Christmas in Love : UN MOTIVO PER RESTARE di Emiliana De Vico


"- Vieni domani a mangiare un panino con me o devi scappare da qualche fidanzato?
 - Ho chiesto a Babbo Natale di portarmene uno, ma devo essere stata cattiva perché non è arrivato. "
Un fidanzato bellissimo.
Un fidanzato normale.
Un fidanzato brutto.
Un fidanzato.
- Un panino, signorina!
Le sembrò normale ignorare il mondo e continuare a pensare ai fatti suoi. Si sarebbe accontentata di poco. Un uomo senza pretese. Avrebbe fatto una letterina e l’avrebbe nascosta tra quelle che i bambini della scuola elementare avrebbero appeso all’albero natalizio offerto dall’Amministrazione comunale ai cittadini. Intanto sistemò le palline colorate sul mini pino che avrebbe allocato sul bancone. Si immaginava già il rimprovero del medico sanitario. Polvere e pelucchi, signora non si addicono a una panetteria. Bene, avrebbe sopportato tutto e fatto di testa sua.  
- Insomma, vuole prepararmi un panino con la mortadella? Quella buona, signorina. Tagliata sottile come un velo di cipolla. E magra. Non ce l’ha più magra? E che non costi tanto. Sì, insomma, un buon rapporto tra qualità prezzo.
Viola lasciò le decorazioni e osservò il bancone del frigo, i salumi ordinati sul piano di metallo. – Mi spiace signore. La mortadella non c’è.
Non diede peso all’occhiata stranita dell’uomo che continuava a passare dal frigo a lei, ferma accanto al bancone.
- E quelle cosa sono? 
Avrebbe volentieri mozzato il dito dell’uomo che si era spiaccicato contro il vetro. Non era mica una lastra per schedare le impronte digitali dei mangiatori di panini. – Non hanno i requisiti da lei richiesti.
Le fiamme negli occhi dell’uomo le facevano un baffo.
- Allora mi faccia un panino col prosciutto cotto. Quello buono, signorina. Tagliato spesso quasi un dito. Non troppo magro. Non ce l’ha con più venature di grasso? E che non costi tanto. Sì, insomma, un buon rapporto tra qualità prezzo.
Viola si rassegnò a mettere i guanti in lattice e prese una forma di prosciutto cotto. - Questa è quella che vuole. – Non si fermò a guardare quale marca avesse preso. Un Rovagnati era lo stesso di un Casa Modena. Un Fiorucci assolutamente buono come a un Galbani. Ne tagliò un paio di fette, forse grandi come un dito. Forse sottili come un velo di cipolla e imbottì il panino che arrotolò nella carta del pane. - Ecco a lei signore. Buon Natale.
Prima che la porta fosse chiusa aveva già in mano lo straccetto per cancellare l’onnipresente chiazza digitale su una lastra che nulla poteva contro gli scostumati in giro per il mondo.
Riprese le stelle filanti che avrebbe messo qua e là, in giro nel piccolo negozietto. I panini freschi e il pane fragrante erano a posto. Le pizze rotonde impilate in bell’ordine e l’angolo degli affettati lustro come sempre. Lavorava lì da un anno. Era entrata single e ci navigava dentro ancora senza una soddisfazione affettiva. Un nastro luccicante andò attorno alla vetrata dell’ingresso e un cordoncino dorato profilò i banconi di legno e metallo. Non si poteva fare di più. Se fosse dipeso da lei avrebbe rivestito tutti gli insaccati con una tutina rossa allineandoli come tanti neonati in un nido d’ospedale. Ma le regole sanitarie imponevano che i salumi restassero nudi e crudi.
- Mi prepara qualcosa da mangiare?
Viola lasciò il lavoro di addobbo e si arrese alla fame cittadina. – Certo, una lasagna, un piatto di spaghetti un roastbeef? - Non aveva più voglia di fare panini. All’ora di punta tutto diventava più caotico, gli stomaci affamati muovevano le gambe della gente nel il suo regno di molliche e croste. Ma anche di fragranze e vapori di paste e frolle.
- Mi piacerebbe davvero, ma penso che lei stia solo cercando di farmi morire di fame con la bava alla bocca. Mi dia almeno un semplice panino.
Viola si allontanò dai nastri che ancora doveva sistemare. – Quale vuole? All’olio, di pane, con le olive, con il latte, la ciabattina o …
- Scelga lei. Ma faccia presto, la prego.
Non guardò che gli scompartimenti alla ricerca del panino tondo e liscio che, da sempre, era il suo preferito. Niente fronzoli. Crosta dura fuori e soffice pasta dentro. – Cosa ci vuole?
Si spostò nell’area dei salumi e solo in quel momento si rese conto che quell’uomo avrebbe potuto lasciare tutte le impronte digitali su ogni spazio del negozio. Non ne avrebbe tolto neanche una, anzi, pretendeva che allungasse la mano e oltre al dito lasciasse il marchio, palmo compreso. – Metta anche il viso.
- Cosa? Mi scusi non ho capito.
Si diede uno scappellotto mentale. – Si avvicini e guardi col viso rivolto… - si stava cacciando in una spiegazione ridicola e insensata. Il tutto per coprire la sorpresa. Non capitavano passanti di quella fattura. Con i jeans impolverati e un giaccone liso. Ma il viso chiaro con la barba appena accennata era sensuale. Gli occhi non classificabili ancora e i capelli cortissimi.
Anche se era sul rialzo, dietro il bancone, doveva comunque tenere il viso sollevato.
- Metta dentro quello che vuole. L’importante è che sia rapportato alla mia fame. E le assicuro che è tanta.
Non sapeva perché avesse preso la pancetta arrotolata. Forse perché la sua, di pancia, aveva fatto un salto ingarbugliandosi? Porse perché si sentiva annebbiata come in un affumicatoio?
Riempì il tutto fino a che non fu possibile unirne i lembi. Non era un panino con affettato, ma un affettato con un misero involucro di pane. - Ecco a lei. - Glielo porse e si tenne il più vicina possibile per capire di che colore fossero quegli occhi che avevano seguito tutti i passaggi per la costruzione dello spuntino. Azzurri? Blu? Restò sorpresa vedendoli di un verde cristallino, come l’acqua marina attorno allo scoglio scuro della pupilla.
- Grazie, le lascio qui i soldi.
- Certo, arrivederci.
Lo seguì attaccando il naso alla vetrina. Questa volta era stata lei a lasciare un’impronta nasale, ma non si staccò fino a che non vide l’uomo attraversare piazza Risorgimento ed entrare nel portone del palazzo, proprio di fronte al negozietto.
- È un mio vicino!
Studiò il pannello di legno scrostato, di un azzurrino che portava sulle venature gli anni passati. Borchie attorno e fasci di metallo. La facciata di un palazzo signorile in decadenza. Di un’origine a lei sconosciuta. Ma i fregi che contornavano i finestroni erano di una grazia squisita, sotto sfoglie di intonaco pendenti. Da quando lavorava in negozio non aveva mai visto nessuno entrare e uscire dal palazzo a due piani. Pensava fosse disabitato. E lo era, a giudicare dalla imposte chiuse e dalle condizioni dello stabile. Invece in quel preciso istante un’anta del primo piano si aprì e dal balconcino uscì l’uomo che l’aveva sorpresa con la sola presenza. Sembrava stesse respirando il fresco dell’aria montana, con lo sguardo abbracciava la piazza e le case in circolo. Lo vide scartare il panino e dargli un morso. Viola sentì sulla lingua il sapore della pancetta affumicata tagliata sottile e il gusto del pane saporito. Si ritrovò a masticare un boccone di nulla mentre lui mangiava in piedi e osservava il mondo, nascosta tra le tendine della vetrina.
 

Era un muratore. Un muratore solitario. Aveva costruito una impalcatura tutto da solo e ora si arrampicava su e giù per le scale di metallo. Con una pazienza certosina stava scrostando l’intonaco della facciata accumulando calcinacci a terra. Viola lo osservava da giorni. Sapeva ormai come si muovevano le sue gambe. Che inclinazione faceva la testa nell’osservare i fregi e gli stucchi che aveva fasciato con una carta chiara, proteggendoli dalla polvere e dalle intemperie. Sapeva quali orari faceva. Quando apriva il negozietto lui era già al lavoro. Non smetteva mai prima che lei chiudesse per il riposo pomeridiano, e quando rientrava lo trovava di nuovo sull’impalcatura.
- Viola, me lo incarti?
- Cosa? Eh, scusa, cosa vuoi?
- Sei tra le nuvole dolcezza. Sai chi è quello lì?
Le pettegole del paese avevano un solo elemento positivo. Sapevano tutto di tutti ed erano pronte a condividere il loro immenso sapere col mondo intero.
- No, non lo so, signora Agnese. Lei?
- E chi lo sa cos’è stato a portare qui quel ragazzo. Deve essere un nipote che ha ereditato la proprietà. Ci sta sprecando tutto questo tempo quando avrebbe dovuto buttare giù tutto.
- Perché? È un bellissimo palazzo.
- Ma dentro è una catapecchia.
- Ci è stata qualche volta?
- Tempo fa.
Voleva chiedere, quando, perché, cosa facesse di un palazzo signorile una catapecchia. 
Le tese la busta di carta con la baguette e attese altre notizie. Ma non ce ne furono. Si strinse il nodo della coda. Da sempre teneva i capelli in ordine tirandoli con una molletta. Lunghi, certo, ma ribelli, e scuri. Ciglia e sopracciglia come sbafi di carbone e occhi dal languido colore caramello. Ed esasperatamente single.
Tornò al suo posto da guardona e lo stomaco le fece un salto quando lo vide attraversare la piazza e raggiungere la porta del negozio. Fece finta di sistemare una lucina delle luminarie e arruffò la ghirlanda. - Buongiorno.
- A lei, signorina.
- Viola.
- Cosa?
- Può chiamarmi Viola. Se vuole.
Le piaceva quel modo intenso di guardarla. Profondo e carezzevole. Si stava soffermando sulla sua bocca. Ce l’aveva aperta, forse? Strinse le mandibole per esserne sicura.
- Viola. Molto bello.
Certo. Il suo nome era bello, ma lei, lei come persona com’era? – Grazie. Vuole un panino?
Aveva la giacca impolverata ma le mani erano pulite anche se un poco screpolate dal lavoro. – Io uso questa. Passare dal caldo al freddo dell’inverno è una sofferenza per le mani. - Gli tese un tubetto di crema.
- Mi cede la sua pozione magica?
- Le cedo il rimedio contro le screpolature. Qui ha uno spacco profondo. Non sente il dolore? – Incredibile, dal bancone si era sporta e gli aveva preso una mano seguendo col dito una lunga striscia rossa i cui bordi si erano induriti a contatto con la polvere dell’intonaco.
- Certo. Mi fa male.
- Come potrebbe non essere così. Tenga, ci metta questa e la copra con un guanto. Prenda tutto il tubetto, io ne ho un altro.
Perché la guardava sorpreso? Cosa aveva fatto di strano se non essere gentile con un muratore solitario? Nascose le mani dentro il grembiule da lavoro sentendo in quel momento il rossore alle guance di un tocco non premeditato, ma desiderato.
La facciata della palazzina era l’unica senza decorazioni natalizie. Ogni singola casa aveva un alberello scintillante, un filo di lucine colorate alle ringhiere dei balconi, un babbino di natale scalatore. Ma quel palazzo addormentato non aveva vitalità. Era una casa ancora addormentata, fasciata da bende bianche che l’uomo aveva posizionato in luoghi strategici. Una chiostra scintillante con un unico dente ancora da limare. Ancora da sanare.
- E’ gentile. Grazie. Mi preparerebbe anche qualcosa da mangiare?
- Un panino?
- È piccino. Oggi ho lavorato senza fare colazione.
Viola ci pensò su. - Guardi, le apro questa focaccia e ci metto dentro qualcosa di sostanzioso, così si sentirà meglio.
- Va bene, lascio a lei la scelta.
Affettò il prosciutto stagionato in fette lucide e sottili adagiandole in un verso, e poi ricoprì il tutto con un velo di formaggio piccante. Un filo d’olio e la focaccia era già bella che pronta. Incartò appaiando gli angoli e poi si volse. – Non mi dica che non le piace il formaggio.
- No, no. Anzi. Non avrei fatto un accostamento del genere, ma se me lo consiglia come rimedio antifatica lo accetto volentieri.
Prese il sorriso un pochetto ironico e lo conservò nel cassetto mentale che aveva cominciato a riempire, senza volerlo, con le immagini di un uomo sconosciuto. - Lo provi, se non funziona la risarcirò.
Sentì il brivido alla risata dell’uomo.
- Resterà in questo paese? - Perché si era adombrato?
- No, penso di no. Sono qui per lavorare alla facciata della palazzina. Quando sarà presentabile metterò in vendita il tutto.
- Oh, allora è questo che sta facendo? Lava la faccia a un palazzo antico e lo imbelletta per invogliare l’acquirente?
- Qualcuno lo chiama compravendita, Viola. E poi, ho bisogno di muovermi spesso. Di una via di fuga.
- Perché? È ricercato dalla polizia?
- Lei sa trovare le alternative migliori alla realtà dei fatti, mia bella commessa. Semplicemente, non ho motivo di restare.
Non aveva capito tanto altro di lui. Lo osservò fino a che non rientrò nel portoncino scrostato. La solita finestra del piano superiore si aprì e lui usci sul balconcino. Si accomodò su una sedia e iniziò a mangiare guardando il mondo accerchiato della piazza. Viola segui le sue movenze, scivolò sui capelli chiari e sul collo che scompariva sotto il giubbotto impolverato. In pieno inverno doveva essere duro lavorare all’aperto. Non arrivavano altri muratori in suo aiuto. Restava sempre e solo lui. Anche da lontano percepiva la sua solitudine. La necessità di stare da soli. Ma era ora di andare a casa. Salutò mentalmente il suo dirimpettaio e restò sospesa nel vuoto quando lui mosse la mano in un ok di approvazione.
Portò via le guance rosse dal vetro e si rintanò nell’ufficetto. Non poteva negarlo. Guardare quello sconosciuto era diventata un’esigenza, non solo un piacere.


Cominciava a truccarsi con troppa meticolosità, attenta al risultato. Ciglia sottolineate dal mascara e linea dell’occhio allungata dalla matita nera. Il burrocacao era stato sostituito da un rosa pesca e le guanciotte arrossate normalmente dall’idea di vederlo ancora. Ma presto sarebbe andato via. La ristrutturazione di una facciata non era eterna.
- Cosa le preparo oggi?
- Marco.
- Cosa?
- Può chiamarmi Marco.
- Oh, grazie. E lei può lasciare l’impronta del suo dito sul vetro del bancone.
- No, non lo farò, stia tranquilla.
- Non lo dico con acredine. Questo bancone possiede tutte le linee digitali dell’intero paese. Mancano solo le sue. Ma lei non farà parte di questa comunità.
- Be’, se è questo, allora mi permetto. Che dice se ne lascio una qui?
Aveva scelto un angolino della lastra ignorando l’insita domanda nella sua voce. La pressione era stata delicata. Ora Viola aveva il suo dito stampato. - Ecco. Ora è dei nostri. - Speck e sottaceti nella ciabatta croccante per il pasto giornaliero. - È un bellissimo palazzo. Non ha voglia di tenerlo?
- No. - L’aroma di aceto aleggiava nel negozietto insieme al profumo inconfondibile di pane appena sfornato. Marco stava osservando la facciata del palazzo dal vetro del negozio. – No, non ho nulla che mi tenga qui. Lo ristrutturerò per quanto possibile e poi…
- Lo farà da solo?
- Ci sono interventi che hanno bisogno di manodopera specifica, quindi le squadre arriveranno poi, sempre se dovessi decidere di intervenire anche all’interno.
- È suo?
- Sì, è mio.
- L’ha ereditato dal Rischietto?
- Rischietto?
- Il vecchio medico di paese che vi abitava. Non è suo nonno?
- No, ho acquistato dal precedente proprietario. Non so chi sia questo Rischietto.
- Ah!
Viola si sistemò un ciuffetto di capelli che era sfuggito alla molletta. Le si incollava al labbro facendole il solletico e attirando gli occhi verdi in quel punto. – C’è la remota possibilità che venga a vivere qui?
Portare il peso di occhi tanto belli non era semplice. Viola accettò lo sguardo cupo che la investì. Lo sostenne, lo accolse, lo sfidò.
- Penso di no. Mi vuoi come dirimpettaio?
Era passato a un tono informale che rese le parole più dolci.
- Certo. È l’unica casa disabitata. – Indicò la vetrata dalla quale lo spiava ogni momento. Tra i fili luccicanti e le stelle di neve dipinte si vedeva chiara la costrizione dimessa. E se ne percepiva il potenziale.
- Lo resterà ancora per un poco. A domani, Viola.

Il panino giornaliero era diventato un momento cruciale nella sua monotona vita da commessa. La pioggerella raffreddava tutto molto più in fretta di una bella nevicata. E Marco lavorava senza smettere. Aveva lisciato e tolto tutto l’intonaco della facciata fino a riportare a vista i mattoni della costruzione con i bei toni giallo ocra, oro rosso, mattone, sabbia. Solo i fregi erano ancora incartati e protetti.
Viola si preparò ad andare a casa. Quel giorno Marco sembrava non volere smettere di lavorare ed era ora di chiudere. Eppure aveva lasciato per lui una bella rosetta croccante in cui adagiare bresaola e parmigiano. Lo preparò lo stesso. Lo incartò e lo mise dentro un sacchettino bianco. Dalla vetrinetta dei dolci prese un parrozzo coperto di cioccolato e uscì dal negozio. Poteva farlo. Marco era diventato un amico. Marco era diventato un suo cruccio. Marco era diventato un uomo da osservare. Da sognare. Da sfamare
Attraverso Piazza Garibaldi stringendo al collo il bavero del giubbotto. Il raschietto scavava e toglieva tutto ciò che era superfluo all’anima del palazzo. - Ti ho portato qualcosa.
La mano impolverata si era fermata. Marco aveva fatto un passo indietro e osservava il risultato del suo lavoro. Senza dire nulla. Senza fare null’altro che tenere gli occhi sulla sua amata costruzione. Sì, doveva amarla altrimenti non avrebbe speso tanto tempo ed energie per riportarla alla vita.
- Sei gentile.
Non si era voltato per prendere il sacchetto e la pioggia cominciava a diventare insistente. Marco non se curava. Alcune goccioline si erano fermate sulle ciglia e Viola ebbe la voglia di leccarle via.
- Tieni, mangia quando avrai fame. - Lo sfiorò ponendogli il sacchetto sul palmo.
- È già ora di andare?
- Sì, all’una chiudo. Lo sai.
- Non mi ero accorto che fosse così tardi.
- Quando lavori perdi il senso della realtà. - Era così bello vederlo stranito, quasi confuso. Lui alzò il viso a guardare il cielo grigio e solo in quel momento si rese conto che era zuppo da capo a piedi.
Viola rabbrividì per lui.
- Vieni qui sotto… stai un poco con me. – La guardava più confuso che mai. – Se vuoi.
- Certo, resto un attimo.
La guidò sotto un’impalcatura coperta da un telo. Marco entrò sotto il rifugio e la invitò a sedersi sui sacchi di cemento impilati l’uno sull’altro. – E’ asciutto, almeno.
Non era la comodità che cercava. Non da quando lo aveva visto iniziare i lavori alla facciata del palazzo. Le sembrò elettrizzante averlo al fianco, col solito giubbotto ultra impolverato e i jeans del colore dell’intonaco. Ma restava il ragazzo più affascinante che avesse mai visto. Aspettò che aprisse il sacchetto e scartasse il panino. Lo vide annusare come se il pasto iniziasse dall’odore e non dal sapore e poi guardarla fissa. Il verde dentro il caramello. Fissarsi sotto un telone cerato e seduti su sacchi duri era strano. Ma vicini, i respiri udibili sotto il ticchettio della pioggia sulle bancate dei metallo.
- Tieni, mangia con me.
- No, no. Io vado a casa. Tu invece hai bisogno di… - Prese il pezzo di panino tanto per sfiorargli le dita e seguì il suo esempio masticando il primo boccone a lungo. Sentendone sapore e aroma sulla lingua. Mangiarono in silenzio coperti dalla plastica e attorniati dalla polvere dei calcinacci, mentre rivoli di pioggia correvano per la piazza. - Ti ho portato un dolcetto.
Marco scartò il piccolo parrozzo e lo divise a metà con le dita. - Il profumo è meraviglioso.
Le avvicinò il boccone, e quando l’impasto spugnoso sfiorò il suo labbro fu come se la stesse baciando. Come se il sapore delle mandorle fossero un prodotto della bocca maschile. Se il cioccolato fondente fosse l’essenza di Marco.
Il brivido della condivisione, la dolcezza delle sue attenzioni la sconvolsero. Da tempo aveva necessità di un’affinità elettiva. Di un interesse nato per caso. E Marco appariva il più bell’interesse che avesse mai visto. Ma erta un uomo di passaggio. Sarebbe andato via per approntare altre facciate, altre costruzioni.
- Devi andare. Non voglio trattenerti oltre.
Viola avrebbe voluto obiettare. Ma lui si era alzato e la invitava a passare. Non le restò che portare con sé un bacio fatto di mandorla e cioccolato.

Ci avrebbe provato. Sì, per la miseria, altroché se ci avrebbe provato. Un invito, un’ uscita solo loro due. Una semplice serata per conoscerlo meglio. Avrebbe goduto dei pochi momenti che ancora rimanevano loro. Gli avrebbe raccontato dei sui studi in biologia e avrebbe chiesto del suo passato. Conosciuto cosa si era lasciato dietro e cosa desiderava per il futuro.  E perché un uomo così sensuale non avesse uno stuolo di mogli e amanti. Ma forse ne aveva e lei ne era all’oscuro.
Gli aveva promesso di portargli qualcosa da mangiare e all’una in punto aveva chiuso il negozio con un colpo secco di chiave. Non le importava di attraversare Piazza Risorgimento come un plotone in marcia. Bussò più volte al portone scrostato. Il freddo aveva spruzzato di brina tutte le valli e anche le tettoie erano condensate. Non l’aveva visto quel mattino. Non aveva lavorato alla facciata esterna ma la persiana del primo piano era aperta e i rumori di scalpello e martello si sentivano dal di fuori.
- Marco, sono io. Ci sei?
Tra l’impalcatura comparve la chioma chiara e un sorriso di benvenuto. - Sali, basta spingere.
Perché sentiva quell’emozione nel varcare un vecchio palazzo che doveva essere sul punto di crollare? Perché vedere gli spazi che lui conosceva le metteva agitazione?
Il portone era solo accostato e dinanzi a lei una scalinata portava al piano superiore. Contò i gradini volendo conoscere i particolari della vita di uno sconosciuto capitato per caso.
- Dove sei? - chiamò dal pianerottolo. Un lungo corridoio dinanzi a lei e un’infinità di porte chiuse. L’odore di polvere e vecchio nell’aria. Le imposte chiuse e solo un chiarore veniva di una porta spalancata da cui provenne la voce che più di ogni altra cercava tra la gente.
- Vieni, Viola. Sono qui.
Lasciava impronte sulla patina di intonaco che era caduto dal muro, ma accanto alle sue ve n’erano molte altre. Scoprì a cosa stesse lavorando.
- Che te ne pare?
Un camino. Marco stava ristrutturando un grosso camino in legno e pietra. I mattoni erano stati levigati, lucidati e la mensola in noce ingentilito dalla cera d’api di cui sentiva l’odore.
- Meraviglioso. Stai preparando la cucina?
- Mi piace da impazzire questa stanza.
Non c’era altro che una brandina, un sacco a pelo e lo spazio aperto di una stanza. Un tavolaccio ingombro di attrezzi e boccette e un angolo cottura funzionante con bombola a gas. Era lì, che lui passava le giornate.
- Il camino è splendido - disse avvicinandosi all’angolo dove lui aveva probabilmente passato tante ore di lavoro.
- Ora lo accendo. - Si mosse prendendo da una cesta tronchetti di legno e un quadratino di combustibile. Sistemò a catasta e diede fuoco. Il filo di fumo cominciò a salire ed entrambi aspettarono che succedesse qualcosa.
- Bene, la canna fumaria è pulita e il tiraggio ottimo.
Marco alimentò il fuoco e tutto le sembrò più caldo, dorato dalle fiamme e dalla soddisfazione con cui lui guardava il frutto del lavoro. Ma il freddo era innegabile.
- Dormi qui? – chiese facendo un gesto verso il sacco a pelo.
- Quando sono troppo stanco per andare alla locanda, sì.
- Ma si gela.
- Dopo una giornata di lavoro non sento nulla.
Bisognava spazzare, pulire, scrostare una parte dell’intonaco e attrezzare quel posto per renderlo vivibile. Un solo splendido camino non poteva fare miracoli.
- Cosa mi hai portato?
- Coppa e fette di pomodoro.
- Mmm.
Guardarlo mangiare era una delizia.
- Vieni fuori sul balcone.
Si strinse il giubbotto e varcò la portafinestra avendo dei dubbi sulla solidità del palazzo. Ma lui era solito uscire e, in effetti, vedere la piazza da un’angolazione diversa dal solito rendeva giustizia. Nulla era diverso dal solito ma da lì si sentiva di dominare il mondo, i tigli potati bassi, le facciate delle case che attorniavano lo slargo. Le luci colorate ardevano anche di giorno e il suo negozietto sfoggiava luminarie fucsia e viola non indifferenti.
- Non l’ho mai vista dall’alto.
Mangiava in silenzio mordendo e assaporando, mentre dal balcone si sentiva lo scoppiettio della legna. Un furgone dell’Amministrazione si fermò al centro della piazza e l’occorrente venne scaricato. Gli operai approntarono un supporto e un pino venne infilato nella terra. L’albero di natale del paese sarebbe stato pronto a breve, mentre le impalcature fasciavano ancora la facciata del palazzo con i bei fregi coperti.
- Domani i ragazzi della scuola elementare metteranno i bigliettini di Natale - gli disse tanto per renderlo partecipe di una vita cittadina che non gli apparteneva. - Da dove vieni, Marco?
- Da tanti posti. 
- Hai conoscenti qui?
- Conosco te. Per adesso mi basta.
- Ma… ma…
- Vieni domani a mangiare un panino con me o devi scappare da qualche fidanzato?
- Ho chiesto a Babbo Natale di portarmene uno, ma devo essere stata cattiva perché non è arrivato. Amò il suo sorriso e l’angolo del labbro che tirava. Sporco e impolverato era il ragazzo che avrebbe stretto tra le braccia per sempre. – Lo sai che stai lavorando all’interno, vero?
Si era scurito di nuovo. – Non significa nulla.
- Significa che le motivazioni iniziali sono cambiate. Forse, e dico solo forse, stare qui non è malaccio. – Sapeva di avere messo tutta la dolcezza possibile nel tono. Per dirgli che lei lo pensava. Che lo vedeva nella sua quotidianità.
Ma lui non rispose e Viola sentì il freddo dell’inverno gelare una tenerezza appena sbocciata.

Come aveva predetto, a ora di pranzo le classi sciamarono verso l’albero comune. Un operaio attaccava messaggini e letterine sui rami più alti, mentre le maestre si occupavano di quelli intermedi e i bambini stessi si dedicavano a fare baldoria. Ora era un albero fatto di luci e carta colorata. La pioggia avrebbe inzuppato tutto e portato via il grosso degli addobbi ma, quel giorno, sembrava l’albero più bello del mondo. Anche Marco era diverso. Pulito, in jeans e maglione di lana pesante. I capelli pettinati all’indietro e lo spazio della cucina spazzato e ordinato.
Il balconcino sempre aperto sulla piazza e da lì, Viola, spiava il suo mondo. Percepiva i movimenti dietro di sé e li subiva. Sentendolo sulla pelle. Le sue mani sulle spalle e l’albero del paese le sembrò prendere luce dal pulsare violento del cuore.
- Sei dolce, Viola.
- Salata come un panino - rettificò sentendosi in imbarazzo per l’acutezza col quale lo sentiva.
- Piccante come la pancetta e dolce come il formaggio svizzero. Acidula come i sottaceti e profumata come un dolce fatto in casa.
- In pratica sono da mangiare.
Il vento fece dondolare i bigliettini dei bambini e Marco si scostò da lei. Prese un filo di luci e l’avvolse con cura lungo la balaustra ancora arrugginita del balconcino. Quando si accesero la facciata del palazzo si amalgamò con quelle attorno, diventando parte di un’unica magia natalizia.
- Ora sei davvero dei nostri.
- Anche tuo?
- Certo, faccio parte di questa comunità.
- Mi aiuteresti a trovare il mio posto?
Si volse sentendo la profondità di una solitudine che aveva solo spiato. Avrebbe voluto chiedere, indagare. Ma non poté fare domande. Si lasciò baciare avendo negli occhi il riverbero delle luminarie e il chiarore delle iridi. Un bacio caldo che chiedeva senza prendere. Che salutava senza imporsi. Che pregava senza obbligare. E Viola si piegò a quel desiderio mentre il suo Natale si faceva di colpo più vero.
- Sì, penso di poterti aiutare. Ti terrò stretto tanto che non avrai più bisogno di respirare. Né di cercare una via di fuga. Ti darò un motivo per restare.

FINE

CHI E' L'AUTRICE
Emiliana De Vico (1973) vive in un paesino nell’entroterra abruzzese, insieme al marito e ai due figli. Laureata in scienze sociali, lavora presso i Servizi Sociali di zona. Appassionata di romance, approccia questo filone dall’adolescenza. Alcuni suoi racconti sono contenuti in antologie della Delos Books a cura di Franco Forte (365 Storie d’amoreSpeciale SFIl Magazzino dei Mondi 2).Vincitrice della terza edizione di “La vie en rose” 2012 con Indaco. Il racconto Rose sui tratturi è stato segnalato dalla giuria del Premio Romance 2013 indetto da Mondadori. Ha scritto diversi racconti per la collana Senza Sfumature di Delos Digital.

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11 commenti:

  1. Molto emozionante questo racconto. Brava Emi.
    buona conclusione d'anno e felice 2015 a tutti.
    Libera

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  2. Un racconto ricco di emozioni. Emozioni quotidiane che ti sorprendono nella loro semplicità... Mi è piaciuta anche l'atmosfera che si respira nelle descrizioni del palazzo, in una narrazione dal sapore quasi retro'... Per finire l'anno con un racconto molto carino... Buon 2015

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  3. Cara consorella Emiliana, il tuo racconto mi ha riportata magicamente alle atmosfere neorealiste delle pellicole con la Loren e la Lollo. Un narrare verace: semplice ma sostanzioso come un panino alla mortadella. Che la Dea ti benedica, Anonima Strega
    E buona festa di Giano bifronte a tutte!

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  4. Romantico, onirico, dolceamaro e struggente, scritto molto bene.
    Un po' malinconico, però...
    Auguri a tutte per un nuovo anno pieno di gioia.
    Eva P.

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  5. Mi piace molto il modo di scrivere di Emiliana, riesce a emozionare con le sue immagini vivide e i personaggi veri, che fanno parte di una quotidianità lontana, ma sempre presente. E questo amore che nasce tra un panino e l'altro mi è rimasto nel cuore. Grazie, Emiliana e tanti auguri per uno spumeggiante 2015!

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  6. Che carucce che siete. Un grazie a tutte per i commenti. E che la felicità sia la caratteristica comune per il 2015. Auguri! Emi

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  7. Un bel racconto romantico, dolce e un po' nostalgico. Emozionante.

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  8. Struggente ed emozionante narra un amore reale. Nessun principe, nessun miliardario o sceicco che sia potrebbe eguagliare la ricchezza di un animo sensibile e solo una vera donna può capirlo. Brava Emiliana. Milena

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  9. Un racconto che ti scalda il cuore mentre lo leggi. :-)

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  10. Bello ed emozionante, vero e colmo di tenerezza. Mi è piaciuto molto. Brava Emiliana!

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