutra un eccesso di fiducia nei suoi confronti… d’altra parte la Salpetrière è considerata un ospedale universitario che fa ricerca e innovazione e quindi qui ci si può anche permettere di dare su una paziente una valutazione più complessa e ottimistica di quella che è stata data in un’altra casa di cura.”
Emile aveva colto una sottile ironia in quelle parole, ma non aveva voluto dargli peso, perché sapeva che qualche collega diceva che, da quando lavorava alla “Salpetrière”, l’aveva trasformato da un manicomio ad una stazione dove le persone entravano ed uscivano con una certa regolarità, mentre in altri luoghi, una volta ricoverati, era piuttosto difficile essere dimessi.
Una settimana dopo, grazie ad Emile, ero di nuova libera, ma, quando sono tornata a casa, madame Boulanger mi ha squadrata da capo a piedi con un’aria di rimprovero: “Avete un aspetto impresentabile, andate subito a farvi un bagno e a cambiarvi d’abito, prima che qualcuna delle altre pensionanti vi possa vedere in queste condizioni.”
Ho ingoiato l’umiliazione e sono andata in camera mia a prendere un abito pulito e un cambio di biancheria. Poi mi sono chiusa in bagno e ho riempito d’acqua la vasca. Mentre mi godevo il senso di pulizia dell’acqua sulla mia pelle, ho sentito bussare alla porta: “Camille, il bagno non è solo il tuo, e, se non ti sbrighi ad uscire, mi farai fare tardi in università.”
La maggior parte delle pensionanti di madame Boulanger erano studentesse universitarie, sempre alle prese con lezioni, esami e amori clandestini con qualche compagno di studi, perciò, sono uscita dalla vasca e mi sono asciugata e vestita in fretta, avvolgendomi un asciugamano attorno ai capelli, ancora bagnati.
“Stamattina è venuto un cercarti un uomo, dovevi vedere la faccia di madame Boulanger! Si è rassicurata solo quando quell’uomo le ha spiegato che era il tuo gallerista. Si è stupito che vivessi presso un’affittacamere.”
“La reggia di Versailles ancora non me la posso permettere!” Ho risposto in tono ironico, aggiungendo: “Cosa voleva da me il mio gallerista?”
“Ha portato una rivista d’arte, dicendo che c’era un articolo che parlava di te.”
“Perché madame Boulanger non mi ha detto nulla?”
“E’ vecchia, se ne sarà dimenticata.”
“Dove l’ha messa la rivista?”
“In camera tua, almeno credo.”
Quando ho preso la rivista e ho iniziato a cercare l’articolo che parlava di me, mi tremavano le mani. Alla fine sono riuscita a trovarlo, ma, appena ho letto: “Dopo sei anni di assenza dalla scena artistica parigina, la scultrice Camille Claudel ha presentato alcune sue opere in una mostra, allestita presso la galleria “Durand-Ruel”: l’artista ha tentato un difficile connubio tra lo stile delle sue precedenti sculture, realizzate, prima del suo internamento in manicomio e il desiderio di innovare e ridefinire il proprio stile…”
Di fronte a quelle parole, ho sentito crescere in me un impeto istintivo di rabbia. Ho preso la rivista e l’ho lanciata contro una parete, imprecando: “Quei bastardi mi vogliono rovinare un’altra volta. A cosa serviva scrivere che sono stata in manicomio in un articolo che dovrebbe parlare del mio lavoro? Ma, se quel figlio di puttana, che ha scritto quest’articolo, si presenta alla mia prossima mostra, glielo dico io cosa penso di lui. Se fossi stata un uomo e non una donna, non si sarebbero mai permessi di scrivere una cosa del genere. Bastardi, figli di puttana, pensano, forse, che, dopo essere stata ferma per un periodo abbastanza lungo, io non sia più capace di scolpire?!”
Purtroppo avevo lasciato la porta aperta e madame Boulanger è entrata nella mia stanza con un’aria piuttosto infastidita: “Ho accettato di darvi una camera, perché nutro un grande affetto per mio nipote Emile, ma questo non significa che possiate permettervi di tenere questo linguaggio sconveniente in casa mia.”
“Scusatemi, madame, ma non mi ero accorta di aver lasciato la porta aperta.” Ho detto con un’aria conciliante.
La mattina dopo, ho deciso che non mi sarei fatta rovinare la vita dall’articolo di un critico d’arte e così sono andata in atelier e mi sono rimessa al lavoro.
Davanti alla porta, ho trovato, però, Emile:“Io ti devo parlare e vorrei farlo non in presenza di mia zia.”
“Anch’io ti devo parlare.” Gli ho risposto.
Era rimasto qualcosa di irrisolto tra di noi dall’inaugurazione della mia mostra due settimane prima e volevo chiarirlo.
“Io non posso più essere il tuo medico.”
“Perché? Ti senti deluso da me? Ti prometto che quello che è accaduto il giorno di Natale non accadrà più. Cercherò di evitare discussioni con la mia famiglia e di rispettare tua zia e le sue regole per pensionanti… dammi ancora fiducia, Emile, per favore.”
“Non è per questo che non posso più essere il tuo medico, Camille, ma è perché mi sono innamorato di te e non posso essere, nello stesso tempo, il tuo amante e il tuo medico.”
“Ma io ho bisogno di tutti e due.”
“Esiste una deontologia professionale, Camille, che io voglio rispettare, ma, non devi preoccuparti, ho parlato con un mio collega e mi ha assicurato che, se avrai bisogno di medicine o di qualcos’altro, potrai contare su di lui.”
“Questo significa che possiamo riprendere quello che avevamo interrotto la sera della mostra?”
“Ora, sì, non ci sono più ostacoli…”
Mi sono avvicinata a Emile e gli ho sbottonato la giacca, poi, gli ho infilato le mani sotto la camicia e ho iniziato ad accarezzarlo sul petto.
“Ci eravamo interrotti qui o mi sbaglio?” Gli ho detto con un’aria maliziosa, mentre Emile, a sua volta, mi sbottonava il vestito.
Dopo aver trovato i miei seni, Emile ha cominciato ad accarezzarli con impeto, ma anche con dolcezza. Io ho sentito crescere l’eccitazione e ho capito che ero pronta ad accoglierlo dentro di me.
All’improvviso, però, Emile si è fermato e mi ha detto: “Te la senti di succhiare il mio membro, Camille?”
Non era quello che avevo immaginato, ma gli ho risposto lo stesso: “Certo, amore mio.”
Poi mi sono inginocchiata di fronte a lui  e, dopo avergli aperto i pantaloni e avergli tirato giù la biancheria intima, ho afferrato con una mano il suo sesso caldo e turgido e l’ho infilato nella mia bocca.
Emile mi ha posato una mano sui capelli e mi ha detto: “Hai già tanti guai, Camille, non voglio aggiungerne un altro, mettendoti incinta.”
Colpita da quel suo gesto di attenzione nei miei confronti, ho iniziato a far strusciare con più impeto le mie labbra contro il sesso di Emile, finché non ho sentito sulla lingua il sapore del suo sperma. Ho succhiato e ingoiato il suo liquido come se fosse miele, fino a trovarmi in mano il suo pene ormai umido e molle.
A quel punto mi sono alzata in  piedi e l’ho abbracciato: “Tanti anni fa ho abortito e non posso avere più figli.” Gli ho confidato, senza guardarlo negli occhi.
“Nella tua cartella clinica non c’era scritto.”
“Nessuno me l’ha chiesto e io non ne parlo volentieri.”
“Allora, spogliati, Camille e lascia che ti stringa tra le mie braccia.”
Ormai sapevamo tutto l’uno dell’altra e, così, senza alcun pudore, ci siamo spogliati entrambi e ci siamo abbracciati. E’ stato bello sentire sulla mia pelle il calore della pelle di Emile, mentre muovevo i fianchi e facevo strusciare il mio sesso contro il suo. Quando il suo membro si è indurito di nuovo, Emile mi ha penetrata e io l’ho accolto senza riserve.
“Ti amo.” Gli ha sussurrato, aggrappandomi alla sua schiena.
“Da oggi sei la mia donna, Camille e io non permetterò più a nessuno di farti del male.” Mi ha sussurrato Emile, poco prima che entrambi raggiungessimo insieme l’estasi del piacere.

L'AUTRICE
CRISTINA CONTILLI è nata nel 1977 a Camerino nelle Marche, nel 2001 si è laureata in lettere e nel 2006 ha concluso il dottorato di ricerca in italianistica presso l’Università di Macerata, discutendo una tesi su Silvio Pellico, autore a cui ha dedicato diversi libri, curando l’edizione critica del suo epistolario e la riedizione delle sue opere meno conosciute, ma anche scrivendo la sua biografia: “Dalla prigionia nello Spielberg al ritorno alla vita” (Giovane Holden, 2008, Ebookingdom.net, 2010, Lulu.com, 2011). Ha scritto anche diversi historical romance, ambientati nella Francia del 1804-1834, che hanno per protagonisti il conte Alain De Savoia-Soissons e la marchesina Juliette De Sade, alcuni dei quali sono stati tradotti in inglese e pubblicati negli Stati Uniti. Ha pubblicato, inoltre, in collaborazione con la scrittrice genovese Laura Gay: un rosa paranormale (“I misteri di Goodrich Court”, Lulu.com, 2010), un romanzo epistolare (“Un amore mai dimenticato: Silvio Pellico e Cristina Archinto Trivulzio”, Lulu.com, 2010) e una raccolta di racconti erotici (“Il cammino dell’Eros”, Lulu.com, 2011) . Il  suo ultimo libro, uscito a gennaio 2011, si intitola: “Un breve sogno d’amore: Giulia Da Varano e Guidobaldo II della Rovere nell’Italia del ‘500”.

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3 commenti:

  1. Come sempre un racconto pieno di sentimenti, che emoziona e si legge tutto d'un fiato :)
    complimenti

    RispondiElimina
  2. Grazie, soprattutto perché ricevere un commento positivo da una lettrice che non si conosce, è il segno che uno è davvero riuscito a scrivere un pezzo che sa coinvolgere chi legge e renderlo partecipe dei sentimenti dei propri personaggi.
    Cristina

    RispondiElimina
  3. Per chi ne volesse sapere di più, il booktrailer del mio libro:

    http://vimeo.com/20301792

    Per precisione storica, ho fatto ulteriori ricerche in questi mesi e quella sera Camille non era presente, però, è stata effettivamente venduta una sua opera appartenente alla collezione del critico d'arte Octave Mirbeau, morto due anni prima...

    Cristina

    RispondiElimina

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