"- Vieni domani a mangiare un panino con me o devi scappare da qualche fidanzato?
- Ho chiesto a Babbo Natale di portarmene uno, ma devo essere stata cattiva perché non è arrivato. "
Un fidanzato
bellissimo.
Un fidanzato
normale.
Un fidanzato
brutto.
Un fidanzato.
- Un panino,
signorina!
Le sembrò
normale ignorare il mondo e continuare a pensare ai fatti suoi. Si sarebbe
accontentata di poco. Un uomo senza pretese. Avrebbe fatto una letterina e
l’avrebbe nascosta tra quelle che i bambini della scuola elementare avrebbero
appeso all’albero natalizio offerto dall’Amministrazione comunale ai cittadini.
Intanto sistemò le palline colorate sul mini pino che avrebbe allocato sul
bancone. Si immaginava già il rimprovero del medico sanitario. Polvere e pelucchi,
signora non si addicono a una panetteria. Bene, avrebbe sopportato tutto e
fatto di testa sua.
- Insomma, vuole
prepararmi un panino con la mortadella? Quella buona, signorina. Tagliata
sottile come un velo di cipolla. E magra. Non ce l’ha più magra? E che non
costi tanto. Sì, insomma, un buon rapporto tra qualità prezzo.
Viola lasciò le
decorazioni e osservò il bancone del frigo, i salumi ordinati sul piano di
metallo. – Mi spiace signore. La mortadella non c’è.
Non diede peso
all’occhiata stranita dell’uomo che continuava a passare dal frigo a lei, ferma
accanto al bancone.
- E quelle cosa
sono?
Avrebbe
volentieri mozzato il dito dell’uomo che si era spiaccicato contro il vetro.
Non era mica una lastra per schedare le impronte digitali dei mangiatori di
panini. – Non hanno i requisiti da lei richiesti.
Le fiamme negli
occhi dell’uomo le facevano un baffo.
- Allora mi
faccia un panino col prosciutto cotto. Quello buono, signorina. Tagliato spesso
quasi un dito. Non troppo magro. Non ce l’ha con più venature di grasso? E che
non costi tanto. Sì, insomma, un buon rapporto tra qualità prezzo.
Viola si
rassegnò a mettere i guanti in lattice e prese una forma di prosciutto cotto. -
Questa è quella che vuole. – Non si fermò a guardare quale marca avesse preso.
Un Rovagnati era lo stesso di un Casa Modena. Un Fiorucci assolutamente buono come
a un Galbani. Ne tagliò un paio di fette, forse grandi come un dito. Forse
sottili come un velo di cipolla e imbottì il panino che arrotolò nella carta
del pane. - Ecco a lei signore. Buon Natale.
Prima che la
porta fosse chiusa aveva già in mano lo straccetto per cancellare
l’onnipresente chiazza digitale su una lastra che nulla poteva contro gli
scostumati in giro per il mondo.
Riprese le
stelle filanti che avrebbe messo qua e là, in giro nel piccolo negozietto. I
panini freschi e il pane fragrante erano a posto. Le pizze rotonde impilate in
bell’ordine e l’angolo degli affettati lustro come sempre. Lavorava lì da un
anno. Era entrata single e ci navigava dentro ancora senza una soddisfazione
affettiva. Un nastro luccicante andò attorno alla vetrata dell’ingresso e un
cordoncino dorato profilò i banconi di legno e metallo. Non si poteva fare di
più. Se fosse dipeso da lei avrebbe rivestito tutti gli insaccati con una
tutina rossa allineandoli come tanti neonati in un nido d’ospedale. Ma le
regole sanitarie imponevano che i salumi restassero nudi e crudi.
- Mi prepara
qualcosa da mangiare?
Viola lasciò il
lavoro di addobbo e si arrese alla fame cittadina. – Certo, una lasagna, un
piatto di spaghetti un roastbeef? - Non aveva più voglia di fare panini.
All’ora di punta tutto diventava più caotico, gli stomaci affamati muovevano le
gambe della gente nel il suo regno di molliche e croste. Ma anche di fragranze
e vapori di paste e frolle.
- Mi piacerebbe
davvero, ma penso che lei stia solo cercando di farmi morire di fame con la
bava alla bocca. Mi dia almeno un semplice panino.
Viola si
allontanò dai nastri che ancora doveva sistemare. – Quale vuole? All’olio, di
pane, con le olive, con il latte, la ciabattina o …
- Scelga lei. Ma
faccia presto, la prego.
Non guardò che
gli scompartimenti alla ricerca del panino tondo e liscio che, da sempre, era
il suo preferito. Niente fronzoli. Crosta dura fuori e soffice pasta dentro. –
Cosa ci vuole?
Si spostò
nell’area dei salumi e solo in quel momento si rese conto che quell’uomo
avrebbe potuto lasciare tutte le impronte digitali su ogni spazio del negozio.
Non ne avrebbe tolto neanche una, anzi, pretendeva che allungasse la mano e
oltre al dito lasciasse il marchio, palmo compreso. – Metta anche il viso.
- Cosa? Mi scusi
non ho capito.
Si diede uno
scappellotto mentale. – Si avvicini e guardi col viso rivolto… - si stava
cacciando in una spiegazione ridicola e insensata. Il tutto per coprire la
sorpresa. Non capitavano passanti di quella fattura. Con i jeans impolverati e
un giaccone liso. Ma il viso chiaro con la barba appena accennata era sensuale.
Gli occhi non classificabili ancora e i capelli cortissimi.
Anche se era sul
rialzo, dietro il bancone, doveva comunque tenere il viso sollevato.
- Metta dentro
quello che vuole. L’importante è che sia rapportato alla mia fame. E le
assicuro che è tanta.
Non sapeva
perché avesse preso la pancetta arrotolata. Forse perché la sua, di pancia,
aveva fatto un salto ingarbugliandosi? Porse perché si sentiva annebbiata come
in un affumicatoio?
Riempì il tutto
fino a che non fu possibile unirne i lembi. Non era un panino con affettato, ma
un affettato con un misero involucro di pane. - Ecco a lei. - Glielo porse e si
tenne il più vicina possibile per capire di che colore fossero quegli occhi che
avevano seguito tutti i passaggi per la costruzione dello spuntino. Azzurri?
Blu? Restò sorpresa vedendoli di un verde cristallino, come l’acqua marina
attorno allo scoglio scuro della pupilla.
- Grazie, le
lascio qui i soldi.
- Certo,
arrivederci.
Lo seguì
attaccando il naso alla vetrina. Questa volta era stata lei a lasciare un’impronta
nasale, ma non si staccò fino a che non vide l’uomo attraversare piazza
Risorgimento ed entrare nel portone del palazzo, proprio di fronte al
negozietto.
- È un mio
vicino!
Studiò il
pannello di legno scrostato, di un azzurrino che portava sulle venature gli
anni passati. Borchie attorno e fasci di metallo. La facciata di un palazzo
signorile in decadenza. Di un’origine a lei sconosciuta. Ma i fregi che
contornavano i finestroni erano di una grazia squisita, sotto sfoglie di
intonaco pendenti. Da quando lavorava in negozio non aveva mai visto nessuno
entrare e uscire dal palazzo a due piani. Pensava fosse disabitato. E lo era, a
giudicare dalla imposte chiuse e dalle condizioni dello stabile. Invece in quel
preciso istante un’anta del primo piano si aprì e dal balconcino uscì l’uomo
che l’aveva sorpresa con la sola presenza. Sembrava stesse respirando il fresco
dell’aria montana, con lo sguardo abbracciava la piazza e le case in circolo. Lo
vide scartare il panino e dargli un morso. Viola sentì sulla lingua il sapore
della pancetta affumicata tagliata sottile e il gusto del pane saporito. Si
ritrovò a masticare un boccone di nulla mentre lui mangiava in piedi e osservava
il mondo, nascosta tra le tendine della vetrina.
Era un muratore.
Un muratore solitario. Aveva costruito una impalcatura tutto da solo e ora si
arrampicava su e giù per le scale di metallo. Con una pazienza certosina stava
scrostando l’intonaco della facciata accumulando calcinacci a terra. Viola lo
osservava da giorni. Sapeva ormai come si muovevano le sue gambe. Che inclinazione
faceva la testa nell’osservare i fregi e gli stucchi che aveva fasciato con una
carta chiara, proteggendoli dalla polvere e dalle intemperie. Sapeva quali
orari faceva. Quando apriva il negozietto lui era già al lavoro. Non smetteva
mai prima che lei chiudesse per il riposo pomeridiano, e quando rientrava lo
trovava di nuovo sull’impalcatura.
- Viola, me lo
incarti?
- Cosa? Eh,
scusa, cosa vuoi?
- Sei tra le
nuvole dolcezza. Sai chi è quello lì?
Le pettegole del
paese avevano un solo elemento positivo. Sapevano tutto di tutti ed erano
pronte a condividere il loro immenso sapere col mondo intero.
- No, non lo so,
signora Agnese. Lei?
- E chi lo sa
cos’è stato a portare qui quel ragazzo. Deve essere un nipote che ha ereditato
la proprietà. Ci sta sprecando tutto questo tempo quando avrebbe dovuto buttare
giù tutto.
- Perché? È un
bellissimo palazzo.
- Ma dentro è
una catapecchia.
- Ci è stata qualche
volta?
- Tempo fa.
Voleva chiedere,
quando, perché, cosa facesse di un palazzo signorile una catapecchia.
Le tese la busta
di carta con la baguette e attese altre notizie. Ma non ce ne furono. Si
strinse il nodo della coda. Da sempre teneva i capelli in ordine tirandoli con
una molletta. Lunghi, certo, ma ribelli, e scuri. Ciglia e sopracciglia come
sbafi di carbone e occhi dal languido colore caramello. Ed esasperatamente
single.
Tornò al suo
posto da guardona e lo stomaco le fece un salto quando lo vide attraversare la
piazza e raggiungere la porta del negozio. Fece finta di sistemare una lucina
delle luminarie e arruffò la ghirlanda. - Buongiorno.
- A lei,
signorina.
- Viola.
- Cosa?
- Può chiamarmi
Viola. Se vuole.
Le piaceva quel
modo intenso di guardarla. Profondo e carezzevole. Si stava soffermando sulla
sua bocca. Ce l’aveva aperta, forse? Strinse le mandibole per esserne sicura.
- Viola. Molto
bello.
Certo. Il suo
nome era bello, ma lei, lei come persona com’era? – Grazie. Vuole un panino?
Aveva la giacca
impolverata ma le mani erano pulite anche se un poco screpolate dal lavoro. –
Io uso questa. Passare dal caldo al freddo dell’inverno è una sofferenza per le
mani. - Gli tese un tubetto di crema.
- Mi cede la sua
pozione magica?
- Le cedo il
rimedio contro le screpolature. Qui ha uno spacco profondo. Non sente il
dolore? – Incredibile, dal bancone si era sporta e gli aveva preso una mano
seguendo col dito una lunga striscia rossa i cui bordi si erano induriti a
contatto con la polvere dell’intonaco.
- Certo. Mi fa
male.
- Come potrebbe
non essere così. Tenga, ci metta questa e la copra con un guanto. Prenda tutto
il tubetto, io ne ho un altro.
Perché la
guardava sorpreso? Cosa aveva fatto di strano se non essere gentile con un
muratore solitario? Nascose le mani dentro il grembiule da lavoro sentendo in
quel momento il rossore alle guance di un tocco non premeditato, ma desiderato.
La facciata
della palazzina era l’unica senza decorazioni natalizie. Ogni singola casa
aveva un alberello scintillante, un filo di lucine colorate alle ringhiere dei
balconi, un babbino di natale scalatore. Ma quel palazzo addormentato non aveva
vitalità. Era una casa ancora addormentata, fasciata da bende bianche che
l’uomo aveva posizionato in luoghi strategici. Una chiostra scintillante con un
unico dente ancora da limare. Ancora da sanare.
- E’ gentile.
Grazie. Mi preparerebbe anche qualcosa da mangiare?
- Un panino?
- È piccino.
Oggi ho lavorato senza fare colazione.
Viola ci pensò
su. - Guardi, le apro questa focaccia e ci metto dentro qualcosa di sostanzioso,
così si sentirà meglio.
- Va bene,
lascio a lei la scelta.
Affettò il
prosciutto stagionato in fette lucide e sottili adagiandole in un verso, e poi
ricoprì il tutto con un velo di formaggio piccante. Un filo d’olio e la
focaccia era già bella che pronta. Incartò appaiando gli angoli e poi si volse.
– Non mi dica che non le piace il formaggio.
- No, no. Anzi.
Non avrei fatto un accostamento del genere, ma se me lo consiglia come rimedio
antifatica lo accetto volentieri.
Prese il sorriso
un pochetto ironico e lo conservò nel cassetto mentale che aveva cominciato a
riempire, senza volerlo, con le immagini di un uomo sconosciuto. - Lo provi, se
non funziona la risarcirò.
Sentì il brivido
alla risata dell’uomo.
- Resterà in
questo paese? - Perché si era adombrato?
- No, penso di
no. Sono qui per lavorare alla facciata della palazzina. Quando sarà
presentabile metterò in vendita il tutto.
- Oh, allora è
questo che sta facendo? Lava la faccia a un palazzo antico e lo imbelletta per
invogliare l’acquirente?
- Qualcuno lo
chiama compravendita, Viola. E poi, ho bisogno di muovermi spesso. Di una via
di fuga.
- Perché? È
ricercato dalla polizia?
- Lei sa trovare
le alternative migliori alla realtà dei fatti, mia bella commessa.
Semplicemente, non ho motivo di restare.
Non aveva capito
tanto altro di lui. Lo osservò fino a che non rientrò nel portoncino scrostato.
La solita finestra del piano superiore si aprì e lui usci sul balconcino. Si
accomodò su una sedia e iniziò a mangiare guardando il mondo accerchiato della
piazza. Viola segui le sue movenze, scivolò sui capelli chiari e sul collo che
scompariva sotto il giubbotto impolverato. In pieno inverno doveva essere duro
lavorare all’aperto. Non arrivavano altri muratori in suo aiuto. Restava sempre
e solo lui. Anche da lontano percepiva la sua solitudine. La necessità di stare
da soli. Ma era ora di andare a casa. Salutò mentalmente il suo dirimpettaio e
restò sospesa nel vuoto quando lui mosse la mano in un ok di approvazione.
Portò via le
guance rosse dal vetro e si rintanò nell’ufficetto. Non poteva negarlo.
Guardare quello sconosciuto era diventata un’esigenza, non solo un piacere.
Cominciava a
truccarsi con troppa meticolosità, attenta al risultato. Ciglia sottolineate dal
mascara e linea dell’occhio allungata dalla matita nera. Il burrocacao era
stato sostituito da un rosa pesca e le guanciotte arrossate normalmente
dall’idea di vederlo ancora. Ma presto sarebbe andato via. La ristrutturazione
di una facciata non era eterna.
- Cosa le
preparo oggi?
- Marco.
- Cosa?
- Può chiamarmi
Marco.
- Oh, grazie. E
lei può lasciare l’impronta del suo dito sul vetro del bancone.
- No, non lo
farò, stia tranquilla.
- Non lo dico
con acredine. Questo bancone possiede tutte le linee digitali dell’intero
paese. Mancano solo le sue. Ma lei non farà parte di questa comunità.
- Be’, se è
questo, allora mi permetto. Che dice se ne lascio una qui?
Aveva scelto un
angolino della lastra ignorando l’insita domanda nella sua voce. La pressione
era stata delicata. Ora Viola aveva il suo dito stampato. - Ecco. Ora è dei
nostri. - Speck e sottaceti nella ciabatta croccante per il pasto giornaliero.
- È un bellissimo palazzo. Non ha voglia di tenerlo?
- No. - L’aroma
di aceto aleggiava nel negozietto insieme al profumo inconfondibile di pane
appena sfornato. Marco stava osservando la facciata del palazzo dal vetro del
negozio. – No, non ho nulla che mi tenga qui. Lo ristrutturerò per quanto
possibile e poi…
- Lo farà da
solo?
- Ci sono
interventi che hanno bisogno di manodopera specifica, quindi le squadre
arriveranno poi, sempre se dovessi decidere di intervenire anche all’interno.
- È suo?
- Sì, è mio.
- L’ha ereditato
dal Rischietto?
- Rischietto?
- Il vecchio
medico di paese che vi abitava. Non è suo nonno?
- No, ho
acquistato dal precedente proprietario. Non so chi sia questo Rischietto.
- Ah!
Viola si sistemò
un ciuffetto di capelli che era sfuggito alla molletta. Le si incollava al
labbro facendole il solletico e attirando gli occhi verdi in quel punto. – C’è
la remota possibilità che venga a vivere qui?
Portare il peso
di occhi tanto belli non era semplice. Viola accettò lo sguardo cupo che la
investì. Lo sostenne, lo accolse, lo sfidò.
- Penso di no.
Mi vuoi come dirimpettaio?
Era passato a un
tono informale che rese le parole più dolci.
- Certo. È
l’unica casa disabitata. – Indicò la vetrata dalla quale lo spiava ogni
momento. Tra i fili luccicanti e le stelle di neve dipinte si vedeva chiara la
costrizione dimessa. E se ne percepiva il potenziale.
- Lo resterà
ancora per un poco. A domani, Viola.
Il panino
giornaliero era diventato un momento cruciale nella sua monotona vita da
commessa. La pioggerella raffreddava tutto molto più in fretta di una bella
nevicata. E Marco lavorava senza smettere. Aveva lisciato e tolto tutto
l’intonaco della facciata fino a riportare a vista i mattoni della costruzione
con i bei toni giallo ocra, oro rosso, mattone, sabbia. Solo i fregi erano
ancora incartati e protetti.
Viola si preparò
ad andare a casa. Quel giorno Marco sembrava non volere smettere di lavorare ed
era ora di chiudere. Eppure aveva lasciato per lui una bella rosetta croccante
in cui adagiare bresaola e parmigiano. Lo preparò lo stesso. Lo incartò e lo
mise dentro un sacchettino bianco. Dalla vetrinetta dei dolci prese un parrozzo
coperto di cioccolato e uscì dal negozio. Poteva farlo. Marco era diventato un
amico. Marco era diventato un suo cruccio. Marco era diventato un uomo da
osservare. Da sognare. Da sfamare
Attraverso
Piazza Garibaldi stringendo al collo il bavero del giubbotto. Il raschietto
scavava e toglieva tutto ciò che era superfluo all’anima del palazzo. - Ti ho
portato qualcosa.
La mano
impolverata si era fermata. Marco aveva fatto un passo indietro e osservava il
risultato del suo lavoro. Senza dire nulla. Senza fare null’altro che tenere
gli occhi sulla sua amata costruzione. Sì, doveva amarla altrimenti non avrebbe
speso tanto tempo ed energie per riportarla alla vita.
- Sei gentile.
Non si era
voltato per prendere il sacchetto e la pioggia cominciava a diventare
insistente. Marco non se curava. Alcune goccioline si erano fermate sulle
ciglia e Viola ebbe la voglia di leccarle via.
- Tieni, mangia
quando avrai fame. - Lo sfiorò ponendogli il sacchetto sul palmo.
- È già ora di
andare?
- Sì, all’una
chiudo. Lo sai.
- Non mi ero
accorto che fosse così tardi.
- Quando lavori
perdi il senso della realtà. - Era così bello vederlo stranito, quasi confuso.
Lui alzò il viso a guardare il cielo grigio e solo in quel momento si rese conto
che era zuppo da capo a piedi.
Viola rabbrividì
per lui.
- Vieni qui
sotto… stai un poco con me. – La guardava più confuso che mai. – Se vuoi.
- Certo, resto
un attimo.
La guidò sotto
un’impalcatura coperta da un telo. Marco entrò sotto il rifugio e la invitò a
sedersi sui sacchi di cemento impilati l’uno sull’altro. – E’ asciutto, almeno.
Non era la
comodità che cercava. Non da quando lo aveva visto iniziare i lavori alla
facciata del palazzo. Le sembrò elettrizzante averlo al fianco, col solito
giubbotto ultra impolverato e i jeans del colore dell’intonaco. Ma restava il
ragazzo più affascinante che avesse mai visto. Aspettò che aprisse il sacchetto
e scartasse il panino. Lo vide annusare come se il pasto iniziasse dall’odore e
non dal sapore e poi guardarla fissa. Il verde dentro il caramello. Fissarsi
sotto un telone cerato e seduti su sacchi duri era strano. Ma vicini, i respiri
udibili sotto il ticchettio della pioggia sulle bancate dei metallo.
- Tieni, mangia
con me.
- No, no. Io
vado a casa. Tu invece hai bisogno di… - Prese il pezzo di panino tanto per
sfiorargli le dita e seguì il suo esempio masticando il primo boccone a lungo.
Sentendone sapore e aroma sulla lingua. Mangiarono in silenzio coperti dalla
plastica e attorniati dalla polvere dei calcinacci, mentre rivoli di pioggia
correvano per la piazza. - Ti ho portato un dolcetto.
Marco scartò il
piccolo parrozzo e lo divise a metà con le dita. - Il profumo è meraviglioso.
Le avvicinò il
boccone, e quando l’impasto spugnoso sfiorò il suo labbro fu come se la stesse
baciando. Come se il sapore delle mandorle fossero un prodotto della bocca
maschile. Se il cioccolato fondente fosse l’essenza di Marco.
Il brivido della
condivisione, la dolcezza delle sue attenzioni la sconvolsero. Da tempo aveva
necessità di un’affinità elettiva. Di un interesse nato per caso. E Marco
appariva il più bell’interesse che avesse mai visto. Ma erta un uomo di
passaggio. Sarebbe andato via per approntare altre facciate, altre costruzioni.
- Devi andare.
Non voglio trattenerti oltre.
Viola avrebbe
voluto obiettare. Ma lui si era alzato e la invitava a passare. Non le restò
che portare con sé un bacio fatto di mandorla e cioccolato.
Ci avrebbe
provato. Sì, per la miseria, altroché se ci avrebbe provato. Un invito, un’
uscita solo loro due. Una semplice serata per conoscerlo meglio. Avrebbe goduto
dei pochi momenti che ancora rimanevano loro. Gli avrebbe raccontato dei sui
studi in biologia e avrebbe chiesto del suo passato. Conosciuto cosa si era
lasciato dietro e cosa desiderava per il futuro. E perché un uomo così sensuale non avesse uno
stuolo di mogli e amanti. Ma forse ne aveva e lei ne era all’oscuro.
Gli aveva
promesso di portargli qualcosa da mangiare e all’una in punto aveva chiuso il
negozio con un colpo secco di chiave. Non le importava di attraversare Piazza
Risorgimento come un plotone in marcia. Bussò più volte al portone scrostato.
Il freddo aveva spruzzato di brina tutte le valli e anche le tettoie erano
condensate. Non l’aveva visto quel mattino. Non aveva lavorato alla facciata
esterna ma la persiana del primo piano era aperta e i rumori di scalpello e
martello si sentivano dal di fuori.
- Marco, sono
io. Ci sei?
Tra
l’impalcatura comparve la chioma chiara e un sorriso di benvenuto. - Sali,
basta spingere.
Perché sentiva
quell’emozione nel varcare un vecchio palazzo che doveva essere sul punto di
crollare? Perché vedere gli spazi che lui conosceva le metteva agitazione?
Il portone era
solo accostato e dinanzi a lei una scalinata portava al piano superiore. Contò
i gradini volendo conoscere i particolari della vita di uno sconosciuto
capitato per caso.
- Dove sei? -
chiamò dal pianerottolo. Un lungo corridoio dinanzi a lei e un’infinità di
porte chiuse. L’odore di polvere e vecchio nell’aria. Le imposte chiuse e solo
un chiarore veniva di una porta spalancata da cui provenne la voce che più di
ogni altra cercava tra la gente.
- Vieni, Viola.
Sono qui.
Lasciava
impronte sulla patina di intonaco che era caduto dal muro, ma accanto alle sue
ve n’erano molte altre. Scoprì a cosa stesse lavorando.
- Che te ne
pare?
Un camino. Marco
stava ristrutturando un grosso camino in legno e pietra. I mattoni erano stati
levigati, lucidati e la mensola in noce ingentilito dalla cera d’api di cui
sentiva l’odore.
- Meraviglioso.
Stai preparando la cucina?
- Mi piace da
impazzire questa stanza.
Non c’era altro
che una brandina, un sacco a pelo e lo spazio aperto di una stanza. Un
tavolaccio ingombro di attrezzi e boccette e un angolo cottura funzionante con
bombola a gas. Era lì, che lui passava le giornate.
- Il camino è
splendido - disse avvicinandosi all’angolo dove lui aveva probabilmente passato
tante ore di lavoro.
- Ora lo
accendo. - Si mosse prendendo da una cesta tronchetti di legno e un quadratino
di combustibile. Sistemò a catasta e diede fuoco. Il filo di fumo cominciò a
salire ed entrambi aspettarono che succedesse qualcosa.
- Bene, la canna
fumaria è pulita e il tiraggio ottimo.
Marco alimentò
il fuoco e tutto le sembrò più caldo, dorato dalle fiamme e dalla soddisfazione
con cui lui guardava il frutto del lavoro. Ma il freddo era innegabile.
- Dormi qui? –
chiese facendo un gesto verso il sacco a pelo.
- Quando sono
troppo stanco per andare alla locanda, sì.
- Ma si gela.
- Dopo una
giornata di lavoro non sento nulla.
Bisognava
spazzare, pulire, scrostare una parte dell’intonaco e attrezzare quel posto per
renderlo vivibile. Un solo splendido camino non poteva fare miracoli.
- Cosa mi hai
portato?
- Coppa e fette
di pomodoro.
- Mmm.
Guardarlo
mangiare era una delizia.
- Vieni fuori
sul balcone.
Si strinse il
giubbotto e varcò la portafinestra avendo dei dubbi sulla solidità del palazzo.
Ma lui era solito uscire e, in effetti, vedere la piazza da un’angolazione
diversa dal solito rendeva giustizia. Nulla era diverso dal solito ma da lì si
sentiva di dominare il mondo, i tigli potati bassi, le facciate delle case che
attorniavano lo slargo. Le luci colorate ardevano anche di giorno e il suo
negozietto sfoggiava luminarie fucsia e viola non indifferenti.
- Non l’ho mai
vista dall’alto.
Mangiava in
silenzio mordendo e assaporando, mentre dal balcone si sentiva lo scoppiettio
della legna. Un furgone dell’Amministrazione si fermò al centro della piazza e
l’occorrente venne scaricato. Gli operai approntarono un supporto e un pino
venne infilato nella terra. L’albero di natale del paese sarebbe stato pronto a
breve, mentre le impalcature fasciavano ancora la facciata del palazzo con i
bei fregi coperti.
- Domani i
ragazzi della scuola elementare metteranno i bigliettini di Natale - gli disse
tanto per renderlo partecipe di una vita cittadina che non gli apparteneva. -
Da dove vieni, Marco?
- Da tanti
posti.
- Hai conoscenti
qui?
- Conosco te.
Per adesso mi basta.
- Ma… ma…
- Vieni domani a
mangiare un panino con me o devi scappare da qualche fidanzato?
- Ho chiesto a
Babbo Natale di portarmene uno, ma devo essere stata cattiva perché non è
arrivato. Amò il suo sorriso e l’angolo del labbro che tirava. Sporco e
impolverato era il ragazzo che avrebbe stretto tra le braccia per sempre. – Lo
sai che stai lavorando all’interno, vero?
Si era scurito
di nuovo. – Non significa nulla.
- Significa che
le motivazioni iniziali sono cambiate. Forse, e dico solo forse, stare qui non
è malaccio. – Sapeva di avere messo tutta la dolcezza possibile nel tono. Per
dirgli che lei lo pensava. Che lo vedeva nella sua quotidianità.
Ma lui non
rispose e Viola sentì il freddo dell’inverno gelare una tenerezza appena
sbocciata.
Come aveva
predetto, a ora di pranzo le classi sciamarono verso l’albero comune. Un
operaio attaccava messaggini e letterine sui rami più alti, mentre le maestre
si occupavano di quelli intermedi e i bambini stessi si dedicavano a fare
baldoria. Ora era un albero fatto di luci e carta colorata. La pioggia avrebbe
inzuppato tutto e portato via il grosso degli addobbi ma, quel giorno, sembrava
l’albero più bello del mondo. Anche Marco era diverso. Pulito, in jeans e
maglione di lana pesante. I capelli pettinati all’indietro e lo spazio della
cucina spazzato e ordinato.
Il balconcino
sempre aperto sulla piazza e da lì, Viola, spiava il suo mondo. Percepiva i
movimenti dietro di sé e li subiva. Sentendolo sulla pelle. Le sue mani sulle
spalle e l’albero del paese le sembrò prendere luce dal pulsare violento del
cuore.
- Sei dolce,
Viola.
- Salata come un
panino - rettificò sentendosi in imbarazzo per l’acutezza col quale lo sentiva.
- Piccante come
la pancetta e dolce come il formaggio svizzero. Acidula come i sottaceti e
profumata come un dolce fatto in casa.
- In pratica sono
da mangiare.
Il vento fece
dondolare i bigliettini dei bambini e Marco si scostò da lei. Prese un filo di
luci e l’avvolse con cura lungo la balaustra ancora arrugginita del balconcino.
Quando si accesero la facciata del palazzo si amalgamò con quelle attorno,
diventando parte di un’unica magia natalizia.
- Ora sei
davvero dei nostri.
- Anche tuo?
- Certo, faccio
parte di questa comunità.
- Mi aiuteresti
a trovare il mio posto?
Si volse
sentendo la profondità di una solitudine che aveva solo spiato. Avrebbe voluto
chiedere, indagare. Ma non poté fare domande. Si lasciò baciare avendo negli
occhi il riverbero delle luminarie e il chiarore delle iridi. Un bacio caldo
che chiedeva senza prendere. Che salutava senza imporsi. Che pregava senza
obbligare. E Viola si piegò a quel desiderio mentre il suo Natale si faceva di
colpo più vero.
- Sì, penso di
poterti aiutare. Ti terrò stretto tanto che non avrai più bisogno di respirare.
Né di cercare una via di fuga. Ti darò un motivo per restare.
FINE
CHI E' L'AUTRICE
Emiliana De Vico (1973) vive in un paesino nell’entroterra abruzzese, insieme al marito e ai due figli. Laureata in scienze sociali, lavora presso i Servizi Sociali di zona. Appassionata di romance, approccia questo filone dall’adolescenza. Alcuni suoi racconti sono contenuti in antologie della Delos Books a cura di Franco Forte (365 Storie d’amore; Speciale SF; Il Magazzino dei Mondi 2).Vincitrice della terza edizione di “La vie en rose” 2012 con Indaco. Il racconto Rose sui tratturi è stato segnalato dalla giuria del Premio Romance 2013 indetto da Mondadori. Ha scritto diversi racconti per la collana Senza Sfumature di Delos Digital.
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Molto emozionante questo racconto. Brava Emi.
RispondiEliminabuona conclusione d'anno e felice 2015 a tutti.
Libera
Un racconto ricco di emozioni. Emozioni quotidiane che ti sorprendono nella loro semplicità... Mi è piaciuta anche l'atmosfera che si respira nelle descrizioni del palazzo, in una narrazione dal sapore quasi retro'... Per finire l'anno con un racconto molto carino... Buon 2015
RispondiEliminaCara consorella Emiliana, il tuo racconto mi ha riportata magicamente alle atmosfere neorealiste delle pellicole con la Loren e la Lollo. Un narrare verace: semplice ma sostanzioso come un panino alla mortadella. Che la Dea ti benedica, Anonima Strega
RispondiEliminaE buona festa di Giano bifronte a tutte!
Romantico, onirico, dolceamaro e struggente, scritto molto bene.
RispondiEliminaUn po' malinconico, però...
Auguri a tutte per un nuovo anno pieno di gioia.
Eva P.
Mi piace molto il modo di scrivere di Emiliana, riesce a emozionare con le sue immagini vivide e i personaggi veri, che fanno parte di una quotidianità lontana, ma sempre presente. E questo amore che nasce tra un panino e l'altro mi è rimasto nel cuore. Grazie, Emiliana e tanti auguri per uno spumeggiante 2015!
RispondiEliminaChe carucce che siete. Un grazie a tutte per i commenti. E che la felicità sia la caratteristica comune per il 2015. Auguri! Emi
RispondiEliminaMolto bello.
RispondiEliminaUn bel racconto romantico, dolce e un po' nostalgico. Emozionante.
RispondiEliminaStruggente ed emozionante narra un amore reale. Nessun principe, nessun miliardario o sceicco che sia potrebbe eguagliare la ricchezza di un animo sensibile e solo una vera donna può capirlo. Brava Emiliana. Milena
RispondiEliminaUn racconto che ti scalda il cuore mentre lo leggi. :-)
RispondiEliminaBello ed emozionante, vero e colmo di tenerezza. Mi è piaciuto molto. Brava Emiliana!
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