"Sogno riempiendo la zuccheriera, nemmeno aspettassi una romanzesca visita a sorpresa, nemmeno i rumori modificati dall’infittirsi di fiocchi, attutiti, acuiti, deformati, annunciassero l’arrivo di un uomo affascinante- vogliamo parlare direttamente di un principe?- che mi porterà via, verso un radioso happy end. Al più, si aggireranno animali selvatici."
Nella recita natalizia, mi spetta di
diritto il ruolo dell’elfo maldestro e pasticcione.
Non che io abbia mai preso parte a un
qualche spettacolo teatrale, nemmeno ai tempi delle scuole elementari, dove
l’ultima parola sui testi che regolarmente proponevo, sperando venissero messi
in scena, toccava a una maestra con la faccia più grigia del suo golf, la quale
sentenziava che no, non potevamo
rappresentare la storiella, con una classe troppo indisciplinata e un programma
da rispettare.
Quando si apre l’invisibile sipario
delle feste decembrine, tuttavia, sono sempre quella che inciampa nei pacchetti,
indossa abiti inappropriati, risulta allergica al piatto forte del menu della
zia e incendia il tovagliolo con le candele. Insomma, la frana della pièce, la
spalla comica; almeno fino a quest’anno.
Ok, ho applicato un piano di fuga.
Pensare che l’atmosfera profumata di zenzero, cannella e favole, mi piace,
eccome: sogno un albero scintillante, una tavola decorata da me, e tutto
intorno un clima d’affetto. Ma con chi potrei sedermi a tale banchetto?
Negli ultimi tre anni, ho perso
entrambi i miei genitori. Zii e parenti agiscono, certo, mossi da buone
intenzioni, però, ai loro cenoni, ai pranzi fluviali nella durata e nei
discorsi, e alle tombolate, mi sento,
come minimo, a disagio. Per dirla in modo più esplicito, provo una tristezza e
una nostalgia dolorose, appesantite, talvolta, dall’impressione di sfoggiare
una vistosa scritta sul vestito: single quasi trentunenne senza fidanzati in
vista.
Da piccola, usavo la mia condizione di
figlia unica come scudo contro le cugine che facevano gruppo: vantavo l’assoluto
dominio sui miei giocattoli e una notevole autonomia di scelta e di capricci.
Replicare tale copione, aggiornato
all’attualità, risulta ormai impossibile; loro si fidanzano, loro si sposano,
loro mettono al mondo bimbi. Io? Io no. E la storia della libertà, del lavoro,
della gratificazione del tempo da godere, non se la beve più nessuno. Incolpare
il destino avverso suonerebbe patetico, dissertare delle mie insicurezze,
piagnucoloso e pseudo psicanalitico.
Di solito, preferisco non riflettere
sulle mie prospettive sentimentali: lo ammetto, non mi piace neppure che gli
altri ci pensino.
Ad esempio, non volendo rischiare
rigurgiti di commiserazione, ho raccontato una fumosa fandonia, con al centro
una fantomatica compagnia di amici elvetici incontrati sei mesi fa, quando
davvero sono andata in Svizzera per lavoro, asserendo che trascorrerò con loro
una divertente vacanza. Che importa se a Ginevra ho conosciuto gente più fredda
del lago, che ritiene una stranezza, nell’ambito finanziario in cui opero, il
mio entusiasmo passionale
nell’occuparmi di opere d’arte, seppur acquistate dai clienti per mero
investimento?
Credo che i miei sconclusionati
discorsi sulla combriccola ginevrina non li abbia creduti neppure la conoscente
da cui ho preso in affitto il delizioso villino tra gli alberi, pieno di
dettagli sognanti (altri direbbero vecchio e scomodo, e non so perché tentassi
di dar a intendere che ci sarà gente con me, a lei importa che paghi la somma
pattuita, e basta), che sarà mio fino al 2 gennaio.
Non importa, ieri ho consumato il primo
dei miei dieci giorni riconoscendo la voce del vento, secondo me gentile, anche
se carica di neve, sistemando il salottino con le decorazioni natalizie preparate nelle sere d’autunno, e aggiungendo
i miei compagni preferiti: romanzi, dolci e schemi per il punto croce,
rigorosamente British.
Fuori dalle finestre del cottage non si
stende la campagna inglese, sostituita dal paesino quasi ignoto alle carte
stradali dove trascorsi alcuni periodi da ragazzina, poiché vi abitava una zia
di mia mamma. Non c’è più nemmeno lei, la sua casa ridipinta guarda ancora il
centro del borgo, le strette vie che non vantano glamour da mete sciistiche e
non pullulano di passanti come le località alla moda. Va benissimo così. C’è
aria di freddo, cose buone e tranquillità, e io regno sulla casetta ai margini
di un parco, discosta dal centro, nata da più di un secolo come dependance di
una grande villa.
Ora la neve cade davvero: meglio
preoccuparsi o entusiasmarsi? Per il momento, sbircio attraverso i vetri
squadrettati della finestra, verso il lontano centro, compatto attorno allo
svettante campanile, il viottolo che si fa bianco, un ghiacciolo che pende a
pochi centimetri da me.
Come in una fiaba, le faccende vanno
sbrigate: non ho aiuti fatati, e consulto spesso gli appunti firmati doppia c
(Clementina Cantoni, padrona della casa), che fortunatamente enumerano
istruzioni e collocazione di utensili per evenienze d’ogni genere. Il vademecum
lasciato da Clementina si conclude con un’ipotesi: i suoi fratelli, saranno,
forse, alla villa. Non li conosco, e non so se devo far loro visita: ci
ragionerò.
Metto legna nel camino, sprimaccio i
cuscini, preparo una teiera. Se fosse possibile codificare l’aria domestica,
asserirei che qui, fra la credenza non immune da tarli e il cretonne a fiori
stinti, abbonda. Sogno riempiendo la zuccheriera, nemmeno aspettassi una
romanzesca visita a sorpresa, nemmeno i rumori modificati dall’infittirsi di
fiocchi, attutiti, acuiti, deformati, annunciassero l’arrivo di un uomo
affascinante- vogliamo parlare direttamente di un principe?- che mi porterà
via, verso un radioso happy end. Al più, si aggireranno animali selvatici.
Buffo, il gioco del visitatore
immaginario, e la fantasia galoppa: pare quasi che il cancello cigoli, che
tonfi sordi segnino passi in avvicinamento, e che un il battacchio del
portoncino…un momento! Qualcuno sta davvero
bussando. Energicamente. Due colpi, poi altri tre. Ma…chi potrà mai essere? Qui
non ci sono citofoni, e la ragazza prudente che alberga in un recesso della
mente suggerisce di socchiudere servendosi della catenella di sicurezza. Guardo
dallo spiraglio: lunghe gambe maschili, un cappotto blu su fisico notevole, un
mento pronunciato. Rimango senza fiato.
Spalanco la porta, ed ecco Andrea. A
sedici anni lo adoravo, e lui m’ignorò per un mese intero. Incredibilmente, mi
riconosce, mi chiama proprio per nome.
Borbotta frasi circa una batteria, e io
osservo le mani sfregate insieme alla ricerca di calore, accenna a cavetti, e
guardo il caratteristico inclinarsi del suo capo, identico ad allora. Parla di
una macchina, ascolto poco, poi realizzo di non sapere come aiutarlo: nel
garage non ho un’auto, tantomeno mezzi per rimettere in moto la sua, e ancora
vago in quegli occhi lucenti. Gli devo, tuttavia, una risposta, e quasi ho
chiarito, quando una figura sottilmente avvolta di rosso porta i suoi tacchi a
sdrucciolare nel giardino. Andrea arretra, le prende il braccio, la sostiene:
“Questa è Michela, mia moglie” annuncia, per proseguire, senza notare il mio
mutismo “dato che siamo stati tanto fortunati da imbatterci in una vecchia
amica, spero non ti spiaccia offrirle riparo al caldo, mentre avverto mio cognato,
o provo a telefonare all’elettrauto, anche se penso che l’officina resti
chiusa. Sorride. A Michela, sua moglie.
Suonerebbe crudele e antitetico allo
spirito natalizio lasciarli ghiacciare come i miei poveri sogni adolescenziali?
Annuisco come un piccione, ed eccoci qua: che bel quadretto!
Io, il ragazzo ideale tramutato in uomo
tenebroso al punto giusto, e la sua mogliettina, stilosa e compassionevole come
Angelina Jolie durante una missione umanitaria, se non fosse per il concentrarsi
del suo sguardo di carità sul mio maglione informe e sul crespo cronico dei
miei capelli, invece che su una nobile causa.
Consumiamo il tè più lungo del
decennio, offro loro biscottini e torta. Michela/Angelina, in barba alla sua
taglia 40, trangugia un quarto della Sacher che mi ero comprata nella più
rinomata pasticceria della zona.
Giunge, infine, un benemerito, il quale
rianima la batteria, fa ripartire la macchina e di conseguenza invola la coppia
felice verso la loro ignota, sicuramente molto glamour, destinazione.
Perfetto. Conto un morale sbriciolato
come i rimasugli di pasticcini sul vassoio, una casa che di colpo mostra la
propria solitaria realtà, e un pomeriggio del 23 dicembre monopolizzato da
remoto vagheggiamento amoroso e relativa consorte.
Devo riprendere le redini, riportare il
programma al punto giusto. A proposito di programmi: qui, niente televisione.
Nevica, in maniera costante, non
intensissima però. Solo un velo bianco aggiunge charme alla cartolina con
alberi e steccati del panorama. Dopo uno sguardo critico al salotto, e agli
addobbi pianificati studiando le mie amate riviste sullo shabby chic, decreto
che qualcosa manca, e che so come rimediare. In fondo al giardino spicca una
pianta d’agrifoglio: i rametti festosi guarniranno le cornici dei quadri, solo
e soltanto per me.
Recupero giaccone e stivali, alzo il
cappuccio, in fondo non infuria una tormenta. Rimane un problema: dubito,
nonostante la minuziosa lista di Clementina,
di scovare un paio di cesoie, e le forbicine del set da manicure non
aiuteranno. Opto per un coltello da cucina, grossolano, poco pertinente, però
affilato.
Bene, ora vado a prendere l’agrifoglio,
e poi crederò al centoventi per cento di trovarmi in una contea inglese, e in
una contea da romance.
Apro risolutamente la porta, e uno
sbuffo di neve e vento ghiacciato mi schiaffeggia. Pianto senza indugio la
punta dello stivale nella coltre lucida, pochi passi non presenteranno
difficoltà…no! Qualcosa mi tira indietro, che succede? Cioè, devo essermi
impigliata. Mi volto, mi agito, vedo un lembo del cappuccio catturato dalla
catenella di sicurezza. Armeggio con una sola mano, tiro, sgancio, inveisco
mentalmente contro il gelo che intirizzisce le dita, scivolo, il cappuccio è
libero, la catenella rotta, scivolo di nuovo. E casco. Lunga distesa. Su di me
precipita anche un mucchietto di neve, perché ho urtato la sottile colonna
della pensilina.
Almeno non mi troveranno accoltellata
da me stessa: comunque poco serve rallegrarmi, adesso, di aver appreso che le
lame si trasportano con cautela. La priorità è recuperare la posizione eretta.
Lascio il coltello, cerco di scuotere
la testa fradicia e di puntellare il mio peso, sulle mani, sui piedi, dove
posso. Facile…non proprio. Il ginocchio duole, i piedi slittano. Cos’è la cosa
viscida, umida, sulle mie povere nocche? Sangue? Se solo riuscissi a vedere
bene! Ho perso gli occhiali cadendo, e una cortina di ciuffi bagnati s’incolla
al mio naso. Ragioniamo con calma, analizziamo i dati oggettivi. Alito denso ad
effetto scivoloso e…peli. Un cane: adesso lo vedo, anche, un grosso labrador
dall’espressione sarcasticamente mite, che sta per essere raggiunto da un suo
simile.
Con bieca finalità egoistica, tento di
socializzare con l’animale; appoggiarmi a lui aiuterà non poco l’impresa di
alzarmi. Che bravo cagnone, ora posso davvero farcela. C’è un però, non avevo
fatto i conti col suo fratello o amico, ancor più espansivo, che sopraggiunge,
assesta un colpo micidiale ad altezza rotula, annientando i progressi
dell’operazione. In pratica, mi abbraccia, rotolandosi nella neve, mentre, con
la vista offuscata, non saprei dire se arrivino altri cani, o si avvicinino
passi umani. Un fischio giunge fra il gaio abbaiare, ansimare, latrare.
La forza di volontà e una colonnina di
ghisa balenano come ultimi baluardi: devo rimettermi in piedi. All’improvviso ho una sensazione di
stabilità: ma a causarla sono due mani forti, dalla presa decisa. Trasalendo in
un misto di sorpresa e spavento, intravedo capelli brizzolati e spalle ampie di
uno sconosciuto, mentre agito la mano verso il coltello. Devo anche aver
strillato di non toccarmi. Che buon
profumo, però.
“Mi presento, prima che decida di
pugnalarmi”.
La voce virile e profonda taglia il
turbine di confusione e fiocchi. “Mi chiamo Rinaldo Cantoni, loro sono i miei
scatenati conviventi, che hanno pensato di fuggire dalla villa per venire a
fare un saluto prenatalizio. Immagino che lei sia Fabiana”. I cani assumono un
atteggiamento più composto, e io cerco di recuperare un filo di dignità.
“Scusi” mormoro, “sì, sono Fabiana”, e
invitarlo ad accomodarsi credo sia il minimo, dopo la scena assurda in cui è
finito.
Acchiappo gli occhiali con nonchalance,
ed entriamo. Sono zuppa, tremo pure.
Rinaldo è alto, sul metro e novanta,
rischierebbe di urtare l’architrave, se non la evitasse con lo stile di una
lunga pratica disinvolta. La sua presenza ha improvvisa rilevanza in una stanza
di media grandezza. Sto realizzando che è proprio bello, e che osserva la mia
messinscena festiva con un lieve sorriso che muove onde cangianti nei suoi
occhi verdi, quando si volta.
“Deve togliersi i vestiti” intima,
sfilandomi il giaccone. Lo guardo confusa, senza che lui esiti “Vada subito a
spogliarsi, e indossi abiti asciutti. Prima faccia una doccia calda”. Batto le
ciglia. Lui mi slaccia il cardigan bagnato. “L’aspetterò qui, una sosta davanti
al camino sarà piacevolissima”. I cani giacciono già placidi presso il
focolare. Entro in camera da letto, confusa al punto giusto.
Nei dieci minuti seguenti incespico,
rischio di ustionarmi con l’acqua, esito fra le modeste scelte del mio
guardaroba, lotto con i mie pazzi ricci da rossa. Riconosco che l’idea di
sottrarmi alla morsa intirizzita è stata salvifica, e con tale consapevolezza
rientro in salotto.
La luce naturale, ormai, cala, e il bagliore della fiamma illumina il profilo
di Rinaldo, seduto in poltrona, con le gambe allungate.
Dopo alcuni interminabili secondi, in
cui lo osservo avvolta da uno strano calore, si gira. “Bene” constata “ il
calore del camino asciugherà i capelli umidi”. Fa sloggiare i cani, che
scelgono un altro angolo con aria sdegnosa, e avvicina una poltrona allo
scrigno di pietra riscaldato dai ceppi , aggiungendo anche un plaid.
“Adesso preparo qualcosina. Se conosco
mia sorella, dovrei trovare anche la cioccolata”. Protesto timidamente,
sostengo che tocca a me occuparmi degli onori di casa, senza smuovere il suo
proposito di lasciarmi tranquilla al caldo.
Entra in cucina, dove, in mezzo al
tavolo, stanno ancora le tazze usate.
“Gli altri” chiede in tono più asciutto
“sono andati in paese?” “Non c’è nessun altro” confesso senza preamboli “non ho
terminato di riordinare dopo aver offerto ristoro
a una, ehm, coppia di mia vecchia conoscenza, cui casualmente si è fermata la
macchina qui davanti.
Il suo “Ah” non copre l’acciottolio
bonario di piattini e bricco.
Poco dopo, sorseggiamo una delizia
fumante in quasi totale silenzio. Rinaldo osserva ancora la stanza. “Mi piace.
Come ha addobbato il salotto, intendo” sbotta, sorprendendomi “ e pensare che
con le questioni natalizie ho un rapporto ambivalente. Qui passavo certi
pomeriggi invernali, da bambino, con la vedova del vecchio custode,e, insomma,
mi fa piacere vedere di nuovo la casa così viva e bella per merito suo”.
Sorrido, senza rispondere, avvolgendomi
meglio nel plaid. Tenterei di giustificarmi per la mia solitaria presenza nel
bel mezzo delle vacanze, se il mio ospite non prevenisse ogni perorazione.
“Credo che abbia avuto una buona idea, a godersi la solitudine tranquilla in
questo modo. Se non le dispiace, potrei venire a trovarla nei prossimi giorni,
e a rubare un pizzico della sua atmosfera. Voglio molto bene alla mia famiglia,
però alla villa la bagarre impazza, e lo zio scapolo deve essere la vittima
predestinata a intrattenere una banda di nipoti inarrestabili. Se strappo un
intervallo, mia cognata dice che in quanto avvocato le devo consigli legali assortiti”
“Non mi dispiace affatto, anzi, l’aspetto”.
Sorridiamo entrambi, in un nuovo
silenzio. Poi, guardo con allarme Rinaldo levarsi in piedi, di scatto. “Manca
il tocco fondamentale!”.
Farfuglio intorno al mancato recupero
dell’agrifoglio, ma lui, protendendosi in tutta la sua altezza, cerca fra poche
scatole, su una mensola alta del vicino disimpegno, un piccolo andito fra
salotto e camere. Non saprei se definirmi perplessa, sorpresa, o coinvolta.
Torna, in due lunghe falcate, con un
contenitore bordeaux, ricoperto di polvere. Lo appoggia con cautela al centro
del tappeto, chinandosi sul ginocchio. Solleva il coperchio, rivelando palline
di vetro e fragili addobbi d’altri tempi, riposti con estrema cura, fra paglia
e carta velina, chissà quanti anni fa. “Vorrei appenderli, se me lo consente”
sussurra “Certo, sono bellissimi”.
Con un gesto istintivo, allungo la
mano. Rinaldo posa sul mio palmo un cuore iridescente come la neve, il cui
bianco irregolare ricorda proprio il manto cangiante sui campi. “ Sono i cuori
di neve. Potevano rompersi, eppure eccoli qui. Ho sempre creduto che avessero
un’apparenza fredda e un significato caldo. Secondo me, in questo Natale
staranno benissimo”.
Non ho bisogno di precisare che sono
d’accordo. Le onde dei suoi occhi verdi adesso assumono increspature d’oro. Il
cuore di neve riluce di insperata innocenza, come un incanto in cui
nascondersi, concedendomi di sperare che il Natale sarà nostro.
FINE
CHI E' L'AUTRICE
PATRIZIA FERRANDO è nata a Genova nel
1974 e vive ad Arquata Scrivia. Dopo studi classici e di storia
dell’arte, si è dedicata anche a corsi sulla storia del costume, il cerimoniale
e la sociologia dell’abitare. Giornalista pubblicista, oltre ad
essersi occupata sin da metà anni ’90 di cronaca locale e recensioni, collabora
a riviste femminili e blog dedicati a libri e decorazione d’interni, alternando
articoli e scrittura narrativa. A partire dal 2007, ha condotto decine
d’incontri con autori, soprattutto nell’ambito dei “Salotti estivi di
Mnemosyne”, da lei ideati e curati. Suoi racconti compaiono in numerose
antologie. Nel 2013 ha
pubblicato “Sui passi dell’estate perduta” ( Eidon editrice), un saggio
narrativo sulla villeggiatura nella belle epoque, “Il viale degli angeli
caduti” (Amazon), un rosa-noir, mentre ad agosto 2014 è andato in stampa “Il
diario segreto della Contessa ( Litho Commerciale), un libro ispirato al cahier
autografo di Teresa Cordero di Montezemolo, Contessa Tornielli di Crestvolant,
vissuta tra ‘800 e ‘900.
Nello scorso novembre, sotto lo
pseudonimo Flamine Alyzée, Delos Digital ha pubblicato nella collana “Senza
Sfumature” il suo racconto erotico “Elodie e lo specchio di Psiche”.
Patrizia adora inseguire storia e
storie fra romanzi, arte, cinema e teatro. Ogni tanto pensa di essere una
mancata scenografa. I suoi luoghi preferiti sono librerie, mercatini, dimore
eccentriche e botteghe insolite. Ama i gatti, le nuance del viola, le atmosfere
mitteleuropee.
TI E' PIACIUTO CUORI DI NEVE? COSA NE PENSI? ASPETTIAMO I TUOI COMMENTI.
APPUNTAMENTO AI PROSSIMI GIORNI PER I NUOVI RACCONTI SOTTO L'ALBERO DI
CHRISTMAS IN LOVE 2014 !
Un bel racconto dove dolcezza e ironia si accompagnano ad un tenero romanticismo! Bellissima metafora del "freddo" della solitudine che Fabiana e l'affascinante Rinaldo sentono nei loro animi, in contrasto con il calore del loro magico incontro. Due cuori di neve (che bel titolo!!) dove l'inverno del cuore si spezza nell'incanto del Natale...
RispondiEliminaComplimenti Patrizia, la tua scrittura rivela la sensibilità e la delicatezza che amo nei racconti natalizi pieni di speranza... :-)
Viviana.
Ti ringrazio...nel tuo commento sento che hai colto quanto speravo di trasmettere, e ne sono felice!
Eliminail racconto è bello però dà l'impressione che finisce in aria ci vuole un seguito per saper come finisce la storia tra Fabiana e Rinaldo. KISSS
RispondiEliminaGrazie! Ho provato a raccontare l'incontro di due personaggi che -posso dirlo?- mi stanno simpatici. Il seguito? ...ma anche sí!
EliminaCara consorella Patrizia, il tuo breve racconto è un surrogato di romanticismo, anzi, è IL romanticismo, in tutta la sua sognante sorpresa. Che la Dea ti benedica, Anonima Strega
RispondiEliminaCara Strega,grazie per questo commento meravigliosamente lusinghiero. Evviva le sorprese romantiche!
EliminaScritto molto bene, quello di Patty è un racconto che è commovente e divertente al tempo stesso. Come non emozionarsi di fronte a un personaggio come Fabiana, con la sua solitudine, ma anche la sua dirompente simpatia? E Rinaldo è davvero affascinante. Anche a me sarebbe piaciuto sapere come prosegue la storia... magari il prossimo Natale ci sarà un seguito? :-)
RispondiEliminaCara Laura, grazie! Il tuo apprezzamento é prezioso. Il seguito? Forse, speriamo :-)
EliminaNarrato molto bene, emozionante, romantico, anche un po' triste all'inizio, poi si apre alla speranza. L'unico difetto? Finisce troppo bruscamente, lascia desiderare troppo! Viene voglia di sapere cosa succederà a Fabiana e Rinaldo, che Natale passeranno, che anno nuovo cominceranno... insieme.
RispondiEliminaComplimenti a Patrizia.
Eva P.
Grazie mille Eva, non solo per le belle parole nei miei confronti, ma per come hai auspicato un futuro per i protagonisti!
RispondiEliminaIn parte ironico, in parte dolcemente malinconico, è un bel connubio. Meravigliosa l'ambientazione nel cottage, peccato che finisca sul più bello, spero in un seguito per conoscere come si sviluppa la storia tra Fabiana e Rinaldo (che nomi soavemente demodé!)
RispondiEliminaUn grazie di cuore,Lady! Se conto sulla vostra "benedizione" ho sempre piú voglia di scriverlo, il seguito....
RispondiEliminaUn racconto con una protagonista intensa, che mi è piaciuta molto. Anzi, devo confessare che a un certo punto, da figlia unica, mi sono riconosciuta in lei. E addirittura un po' le ho invidiato anche la solitudine di questa casetta nella neve. Hai evocato un'atmosfera malinconica ma allo stesso tempo dolce, che mi ha affascinata.
RispondiEliminaGrazie di cuore!
EliminaIl tuo racconto è una dolce poesia
RispondiEliminaGrazie!
Eliminamamma mia ma siete bravissime ragazze quanto vi invidio riuscire a mettere su carta quello che molto spesso passa nella vita delle persone è fantastico. questo racconto mi ha ammaliato e mi ha emozionato grazie per questo regalo inatteso davvero sei straordinaria
RispondiEliminaGrazie a te! Non so dirti quanto mi rende felice l'idea di aver trasmesso un'emozione!
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