Il centro commerciale alla periferia di Phoenix era un’oasi in quel clima torrido, dove anche il solo atto di respirare velava la pelle di sudore.
Erano in tanti ad aver scelto gli
ampi corridoi e gli spiazzi dell’Arizona Mills come rifugio e il gigantesco
stabile traboccava di teenager in calzoncini e canottiere, famiglie con branchi
di bambini “Duracell” che correvano in lungo e in largo e tipici cowboy con i
loro cappelli western e gli stivali a punta, consunti e impolverati, di chi non
li indossava per seguire le tendenze della moda.
Lizbeth si aggirava tra le
vetrine e i banchetti centrali respirando quell’atmosfera country come un
balsamo contro il sofisticato snobismo di Denver. Aveva un po’ di tempo prima
di raggiungere la sua meta per quel lungo weekend estivo ed era determinata a
trovare il più bel paio di stivaletti che il centro commerciale potesse
offrirle.
“Devi andare via.” le avevano
detto Mary Lou e Johanna, le
sue amiche di sempre, regalandole il voucher per quella vacanza. “Fare qualcosa che ti piace. Non puoi passare il tempo chiusa in casa a piangere.” Perché era quello che avrebbe fatto, senza dubbio.
sue amiche di sempre, regalandole il voucher per quella vacanza. “Fare qualcosa che ti piace. Non puoi passare il tempo chiusa in casa a piangere.” Perché era quello che avrebbe fatto, senza dubbio.
Sabato si sarebbe dovuta sposare.
Sposare!
E invece era lì, nel mezzo della
canicolare Arizona, a cercare di dimenticare tra polvere e cavalli di essere
mai stata fidanzata con quel bastardo di Thomas.
Il giorno prima del suo
appuntamento con il pasticciere che avrebbe confezionato la torta nuziale a tre
piani, quella carogna le aveva telefonato.
“Lizzie, mi dispiace …”
Lei aveva ridacchiato al tono
sconsolato. “Dai Tom, non puoi farti venire il panico un mese prima. Dovevi
pensarci quando mi hai dato quell’anello.” gli aveva risposto, rimirando il
diamante da un quarto di carato che brillava al suo dito.
E lui le aveva lanciato la bomba.
“Sono a Las Vegas con Susan Kendall… Ci siamo appena sposati.”
Susan Kendall, la figlia del
socio di maggioranza dell’agenzia pubblicitaria dove lavoravano entrambi. La
stessa agenzia dove Thomas era da poco diventato socio, dopo due anni in cui
lei si era dedicata anima e corpo alla sua carriera.
Avrebbe dovuto capirlo dalla
tirchieria dimostrata nell’anello o dal tempismo con cui era sopraggiunta la
proposta, subito prima di quella grande campagna per la sede regionale della WhiteWave Foods Company, dove lei aveva
sudato sangue per preparargli la strategia di marketing e la presentazione alla
ditta. Ma niente. Era arrivata a un mese dalle nozze, ignara della meschinità e
della vigliaccheria racchiusa in quello scarso metro e settantacinque di uomo.
Che emerita idiota!
Si fermò davanti a una vetrina,
offuscata dal velo di lacrime che ancora le provocava quel tradimento.
Smettila subito Lizzie Garland! si disse. Thomas non merita neanche mezzo dei tuoi sospiri. Incomincia a guardarti intorno. Tra tutti
‘sti cowboy, troverai pure il tuo chiodo-scaccia-chiodo.
Lizbeth strinse i denti, spazzò
via con il dorso la lacrima ostinata che aveva voluto scendere per forza e si
costrinse a esaminare la merce esposta dietro al vetro.
Era davanti a un tipico negozio
di abbigliamento western con cappelli di tutte le fogge, camice a quadrettoni,
jeans sdruciti e una magnifica scansia piena di stivali, compresi alcuni di
colori davvero originali.
Ecco qualcosa per aiutare la
rimozione di Thomas dai suoi pensieri. Con quei tacchi larghi e svasati avrebbe
potuto schiacciarlo come quel viscido verme che era.
Lizbeth entrò a passo di marcia
nel grande negozio e cominciò a girare tra le corsie e le lunghe barre
appendiabito, frugando tra gilet in pelle scamosciati, cinturoni con grandi
fibbie lavorate e chaps pieni di
frange.
Nel settore dedicato ai jeans,
Lizbeth si fermò a rovistare tra le pile di Levis e di Wrangler per trovare
qualcos’altro di adatto a sostituire i suoi pantaloni attillati da direttore
del settore creativo. Sfilò dal mucchio un paio di “515” e li sollevò per osservare le sfumature del blu che li
facevano apparire sdruciti nei punti strategici.
Un movimento alla sua sinistra
attirò il suo sguardo.
Un pezzo di marcantonio era
appena uscito da un camerino: alto un bel po’ sopra gli appendiabiti con una
zazzera di capelli neri spettinati e la pelle scurita dal sole. Indossava una
camicia in denim lavato, aperta fino a metà su una maglietta bianca, e un paio
di pantaloni in jeans, infilati in due stivali che avevano tutta l’aria di
essersi guadagnati quei graffi e quelle sbucciature con il duro lavoro.
Lizbeth rimase incantata a
fissare quell’icona del vero cowboy avvicinarsi allo specchio per guardare come
quel tessuto blu stone-washed abbracciava perfettamente
quei fianchi stretti e le gambe robuste e lunghe come giovani tronchi d’albero.
Quando si girò e mise in mostra
il lato B, Lizbeth emise anche un lieve gemito, accompagnato da qualche
soffocato sospiro di altre clienti lì attorno. Un fondo schiena da pubblicità
della Marlboro, rotondo e sporgente al punto giusto, che sembrava gridare
“toccami” a ogni movimento di quei glutei sodi. Se fosse stata quel tipo di
donna, la tentazione sarebbe stata quasi irresistibile.
L’uomo rimase qualche secondo
davanti allo specchio a rimirare il capolavoro che era, poi si girò esattamente
verso di lei e la fissò con un sorriso sornione e il sopracciglio alzato.
“Ti piace?” le chiese, alzando le
braccia per darle una visuale migliore.
“Da scatenare una rissa.” rispose
Lizbeth con il tono sognate, concentrata nell’ammirare tutto quel ben di Dio
che le si dispiegava davanti. Riusciva anche a immaginarsi la scena: il gruppo
di donne che si strattonavano e si tiravano i capelli a vicenda per riuscire a
raggiungerlo per prime.
Una serie di risatine femminili
la risvegliarono dalla trance. Sbarrò gli occhi sulla faccia divertita
dell’uomo, che stentava a restare serio, e si schiaffò il palmo della mano
sulla bocca. “Oddio, l’ho detto forte.” farfugliò tra le dita, mentre il fuoco
che le si accese in faccia non aveva niente a che fare con il caldo di Phoenix.
Il figo cowboy non riuscì più a
trattenersi e buttò la testa indietro in una risata piena e sexy che raccolse
altri sospiri dal pubblico femminile di quella scenetta. Lizbeth mollò il jeans
che stava guardando e scappò con gli occhi bassi, seguita da quel suono
maschile che le procurò un brivido.
Doveva essere diventata matta.
Che figura!
Certo, non era uno spettacolo a
cui era molto abituata. Thomas seguiva una stretta dieta vegana e aveva
un’ossessione per il peso. Si teneva in forma anche con ore di palestra atte a
impedire a qualsiasi oncia di grasso di depositarsi sul suo fisico asciutto,
quasi alle soglie della magrezza.
Ma uscirsene così, come una
femmina in calore, non era proprio nel suo stile.
Lizbeth uscì dal negozio senza
alzare lo sguardo dal pavimento in mattonelle bianche e nere, decisa a mettere
tra lei e quel cowboy la maggior distanza possibile. Peccato per gli stivali,
le sarebbe toccato andarli a cercare altrove.
Dopo un’oretta passata a
esplorare vetrine, tra sandali con tacco dodici e scarponi da lavoro,
finalmente trovò quello che cercava: uno splendido paio di stivaletti color
vinaccia, anche se la commessa si ostinava a chiamarli bordeaux, con le punte
girate all’insù e un intricato disegno dorato ricamato sul lato.
Si rimirò davanti allo specchio:
proprio una vera cowgirl, pronta ad affrontare quel fine settimana da passare
in un ranch.
Si mise in fila alla cassa,
orgogliosa della sua bella scatola sotto il braccio, e attese il proprio turno.
“Salve.” Una voce maschile
piuttosto bassa, con un tipico accento del sud ovest, le arrivò da dietro. Lei
si girò con un sorriso sulle labbra che rimase congelato davanti a due occhi
nocciola come cioccolatini al gianduia, incastonati in una cornice lievemente a
mandorla che ne indicava l’origine indiana.
Cavoli! pensò Lizbeth, persino
la faccia poteva stare dentro una rivista.
L’angolo duro della mascella, gli
zigomi larghi e le narici leggermente dilatate, si amalgamavano perfettamente
nella sua fisionomia e lo mettevano ai primi posti nella Top Ten dei fighi del centro commerciale. Se non fosse stato per
quelle ciglia nere troppo lunghe da sembrare truccate o quelle fossette che gli
comparvero sulla guancia mentre osservava il suo sguardo passare dal cortese
all’inorridito, avrebbe anche potuto essere appena uscito da uno di quei film
western che suo padre adorava, solo per venirla a tormentare.
Lizbeth rimase con la bocca
aperta a fissarlo, incapace di reagire.
“Il minimo che puoi fare è
invitarmi a prendere un caffè per ripagarmi dello spettacolo.” le disse con un
tono che voleva sembrare offeso, ma fu rovinato dalla luce divertita negli
occhi nocciola.
Lizbeth era ammutolita. La
brillante direttrice creativa della Kendall, Turner and Roary, con la
parlantina più sciolta di tutta l’agenzia, anche se non sufficiente per offrire
a lei il posto di socio, era letteralmente senza parole.
“Signorina? Li vuole pagare
quegli stivali?” La voce della cassiera la tolse dall’impasse.
Lizbeth si girò di scatto con una
scusa sussurrata. Diede la sua carta di credito alla commessa, fingendo di
essere l’unica superstite dopo una pestilenza che aveva ucciso anche tutti i
cowboy strafighi, e aspettò con ansia il ticchettio del Pos per poter
agguantare la scatola e fuggire.
“Allora? Questo caffè?” L’uomo di
fianco a lei, però, non sembrava volerla prendere persa.
“Sono in ritardo. Ho un impegno.”
rispose Lizbeth con un borbottio, lo sguardo concentrato sullo scontrino da
firmare.
Poi se ne scappò dalla vigliacca
che era, stringendo il suo sacchetto di carta, seguita ancora una volta da
quella risata profonda.
Poteva già sentire gli insulti di
Mary Lou e di Johanna seguirla lungo il corridoio fino all’uscita e alla
salvezza della sua macchina a noleggio. Era lì per divertirsi, lo aveva giurato.
Cosa c’era di meglio di un cowboy così caliente da far sciogliere le calotte
polari?
Ecco cosa c’era, troppo caliente!
Lizbeth aveva bisogno di un ragazzo carino e gentile, con un bel sorriso
amichevole e un fisico asciutto e piacevole, non un modello da copertina di
romanzo rosa, con un torace talmente largo da poterci scrivere l’intero poema
di Milton o con due cosce poderose da tenerlo in sella a un mustang selvaggio
con la sola forza dei loro muscoli. Aveva detto carino, non stra… tutto!
La temperatura desertica la
accolse fuori dal centro commerciale, strappandole l’ultimo respiro in un
rantolo. Meglio andare a cercare la macchina e scappare prima di incontrare un
altro rappresentante di quella razza aliena e fare un’altra mega figuraccia.
Cosa la aspettava al ranch?
Lizbeth tolse il cuscino da sopra
le orecchie e alzò la testa.
Dio ti ringrazio! Il comizio era finito, l’assemblea generale di
tutti i pennuti dell’Arizona aveva finalmente
aggiornato la seduta.
Il coro di un fantastilione di
uccelli, appollaiati proprio davanti alla sua finestra, era stata la sua brusca
sveglia e aveva proseguito con il volume di una rock band fino alla completa
ascesa del sole.
Lizbeth non era abituata a tutto
quel rumore. Al trentesimo piano, nel suo appartamentino a Denver, il suono del
mondo restava fuori dai tripli vetri e il silenzio notturno era interrotto solo
dal leggero ronzio dell’aria centralizzata o qualche raro gorgoglio degli
scarichi. Benedetta civiltà!
Si girò sulla schiena e le scappò
un gemito: le sei e trenta! Bell’orario per il suo primo venerdì di ferie da…
due anni?
E adesso? Chi si sarebbe più
riaddormentata? Tanto valeva alzarsi e incominciare a esplorare quel ranch di
cui la sera prima aveva solo intravisto la struttura. Una larga costruzione era
il punto centrale del complesso, dove si trovava la reception e tutti i
servizi, comprese le cucine, la sala da pranzo, un grande salone per
intrattenimenti e l’area dedicata al benessere, e intorno si stendeva una serie
di bungalow di varie dimensioni, ognuno con il suo bel numero dipinto su una
piastrella di maiolica.
La sua casetta in mattoni a vista
era la numero ventisei e il ragazzone con i denti sporgenti che l’aveva
accompagnata, le aveva assicurato che era una delle più belle, con vista diretta
sulle montagne del Saguaro National Park. Un piccolo patio ospitava un paio di
lettini di legno con l’imbottitura blu elettrico e, oltre la porta d’ingresso,
un’ampia camera da letto in stile messicano, con un’area soggiorno dotata di
sedie, tavolo tondo e una poltroncina con la spalliera e i braccioli guarniti
da centrini ricamati. Sul retro c’era un’altra terrazza e il bagno, rivestito
in ceramica blu e bianca con motivi aztechi sparsi sulle mattonelle, era subito
prima della porta finestra. Nel complesso un ambiente spartano ma molto
confortevole, dove chiunque, persino lei, aveva la possibilità di scordare i
propri guai.
Lizbeth scostò le lenzuola e mise
i piedi sul ruvido tappetino in lana, intessuto con i simboli tipici delle
culture precolombiane. Una doccia veloce e una buona colazione avrebbero
migliorato decisamente il suo umore.
Senza preoccuparsi di indossare
le pantofole sul parquet grezzo lucidato, si diresse alla finestra. Le montagne
erano illuminate dai raggi solari ancora obliqui che disegnavano ombre sopra la
roccia rossastra, brulla e irregolare. Al di sotto si stendeva un paesaggio
desertico, sassoso, punteggiato da bassi cespugli e alti tronchi spinosi di
cactus. Non mancava niente all’ambientazione da film western, solo un tenebroso
cowboy dentro una nuvola di polvere, il cavallo lanciato al galoppo e un
cappello a larghe tese calato sul viso. Se avesse avuto il fisico spettacolare
di quello del centro commerciale, avrebbe anche potuto ripensare alla sua
politica del “carino ma non super”.
Infilò un paio di jeans robusti
che, con i suoi bellissimi stivali nuovi e una camicia a quadretti bianchi e
celesti, le assegnava di diritto la parte di comparsa in quel film. Se avesse
legato i capelli biondo miele in delle trecce, qualcuno avrebbe anche potuto
chiamarla Jane.
La sala da pranzo era deserta ma
già allestita con ogni ben di Dio per sfamare gli ospiti del ranch: uova,
salsicce, bacon, patate e una miriade di composte di frutta da spalmare su
larghe fette di pane abbrustolito.
“Buongiorno. Vuole che le faccia
friggere qualche frittella?” Una ragazza in perfetta tenuta western,
comprensiva di frange sulla camicetta a quadrettoni e cappello tirato indietro
sui capelli biondo cenere, era appena uscita da due battenti a molla ancora
oscillanti. Teneva un vassoio in mano, colmo di tazze e bicchieri, che depose
di fianco ai dispenser d’acciaio per
il caffè.
“No, grazie. Basta la salsiccia a
far sentire il brivido della morte alle mie arterie.” rispose Lizbeth.
C’era già cibo a sufficienza per farle
dimenticare la sua dieta perenne e al diavolo Thomas e tutte le sue critiche ai
suoi fianchi troppo abbondanti.
La cameriera sorrise e tornò a
passo svelto verso la porta da cui era venuta.
Due uova con salsiccia, due fette
di pane abbrustolito, spalmate di composta di albicocche, e una grandiosa tazza
di caffè dopo, Lizbeth era pronta a dirigersi verso la sua prima meta: le
stalle.
Lasciò la casa e percorse la
stradina cosparsa di ghiaia scricchiolante fino al grande recinto e alla
costruzione dove erano alloggiati i cavalli. Gli sportelli esterni erano ancora
chiusi ma il rumore di zoccoli battuti sul cemento e il tintinnio di finimenti
non lasciava dubbi sul fatto che gli occupanti fossero già attivi.
Un battente si apriva nel grande
portone e all’interno la stava aspettando il tipico odore acre e pungente dei
ricoveri per cavalli e il lampo di nostalgia che le provocava ogni volta. Il
padre che la prendeva in braccio per accarezzare un muso, il vecchio Jim che le
regalava le mentine di nascosto e le ciambelle che la nonna preparava per
merenda.
Era stato Luke Garland, suo
padre, a insegnarle a stare in sella quando era piccola, quando ancora vivevano
nel ranch in Texas, vicino a Houston. Dopo il divorzio dei genitori avevano
venduto tutto. Lei si era trasferita a Denver con la madre e lui in Idaho per
aprire un commercio di legnami. Lo aveva visto pochissimo da allora e la
nostalgia per il periodo della sua infanzia, vissuta al ranch insieme ai nonni,
non aveva smesso di farsi sentire.
All’interno dello stabile gli
sportelli dei box erano aperti e in fondo, contro il bagliore impolverato del
sole proveniente dal portone opposto, intravide la sagoma di un cavallo con un
uomo che gli stava spazzolando i garresi.
Dal primo stallo spuntò una testa
con una riga bianca lungo tutto il naso, le froge dilatate, le orecchie dritte
come antenne e due occhi lucidi che la osservavano attenti.
“Ciao, bellezza.”
Lizbeth si avvicinò con la mano
aperta per chiedere il permesso di toccare. Il cavallo soffiò e lei si sentì
autorizzata a indugiare sul pelo liscio e lucido del lungo naso e del collo,
ritrovando lo stesso piacere di quando era bambina.
Alcune altre teste spuntarono dai
box adiacenti, curiosi di vedere la nuova arrivata e dopo aver distribuito
coccole anche a loro, le era venuta una gran voglia di provare a fare un giro.
Lo stalliere là in fondo forse poteva aiutarla.
L’uomo era chinato e stava
spazzolando con cura le zampe di un magnifico morello color mogano scuro.
“Mi scusi.” Lizbeth gli arrivò
vicino e apprezzò le larghe spalle racchiuse nel jeans della camicia. “È
possibile far mettere la sella a un cavallo?”
L’uomo fermò il suo lavoro
all’altezza del ginocchio. “Perché?” chiese brusco, senza voltarsi.
Ma che modi! “Per vedere se
s’intona ai miei stivali?” A domanda stupida, risposta stupida.
Lo stalliere appoggiò la spazzola
per terra e si alzò. “Ah! Facciamo anche le spiritose?”
“Non credo…” Iniziò a rispondere,
sempre più infastidita, quando l’uomo, che si era voltato verso di lei, sollevò
la testa e…
Non poteva essere! Chi aveva
offeso di così potente lassù?
Il cowboy strafigo del grande
magazzino incrociò le braccia e la guardò con un sorrisetto ironico “Non
crede?”
Lizbeth fece due passi indietro.
“Mi scusi… niente.” Scosse la mano in un gesto di diniego. “Faccia finta di
niente.” e si girò per uscire in tutta fretta dalla stalla.
“Ecco, brava. Scappa.” Le sue
parole la inseguirono. “I conigli sono bravi a correre, non a cavalcare.”
Lizbeth si bloccò a metà della
costruzione. Come si permetteva quello zotico! Anche se aveva preferito
andarsene piuttosto che prendere un caffè con un bellimbusto, non voleva dire
che fosse una vigliacca. Forse…
Si girò con le mani sui fianchi
lanciandogli un’occhiataccia. “Senta! Per sua norma e regola io non ho paura. Ho
solo cambiato idea.”
La risata bassa riecheggiò tra le
pareti della stalla. “Se sei brava a dire balle come a cavalcare, è meglio se
vai a piedi.” Poi alzò le mani, forse per paura delle intenzioni omicide dello
sguardo di Lizbeth. “Va bene. Mi arrendo. Facciamo pace?” Allungò una mano
verso di lei. “Ciao, mi chiamo Brian.”
Lizbeth guardò con sospetto prima
la mano e poi lui. “Lizbeth.” borbottò tra i denti, accettando il gesto di
armistizio. Come si faceva a restare arrabbiati davanti a due occhi color gianduia
così pieni di divertimento?
Brian aveva le mani grandi,
forti, irruvidite dal lavoro manuale, mani come quelle di suo padre. Il brivido
che la percorse, però, non aveva nulla a che fare con l’affetto filiale.
Lizbeth strinse i denti per non
mostrare le reazioni che le provocava. Ci mancava solo che capisse quanto le
alzava la temperatura, lui e il suo super ego rigonfio.
“Allora” riprese lui senza
lasciarle la mano, forse godendo del suo imbarazzo. “Vorresti fare un giro su
un cavallo. Sai già andarci?”
Lizbeth giurò di aver visto un
lampo scintillare sul suo sorriso, proprio come in certi cartoni animati.
“Mio… mio padre mi ha insegnato
da bambina.” incespicò. Se non le lasciava la mano, avrebbe finito per dare un
altro spettacolo ridicolo di se stessa.
Finalmente Brian mollò la presa.
“E non ci hai mai più riprovato?”
Lei scosse la testa.
L’uomo tirò indietro la tesa del
cappello scoprendo la fronte e un ciuffò ribelle arricciato vicino al
sopracciglio. Lizbeth ebbe la tentazione di allungare le dita per spostarlo,
anche solo di un po’. I detti popolari avevano sempre una ragione d’essere e
l’appellativo “tirabaci” su quel viso scolpito, assumeva tutto un suo
significato.
“Ti potrei sellare la cavalla del
primo box, quella che stavi accarezzando prima.” disse Brian con l’aria di chi
aveva dovuto pensarci un bel po’.
“Mi avevi già notata, allora.”
Chissà perché le frullò qualcosa nello stomaco.
“Quegli stivaletti rossi ti hanno
tradita.” Brian le fece l’occhiolino.
“Vinaccia.” rispose lei tra i denti.
“Cosa?”
“Vinaccia.” disse più forte. “Gli
stivaletti sono color vinaccia o bordeaux, se per te è più semplice.”
Brian aggrottò le sopracciglia e
la fissò per un attimo. Poi scosse la testa. “Quel che sia. Se vuoi fare un
giro devo prima vedere come monti.”
“Non ti fidi?”
“Preferisco accertarmene. È una
regola del ranch.”
Si incamminò con passi lunghi
degli stivali infangati e sdruciti, verso il portone. “Si chiama Stella” le
disse, avvicinandosi al box e dando una pacca affettuosa sul muso del cavallo.
L’animale scosse la testa su e
giù.
“Ciao Stella.” La mano di Lizbeth
prese il posto di quella di Brian. “Io sono Lizzie.” Non permetteva a tutti di
chiamarla così.
La cavalla le diede qualche
colpetto con la testa e la fece ridere. “Vedrai. Io e te ci intenderemo a
meraviglia.”
Brian fece uscire il bellissimo
baio, dal mantello color castano chiaro, e si mise ad armeggiare con sella e
finimenti sulla cavalla che batteva gli zoccoli sul cemento, impaziente di
uscire da quelle quattro assi di legno.
“Stella è docile e molto
affettuosa. Vedrai, non avrai difficoltà.”
Lizbeth fece un cenno automatico
della testa, incantata dallo spettacolo dei movimenti veloci e sicuri con cui
Brian fissava il sottopancia e il morso delle redini.
Alla fine l’uomo prese in mano i
finimenti. “Andiamo?” la richiamò dal suo rapimento.
Lizbeth arrossì. Era riuscita di
nuovo a sembrare un’imbecille. A che quota era? Tre, quattro? Chissà se alla
fine le avrebbero almeno dato dei punti.
Uscirono nel recinto cosparso di
sabbia e Brian tenne fermo l’animale. “Sei capace di salire da sola?”
“Certo!” rispose Lizbeth con
finta sicurezza. O almeno ci riusciva, una volta.
Mise un piede sulla staffa e
provò a tirarsi verso l’alto. Accidenti, se lo ricordava più facile! Dopo uno
sforzato tentativo, ricadde con la suola sul terreno. Tentò una seconda volta.
Una mano si piantò sotto il sedere e le diede una spinta. “Solleva la gamba e
spostala di là.”
Lizbeth eseguì il comando e si
ritrovò finalmente a cavalcioni della sella, di nuovo rossa quasi come i suoi
stivaletti. Ormai stava diventando il suo colore naturale quando era intorno a
quell’uomo.
“L’inizio non è dei più
promettenti.” disse lui.
Lizbeth diede una pacca sul collo
di Stella. “Non ascoltarlo, dice così solo perché siamo femmine.”
Lì in cima ritrovò la sicurezza e
gli insegnamenti di suo padre: piedi nelle staffe, posizione eretta, ginocchia
strette e redini tra le dita.
La cavalla sbuffò e scrollò la
testa e Lizzie le diede un’altra carezza. “Visto Stella? Siamo perfette.”
Brian ridacchiò e le fece fare un
giro attorno al recinto, tenendo strette le redini. Poi la lasciò andare e la
guardò rifare il percorso da sola. “Dalle un colpetto con i piedi e falla
trottare.”
Lizbeth eseguì e la cavalla sotto
di lei cominciò ad allungare il passo. Dondolando sulla sella Lizbeth si rese
conto di quanto le erano mancati quei momenti: suo padre che la portava nella
stalla, le metteva il caschetto e la guidava in giro per il ranch. Erano anni
che non ci ripensava con tanta nostalgia.
A un certo punto Stella scartò di
lato e Lizbeth fece un urletto, tirando troppo le redini. La cavalla si bloccò
di colpo e sollevò gli zoccoli anteriori dal terreno, proiettando Lizbeth
all’indietro e poi a sbattere contro il collo.
“Calma, Stella. Calma.” Brian comparve
subito sotto il cavallo, una mano sull’animale e l’altra sulla sua gamba.
“Tutto bene?”
“Sì. Direi di sì.” Lizbeth
riprese la sua posizione sulla sella e accarezzò Stella a sua volta. “Scusami.
Vedrò di fare meglio la prossima volta.”
Brian la lasciò andare per un
altro paio di giri e Lizbeth cercò di ritrovare l’atteggiamento rilassato.
“Mi dispiace.” le disse alla
fine, riprendendo tra le mani le redini vicine al morso. “Non credo sia una
buona idea fare un giro da sola.”
“Ti prego. Non mi può accompagnare
qualcuno?” Era la ragione principale per cui si era fatta convincere dalle sue
amiche a venire.
“Sono… siamo tutti impegnati per
la gita di gruppo con il bivacco notturno.”
Lizbeth cercò di commuoverlo con
uno sguardo disperato.
Brian mise un braccio attorno al
collo di Stella. “Un modo ci sarebbe.” Disse. “Devi venire con il gruppo.”
“Una cavalcata… bivacco
notturno.” Lizbeth non era una gran amante del dormire all’aperto: insetti,
serpenti, pipistrelli e chissà cos’altro.
“O così, oppure non potrai
cavalcare.” le rispose Brian che la stava guidando verso le stalle. “Certo, se
hai paura…” e lasciò la fine della frase in sospeso.
Lei non aveva paura! Era solo un
po’… infastidita dagli animali notturni, l’umidità, i sacchi a pelo e tutto il
resto. Ma era sufficiente a farla rinunciare?
“Ti seguirò io.” aggiunse Brian.
Certo che farsi scortare da
questo ben di Dio poteva essere un buon incentivo contro le sue fobie. In
fondo, era venuta per conoscere cowboy o no? E se tutti andavano fuori in gita
e lei rimaneva lì da sola?
Ma sì! Si viveva una volta sola e
al diavolo le sue paure dell’uomo troppo bello. Avrebbe finto di essere in uno
dei romanzetti rosa che leggeva sempre da ragazzina e avrebbe chiuso le pagine
domenica mattina, sull’aereo per Denver.
“Va bene, vengo.” disse con un
sospiro.
Brian le fece un largo sorriso.
“Allora, tra un’oretta, fatti trovare qui. Prepara qualcosa per la notte e
soprattutto il repellente per gli insetti.”
Lizbeth gemette solo a sentirli
nominare. Quell’uomo valeva una notte all’addiaccio, contornata da sciami di
insetti aggressivi?
Si fermarono davanti al portone
della stalla, Lizbeth spostò la gamba e Brian allungò le braccia per prenderla
alla vita.
Quando fu a terra si ritrovò a
brevissima distanza dai lineamenti da indiano Navajo dello stalliere. Era
meglio se chiudeva la bocca se non voleva anche sbavargli sulla bella camicia
di jeans.
“Sarà un piacere tenerti
d’occhio.” le mormorò, prima di girarsi e condurre Stella nel suo box.
Lizbeth sospirò ammirando di
nuovo quel didietro tornito incastonato nei jeans stretti. Anche per lei
sarebbe stato un piacere tenere gli occhi su di lui. Era rimanere in sella
senza avere un mini orgasmo ogni volta che lo guardava che sarebbe stato un
problema.
“Che cos’è questa delizia?”
chiese Lizbeth mentre il pezzo di pane si abbrustoliva sulla fiamma.
“Si chiama crescente. È condito
con la pancetta. La prendiamo da un fornaio italiano che ha aperto da poco a
Twin Peaks.”
Lizbeth mordicchiò la crosta
croccante con un mugolio di piacere. Un po’ di consolazione per i suoi poveri
muscoli che stavano gridando vendetta.
Era stata una lunga cavalcata. I
cowboy li avevano condotti lungo il sentiero polveroso in mezzo ai cespugli di
ambrosia, baccaride e le alte colonne dei cactus per inerpicarsi su per le
montagne del Saguaro National Park e proseguire lungo i crinali.
Brian era attento a tutti gli
ospiti, come gli altri cowboy, ma puntualmente Lizbeth se lo ritrovava di
fianco in qualche passaggio difficile o anche solo per farle notare qualche
bellezza nascosta tra le rocce e gli arbusti di quel paesaggio desertico.
Cosa ci trovasse in lei non lo
capiva. Non è che mancassero le donne nel loro gruppetto, che non avevano certo
fatto mistero su chi era il favorito fra gli stallieri. Solo che lui sembrava
non notarlo. Anche durante la sosta per il pranzo, quando quella rossa tutto
pepe con un bottone di troppo slacciato nella camicetta, aveva cercato di
sedersi di fianco a Brian, era stata scoraggiata con un sorriso e un
“occupato”, prima che togliesse il panino di mano a Lizbeth e la attirasse al
suo fianco, su uno dei cuscini che erano stati allestiti per dare sollievo ai
didietro doloranti degli ospiti.
L’aveva persino salvata da un
incontro ravvicinato con un serpente dalla pelle argentata e larghe macchie
marroni.
“Oddio!” Lizbeth aveva strillato
e si era buttata tra le braccia del primo che incontrava che, non per caso, era
proprio Brian.
“Non devi gridare.” le aveva
detto. “Li spaventi. È più facile che attacchino.”
“Mi fanno schifo.” aveva
rabbrividito Lizbeth ancora stretta a lui, guardando gli altri stallieri
catturare e uccidere il serpente.
“Povero piccolo.” aveva
commentato lui, meritandosi un’occhiataccia. Lizbeth aveva avvertito le
vibrazioni della sua risata attraverso il fianco che erano scese fino a creare
un piccolo vortice di calore nel basso ventre.
Le era bastata una risata…avrebbe
dovuto stare attenta o si sarebbe messa in guai seri.
Il problema era che, al di là di
essere il fotomodello perfetto per American
Cowboy, era saltato fuori essere persino simpatico. L’aveva messa a suo
agio e lei si era ritrovata a raccontargli della sua infanzia nel ranch dei
nonni, del doloroso trasferimento a Denver con la madre e di come, alla fine,
fosse diventata una cittadina a tutti gli effetti.
Brian, invece, veniva da una
famiglia numerosa, nata proprio in quelle zone: tre fratelli e una sorella
sparsi per mezza America e i genitori che vivevano in California per dare
sollievo all’enfisema del padre.
Tra una chiacchiera e l’altra,
Lizbeth aveva sentito meno la fatica della cavalcata ma quando erano arrivati
alla radura con il focolare in pietra, dove avrebbero passato la notte, il suo
corpo si era rifiutato di cooperare e se non fosse stato per Brian, sarebbe
rimasta sul cavallo o piombata nella sabbia faccia in avanti, senza potersi più
muovere.
“Ci accamperemo qui.” aveva
detto, mentre l’aiutava a scendere da Stella ridendo dei suoi lamenti. “Non
avrai neanche la forza di aver paura.”
“Certo, si capisce.” l’aveva
motteggiata.
Brian l’aveva fatta sedere sotto
un albero con larghe foglie verde scuro mentre prendeva i sacchi a pelo e le
provviste dalle borse delle selle.
Lizbeth aveva guardato gli altri
ospiti stravaccarsi sotto i rami mentre i cowboy, per niente provati dalla
cavalcata, se non per un po’ di polvere sui vestiti, allestivano il fuoco e la
cena: carne arrostita, pannocchie e una torta di carote che non avrebbe
sfigurato in una delle migliori pasticcerie di Denver.
“Delia è una gran cuoca.” le
aveva detto Brian, riempiendosi la bocca di dolce. “La gente viene al ranch
anche solo per la sua cucina.”
Lizbeth aveva assentito con la
mano già su un altro quadretto di quella delizia. Si sentiva la testa leggera.
Aveva finito una birra e la seconda era a metà al suo fianco quando Jeff, uno
dei cowboy, aveva tirato fuori una pila di bicchierini in plastica e una
bottiglia di Jim Beam. “Per scaldarci un po’” aveva detto e in effetti gli
animi si erano accesi e le risate erano diventate più frequenti anche tra gli
ospiti distrutti dalla cavalcata.
“Bene” disse Brian, appoggiando
il bastoncino su cui aveva abbrustolito il suo pane alla pancetta. “Visto che
siamo dell’umore giusto, faremo un po’ di musica.”
Dalle sacche delle selle
comparvero una chitarra e un banjo e due dei cowboy si sistemarono in un angolo
e si misero a suonare.
“Chi vuole provare a ballare con
me?” chiese Brian, guardandosi intorno. “Domani sera ci sarà una festa al
ranch. Vi insegnerò alcuni passi dei nostri balli di gruppo.”
Le persone lì intorno erano più
che altro cittadini provenienti dall’Arizona e dagli stati limitrofi, dove era
più difficile si imparassero le coreografie western. Figuriamoci la coppia di
newyorchesi in viaggio di nozze.
Diversi ospiti gemettero in
disappunto.
“Su, scansafatiche, in piedi.” li
costrinse Brian tendendo la mano a ognuno. “Mettetevi uno accanto all’altro. Io
e Mitch vi faremo vedere.”
Lizbeth era piacevolmente brilla
dopo lo shot di bourbon e l’alcool le
aveva quasi fatto dimenticare il dolore alle cosce e ai glutei. Si alzò con un
grugnito poco femminile e si diresse strascicando un po’ i piedi nel punto dove
si stava formando il gruppo.
Il suo bel cowboy comparve al suo
fianco. “Partiamo con uno dei più facili.”
Le note di “Country Girl Shake” uscirono dalle corde degli strumenti e Brian e
Mitch cominciarono. Due passi avanti, colpo d’anca, passo avanti caricato e
passo indietro e poi mezzo giro indietro. Ripetizione della sequenza e poi un
quarto di giro a sinistra. Qui cambiava: passo laterale, un quarto di giro,
passo di mambo, mezzo giro, altro passo di mambo, colpo d’anca, tre calci e
avanti così, fino a completare il primo quadro e ripartire sul lato sinistro.
Lizbeth tentava di seguire i
passi veloci fatti dai due cowboy con le mani in tasca e si chiese come mai Dio
l’avesse dotata di un terzo piede che continuava a farla inciampare e
zompettare per cercare di imitare i movimenti fluidi dei due uomini.
Quando alla fine riuscì a fare
una sequenza completa senza sbagliare, fece un urlo con le braccia alzate e poi
si lasciò cadere esausta su un cuscino.
Brian si sedette al suo fianco
ridendo.
“Per fortuna che era uno dei più
facili.” gli disse, accettando la SunUp
che le offriva.
“Non puoi immaginarti a quali
livelli arrivino certi ballerini.” le disse lui, prendendo un lungo sorso della
sua birra. “Ma non credere di aver finito. Adesso tocca al two-step.”
Lizbeth mugolò di disperazione.
“Basta, vuoi vedermi morta.”
“Pensala così. Sarai talmente
stanca che non penserai più agli scorpioni e ai mille piedi che gireranno
intorno al tuo sacco a pelo.”
Lizbeth strillò schizzando in
piedi e sfregandosi i vestiti per scacciare insetti immaginari. Brian si mise a
ridere e si rialzò a sua volta.
Brian le cinse la vita e la
strinse forte contro il suo corpo, ammutolendo così qualsiasi protesta. Le
prese la mano destra e aspettò l’inizio della musica.
“Firecracker!” esclamò Brian, quando le prime note partirono.
“Proprio adatto alla situazione.”
Poi iniziò. “Seguite noi.” disse
rivolto agli altri.
Brian era un ballerino
fantastico. Lei conosceva a mala pena i passi ma lui la guidava dove voleva e
la trascinò in un ballo veloce e ritmato che consumò il poco fiato che le era
rimasto. Alla fine si buttarono tutti a terra fra risate e lamenti. Un altro
giro di bourbon rallegrò ulteriormente gli animi.
“Sono a pezzi.” confessò Lizbeth.
“Una cittadina come te che andrà
in palestra tre volte la settimana.” la prese in giro Brian, mandando giù con un colpo il suo dito di whiskey.
”Palestra, appunto. Qualche
saltello, un po’ di pesi, tapis roulant. Non su una sella dura a dondolare per
sei ore più ballo sfrenato per due.”
“Esagerata.”
”Non è vero!” esclamò. “Sono un fascio di dolore. Mi fanno male persino i
capelli.” terminò con tono piagnucoloso.
”Forse ho un rimedio.” Brian le
prese un braccio. “Siediti qui.”
Lizbeth guardò con diffidenza la
mano dell’uomo indicare lo spazio in mezzo alle sue gambe. Era un posto sicuro
quello? Ne dubitava davvero. Ma il bourbon le diede coraggio sufficiente per
scivolare fra quei jeans frusti e senza curarsi di dove sarebbe finita.
Brian le mise le mani sulle
spalle e cominciò un massaggio lento con i pollici sui muscoli tesi e
indolenziti dalla lunga cavalcata.
Qualsiasi remora volò via sotto
il tocco esperto di quelle dita. “Oddio. Che bello.” mugolò lei muovendo la
testa di qua e di là per sciogliere anche i muscoli del collo.
“Mmmm.” disse l’uomo alle sue
spalle. Il fiato caldo si avvicinò e le labbra si posarono sulla pelle scoperta
dalla coda con cui si era legata i capelli.
Lizbeth rabbrividì con violenza. Grazie, Dio, sussurrò nella sua mente.
Qualcuno lassù aveva pensato che dopo tutto, avesse diritto anche lei a un po’
di conforto. Si sarebbe lasciata andare, solo un pochino. Era lì per quello,
giusto?
Lizbeth si appoggiò all’indietro
contro il petto largo di Brian e lasciò che le labbra calde seguissero la linea
della mandibola giù, fino ad arrivare al mento. Con un dito le fece girare la
testa abbastanza per appoggiare la bocca sulla sua.
Altro che bourbon. Bastavano le
labbra di Brian per farla ubriacare del tutto.
Lizbeth si girò per dargli un
accesso migliore e lasciò che la sensazione di calore la avvolgesse
completamente.
Brian staccò le labbra e appoggiò
la fronte contro la sua. “Ci avrei giurato che sapevi di pesca.” le sussurrò,
sfiorandole ancora la bocca.
Lizbeth sorrise, il suo magico
burro cacao.
“Sarà meglio che andiamo a
dormire, prima che faccia qualcosa di molto sconveniente.” aggiunse Brian,
spostando le labbra contro il suo orecchio.
“Tipo?” Lizbeth aveva gli occhi
chiusi per assaporare fino in fondo la sensazione fantastica di aver quell’uomo
sexy che le sfiorava la pelle con la bocca.
“Prenderti qui davanti a tutti?”
le rispose con una risatina.
Lizbeth avrebbe anche dovuto
scandalizzarsi ma l’unica cosa che avvertì fu un’altra ondata di calore che le
si sparse nella pancia. Doveva essere il bourbon a renderla così disinibita.
“Un vero peccato.” sussurrò,
prima di riuscire a frenare la sua linguaccia. Brian emise un leggero fischio e
reclamò un altro bacio più appassionato che lasciò entrambi senza fiato.
Poi la costrinse ad alzarsi. “Vai
a dormire, tentatrice.” le disse, gli occhi illuminati dalle fiamme del fuoco
vicino a loro.
Lei mugolò di scontentezza ma si
trascinò verso il sacco a pelo e vi si lasciò cadere sopra. Appoggiò la testa
sul cuscino e l’ultima cosa che ricordò fu il peso del braccio di Brian sulla
schiena.
Le risate, le canzoni sguaiate e
la musica a tutto volume riempivano l’aria crepuscolare del loro suono allegro.
Quella sera al White Stallion Ranch
c’era il karaoke.
Lizbeth aveva ricevuto le maracas
il secondo giorno di scuola. Dopo averla sentita cantare l’inno nazionale, la
maestra le aveva detto: “Mi raccomando, Lizbeth.” e le aveva consegnato i due
strumenti con grande solennità. “Scuotile forte quando te lo dico. Conto su di
te.”
Neanche sotto la doccia Lizbeth
aveva il coraggio di cantare.
Così, prima che qualche yankee
brillo la costringesse a rovinare la digestione degli ospiti del ranch, si era
defilata nella grande terrazza esterna per godersi le ultime fiamme arancioni e
viola del tramonto.
Sarebbe stata in viaggio per Las
Vegas a quell’ora, insieme a Thomas, il suo neo marito.
Per la prima volta, ripensare al
tradimento di quel vigliacco non le procurava un crampo doloroso allo stomaco,
né un urgente bisogno di piangere. Per la prima volta vedeva davvero in faccia
l’uomo che avrebbe voluto sposare.
Che errore sarebbe stato!
Le era bastato un cowboy appena
conosciuto, un gran bel pezzo di cowboy poteva aggiungere, e un bacio davanti a
un fuoco da campo per aprire gli occhi su tutto lo snobismo, l’ipocrisia,
l’egocentrismo dell’uomo a cui avrebbe promesso di legare la sua vita finché
morte non li separava.
Doveva ricordarsi di ringraziare
Susan quando fosse tornato a casa. Che vita d’inferno sarebbe stata la sua.
L’avevano accecata le apparenze, era l’unica scusa che trovava a sua discolpa.
L’uomo di successo che le aveva concesso la sua amicizia prima e poi il suo
affetto, adesso appariva in tutta la sua triste e avara personalità,
interessato solo a quello che lei poteva fare per la sua carriera.
Lizbeth estrasse dalla borsa la
scatolina blu, dove aveva riposto l’anello con il minuscolo diamante che le
aveva regalato la sera della proposta. Avrebbe dovuto capirlo già da allora.
Invece aveva lasciato che arrivassero fino a un mese dalle nozze. Doveva essere
grata allo smodato arrivismo del neo socio della Kendall, Turner and Roary, le
aveva impedito di commettere un errore madornale.
Sollevò l’anello che luccicò
contro uno degli ultimi raggi del sole morente. “Addio, Thomas.” Spinse il
braccio all’indietro e lanciò il gioiello verso il giardino di cactus saguaro
lì vicino. “Ti auguro di strozzarti con uno dei foulard di seta con cui
proteggi il tuo prezioso collo dall’aria condizionata.”
L’anello fece un lungo arco
nell’aria serale e scomparve oltre i fusti vegetali irti di spini. Lizbeth alzò
il bicchiere di birra verso la sagoma ormai scura delle montagne e brindò alla
salute di ciò che aveva evitato.
“Cosa si festeggia?”
Il brivido che la percorse non
dipendeva dalle prime falangi della sera che si allungavano sulla proprietà del
ranch. Quel benedetto stalliere aveva persino la voce sexy, accidenti a lui.
Non lo aveva più visto dopo il
silenzioso rientro del gruppetto, provato dalla notte all’aperto nei sacchi a
pelo. Brian aveva provato a prenderla un po’ in giro ma Lizbeth, senza la sua
dose di caffeina mattutina, era un’ameba e non era neanche riuscita a
rispondergli a tono. All’arrivo al ranch aveva salutato con un cenno della mano
e si era diretta come uno zombie nel suo bungalow dove era svenuta sul letto
fino all’ora di pranzo. Poi si era concessa un doppio massaggio con manicure e
pedicure alla Spa del ranch ma del
cowboy, nemmeno l’ombra.
“Lo scampato pericolo.” rispose
lei senza voltarsi.
Brian le si affiancò contro la
balaustra, lo sguardo rivolto all’orizzonte e poi lo girò verso di lei. “Non oso
chiedere quale pericolo.”
Lizbeth esitò un secondo poi
sollevò le spalle: perché no? “Oggi mi sarei dovuta sposare.”
Brian emise un leggero fischio.
“Sposare?… Accidenti!” Prese un bel respiro e si voltò, appoggiato al legno a
braccia conserte, per piantarle quei fanali nocciola bene in faccia. “E cosa è
successo al tuo… promesso sposo?”
Lizbeth si soffiò sulle dita
chiuse. “Puff. svanito. Ha sposato la figlia del socio di maggioranza
dell’agenzia pubblicitaria dove lavoro.”
“Mi spiace…” sussurrò lui.
Lizbeth lo guardò per la prima
volta da quando era comparso alle sue spalle. “A me no.” poi aggiunse. “Beh,
per lo meno adesso.” Sollevò il bicchiere di birra per liberarsi dal senso di
fascinazione che le procurava sempre guardarlo in faccia. Ci voleva proprio uno
così per farle vedere cosa si stava perdendo. “Ho realizzato che era più
stronzo di quanto volessi ammettere.” disse e appoggiò il bicchiere sulla
balaustra con il sorriso di chi si è sollevato un peso dalle spalle.
“Ehi!” esclamò lui. “Allora dobbiamo
festeggiare!” Le afferrò la mano e incomincio a camminare.
“Ti prego, non a cantare.” lo
supplicò lei.
“Ma che cantare! Conosco un
localino dove possiamo bere dell’ottima birra ed esercitare un po’ dei passi
che hai imparato ieri sera.”
Senza aspettare una risposta la
tirò verso i gradini che scendevano in giardino. “Se lo chiedi con quella tua
faccina d’angelo, Peter potrebbe anche darci dello champagne per brindare.”
Faccina d’angelo? Brian le aveva detto “faccina d’angelo”?
Un sorriso ebete le comparve in
faccia mentre quasi inciampava per tener dietro ai lunghi passi del cowboy che
la stava trascinando verso una bassa costruzione di legno.
Brian aprì il portone e una
Harley Dyna Wide Glide, dalle cromature lucide e un bellissimo acchiappasogni
con una testa di lupo al centro del serbatoio nero, apparve in tutto il suo
splendore.
Lizbeth sollevò gli occhi al
soffitto, non poteva che essere così. Non una BMW o una giapponese, ma una all American Harley che completava il
personaggio alla perfezione. Ci mancava solo il tatuaggio, classico tocco
finale per rendere perfetto il quadro. Lizbeth perlustrò con lo sguardo la
pelle abbronzata visibile dell’uomo. Chissà dove lo nascondeva.
Brian fece rientrare il
cavalletto e spinse la moto fuori dal garage. Lizbeth prese il casco aperto che
le porgeva e si allacciò la fibbia del cinghino sotto il mento.
“In venti minuti saremo là.” Il
singhiozzo del motorino d’avviamento accompagnò le parole di Brian e poi il
rumore delle marmitte aperte riempì la sera con un rombo di tuono.
Bastò il suono e il pensiero di
cavalcarlo insieme al suo cowboy a mandarle i battiti del cuore alle stelle.
Brian scavalcò la sella e indossò
a suo volta il casco. Allungò una mano verso di lei per aiutarla a salire.
“Tieniti stretta.” Le accarezzò il polpaccio dopo che aveva sistemato i piedi
sui pedalini. “È una moto piena di personalità.”
Lizbeth non nutriva alcun dubbio.
Con un sonoro “clac” inserì la marcia e procedette a
passo lento sullo stradino ghiaiato fino al cancello del ranch.
Lizbeth lo abbracciò e appoggiò
la guancia sul cotone morbido della sua camicia. Poteva giurarci che si sarebbe
tenuta stretta, un’occasione del genere, spalmarsi sulla schiena larga di un
super maschio, capitava una volta nella vita e ne avrebbe approfittato senza
remore.
L’aria della sera, ancora calda
dal sole appena tramontato, li investì mentre Brian immetteva la moto
sull’asfalto della statale che li avrebbe portati a Twin Peaks. La tentazione
di scoprire qualcosa di più su di lui le fece spostare la mano verso la
consistenza solida dei pettorali, i fianchi che si stringevano e la forma
perfetta delle “piastre” degli addominali.
Brian la bloccò proprio al
livello della cintura. “Io mi fermerei.” le disse, allungandosi indietro per
farsi sentire. “O ci toccherà fermarci a festeggiare dietro una di quelle
rocce.”
Lei fece un urletto e incrociò le
dita per testimoniare la sua buona volontà di resistere. Brian rise e tornò in
avanti per aprire la manopola del gas e accelerare, costringendola ancora di
più contro di lui.
Lizbeth si godette la cavalcata
quasi come quella con l’animale in carne e ossa, la faccia sferzata dall’aria
tiepida, la vibrazione potente del motore sotto il sedere e il profumo di Brian
a fare da contorno.
Purtroppo i venti minuti volarono
in un attimo e si fermarono anche troppo presto davanti a un locale con una
grande insegna lampeggiante rossa e blu: “The Big Pete”. La porta si aprì e la
musica country uscì a tutto volume dal locale, insieme a un gruppetto di
fumatori.
Brian parcheggiò la moto tra una
Chevrolet Silverado rosso metallizzato e una Ford Mustang grigia, con due
larghe strisce nere che percorrevano tutta la macchina, dal paraurti anteriore
a quello posteriore.
“Eccolo qua, il ritrovo più
gettonato della zona per chi ama la buona musica.” le disse mentre scendevano
dalla moto.
“Sembra un posto allegro.” Sotto
il tappeto di note della band si sentivano gli schiamazzi e gli scoppi di
risate degli avventori.
Lizbeth si mise a litigare con
l’apertura della fibbia del casco che non ne voleva sapere di aprirsi. Con uno
schiaffetto sulle mani, intervenne Brian che, in un solo movimento, slacciò il
cinghino. Lei fece una smorfia e Brian le sfiorò la fronte con le labbra mentre
le toglieva il casco. “Sono contento che non ti sia sposata.” le sussurrò.
Poi sollevò la testa alle note
della canzone successiva. “Vieni!” le prese la mano e la trascinò verso
l’interno. “Rough and Ready! Non
possiamo perdercela.”
Quando entrarono nel locale,
illuminato da grandi applique ai muri rivestiti in legno, la linea di ballerini
era già in moto. Brian avanzò a passo deciso, scambiando cenni con la testa e
pacche sulle spalle con diversi presenti, ma determinato a raggiungere la pista
il più in fretta possibile. Si incuneò tra i ranghi stretti di gente e creò un
po’ di spazio anche per loro.
Per un po’ rimasero sulla pista a
seguire le complesse coreografie e a far ridere tutti per i tentativi
impacciati di Lizbeth di stare al passo. Quando ormai la pancia le faceva
troppo male per le risate, Brian la condusse fuori dalla pista verso un tavolo
libero in un angolo.
“Che vi porto?” disse una ragazza
con uno Stetson troppo grande sulla testa e una camicetta troppo piccola per il
seno prosperoso.
“Dici che Peter ha dello
champagne?”
Lei lo guardò come un deficiente,
facendo in silenzio un palloncino con la gomma da masticare.
“Va beh.” sospirò rassegnato
Brian. “Portaci due lager.”
“Ti piace, allora?” le chiese, lo
sguardo ben piantato su di lei, sfumato di divertimento.
L’arrivo della loro ordinazione
ritardò la sua risposta.
“Da morire.” esclamò poi,
prendendo un lungo sorso di birra gelata, giusto per sfuggire all’intensità di
quegli occhi. Da quanto tempo un uomo non la faceva sentire così? Apprezzata,
ammirata, desiderata, in una sola parola, bella?
“Allo scampato pericolo.” Brian
sollevò il boccale per brindare con lei. Poi lo riappoggiò sul tavolino.
”Raccontami di lui.” le disse, fissando il riflesso delle luci attraverso il
liquido dorato nel bicchiere.
“Perché ti interessa?” Lizbeth si
irrigidì. Quella inaspettata richiesta non le piaceva, non gli sembrava di
essere un po’ troppo indiscreto?
“Semplice curiosità.” Brian le
prese la mano e se la portò alle labbra. “ I mostri si esorcizzano parlandone.”
aggiunse.
Come faceva a resistere davanti a
quella dolcezza?
Ancora una volta si ritrovò a
raccontare cose di se stessa che non condivideva con facilità, figuriamoci con
uno sconosciuto. Gli parlò di come lo aveva conosciuto nell’agenzia dove aveva
iniziato a lavorare, appena uscita dall’università; di come le aveva dimostrato
attenzioni, sfruttando al contempo la sua bravura nella ricerca e analisi dei
dati e nella definizione di strategie di mercato complesse; di quando si era
dichiarato in macchina, dandole l’anello come se fosse un grande onore, per poi
lasciarla dopo aver ottenuto il posto da socio e aver impalmato la scialba
Susan Kendall. O viceversa, non era poi tanto sicura.
“Che pezzo di merda.” concluse
lui con un sorso della sua birra, la mano sempre stretta alla sua. “Sei stata
fortunata a essere mollata.”
”Incomincio a pensarlo anch’io.”
Lizbeth cercò di sembrare casuale ma il tono uscì un po’ troppo sospirato.
Lui la fissò senza parlare, gli
occhi luccicanti di qualcosa d’indefinito mentre un leggero sorriso gli
increspava le labbra.
La musica era cambiata nel
frattempo, i balli di gruppo erano stati sostituiti da coppie strette a
dondolare sul pavimento in legno della pista, al ritmo delle ballate di Johnny
Cash o Josh Turner.
“Brian?” Una voce chiamò dal
microfono. Lui si girò verso la band e alzò il braccio per salutare. “Vieni a
cantarci qualcosa.”
Lui sollevò le loro mani unite
come per scusarsi.
“Dai! Fallo per la tua bella.”
Brian la guardò e lei mimò “Ti
prego.” con le labbra. Se le dedicava anche una canzone, avrebbe potuto tramortirlo
e infilarselo in valigia il giorno dopo.
Lui le baciò le dita e si alzò.
“Un applauso per il nostro
Brian.” incitò il cantante.
Il pubblico del locale rispose
con fischi e grida nella sua direzione.
Brian avanzò con il passo da
cowboy, stretto in quei jeans troppo aderenti per il benessere della porzione
femminile dei presenti, salì sul palco e prese la chitarra dalle mani del
bassista, accolto con affetto dai componenti della band.
Poi si girò verso il pubblico.
“Questa la dedico alla mia amica Lizzie.” disse al microfono, indicandola con
un braccio. Lei nascose l’imbarazzo dentro la schiuma della sua birra.
Subito dopo seguirono le prime
note di una canzone di Springsteen.
“Hey
little girl is your daddy home…”
Brian aveva una voce più baritonale
del famoso cantante e le note basse di quel “ragazzina”, le riverberano dritte dentro lo stomaco.
“…oh, oh, ooh I’m on
fire.”
Quando intonò il refrain, fu come
se le polveri prendessero fuoco davvero. Lizbeth andò letteralmente in fiamme,
alimentate da quel ritmo profondo e sensuale.
“… I can take you
higher. Oh, oh, ooh I’m on fire.”
Al successivo ritornello Brian
sollevò lo sguardo e lo fissò su Lizbeth, lo stesso incendio che gli bruciava
negli occhi, tutto per lei.
“…Only
you can cool my desire. Oh, oh, ooh I’m on fire.”
Un applauso grandioso, fischi e
ovazioni accolsero la fine della canzone e seguirono Brian mentre restituiva la
chitarra al bassista, scambiava saluti a mano aperta con gli altri della band e
scendeva dal palco, un uomo con una sola missione: raggiungerla il più presto
possibile.
Nel suo avanzare ricevette saluti
e complimenti ma non si fermò. Arrivato al loro tavolo, le porse la mano e
senza una parola la trascinò fuori dal locale.
Arrivati alla moto prese il casco
dalla sacca laterale e glielo piantò in testa. Salirono sulla moto in silenzio,
l’attesa che li avvolgeva con i suoi nastri di desiderio, e partirono alla
volta del ranch.
Il tragitto di ritornò sembrò
eterno. Lizbeth sì incollò alla sua schiena, lo sguardo rivolto a quel cielo
così stellato da sembrare dipinto da larghe pennellate di polvere bianca, la
mente incapace di connettere un pensiero con l’altro solo: sbrigati Brian, corri.
Davanti al suo bungalow lui si
strappò il casco e si girò verso di lei, incollando le labbra sulle sue in un
bacio che bruciava l’anima come il fuoco della canzone. Si staccò solo un
secondo per sussurrarle. “Non mandarmi via.”
Lizbeth riuscì solo ad annuire
prima che lui riprendesse possesso della sua bocca.
E chi avrebbe avuto il coraggio
di farlo?
Brian si staccò o per portare la
moto sul retro e parcheggiarla vicino alla terrazza della sua casetta.
Lizbeth scese per prima, si
liberò in fretta del casco e salì i due gradini che la portavano verso la sua
camera. Appoggiò le mani alla balaustra. Aveva bisogno di calmarsi, di far
rallentare la folle corsa del cuore che le faceva quasi dolere il petto.
Rivolse un muto appello alle sagome delle montagne, illuminate da una
moltitudine di stelle, e al coro assordante delle cicale che le faceva da contorno.
“A Denver ci si scorda che
esistano queste cose.” disse Lizbeth quando Brian la raggiunse.
Lui si fermò alle sue spalle e la
imprigionò con il proprio corpo, mettendo le mani sulle sue.
“A Denver non ci si concede
neanche il tempo di guardare il cielo.” replicò lui, prima di abbassare la
testa e
affondare il viso nei suoi
capelli per baciarle il collo.
“Mi fai venire i brividi.”
ridacchiò lei, cercando di scacciarlo con la testa.
“Solo?” le chiese mordicchiandole
il lobo dell’orecchio. “Allora sto perdendo il mio tocco.”
La risposta pungente di Lizbeth
morì nel mugolio che le uscì al suo posto quando Brian prese un po’ di pelle
tra le labbra e succhiò.
Il corpo che si sfregava
seducente contro di lei era solido e forte e… ooh… così “stimolato” dalla sua presenza.
Due dita sotto il mento le fecero
girare la testa e le labbra di Brian erano lì, pronte a catturare le sue e a
lottare con lei per la supremazia. Quando si staccarono non era rimasto più
ossigeno in quella serata di giugno, consumato dal fuoco che avevano acceso in
quel locale.
“Camera?” le sussurrò fissando
gli occhi nei suoi.
Lizbeth non era una ragazza
facile, non era mai stata da “una botta e via” ma, in quella notte stellata, in
compagnia di quel cowboy, uscito dal cast di Magic Mike, che le aveva detto di
bruciare per lei, decise che per una volta tanto poteva dimenticarsi di essere
una brava ragazza, scordarsi della parola “conseguenze” e spremere quell’attimo
fino all’ultima goccia, mandando al diavolo tutto il resto.
Lizbeth appoggiò la guancia sulla
sua spalla e allungò il collo verso di lui in un chiaro invito. “Sì” rispose
con le labbra sulle sue, lasciando che lo raggiungesse solo la vibrazione di
quelle due lettere.
Brian la strinse più forte e la
fece voltare per approfondire quel bacio che, come una valanga nata da un
piccolo sasso, trascinò con sé l’intera montagna del suo desiderio.
Poi le prese la mano e la
precedette nel bungalow.
Nell’oscurità illuminata solo
dalle stelle, si diresse deciso verso il letto con la coperta ricamata e vi si
sedette sopra, allargando le gambe per accoglierla nel mezzo.
Le mani andarono ai suoi fianchi
e le accarezzarono la schiena mentre la debole luce siderale si rifletteva nel
desiderio bruciante di quegli occhi. “Sei così bella che fa male guardarti.” le
sussurrò.
Lizbeth rabbrividì. Non era mai
stata bella per nessuno, non per il suo boyfriend del college, né per il suo
meschino ex fidanzato, ma davanti a quello sguardo così ardente poteva quasi
credere alle sue parole.
“La maglietta.” sussurrò Brian
Lizbeth non si ricordò più dei
suoi mille difetti, che Thomas amava tanto rimarcare. Si sfilò la T-shirt senza
nessun pudore davanti a un uomo capace di farla sentire come la più bella delle
donne e la buttò con un gesto provocante sulla poltrona lì accanto. Poi attese.
Brian le accarezzò la pelle con
le mani callose e ruvide dal suo lavoro sui cavalli, baciò il suo accenno di
pancetta, mordicchiò l’ombelico un po’ storto, stuzzicò il neo a forma di
goccia, subito sotto il seno, e poi la piccola protuberanza del capezzolo
contro il reggiseno di cotone.
Dita esperte trovarono i gancetti
dietro la schiena e l’indumento volò sopra la maglietta. Brian si fermò ad
ammirare i suoi seni.
Li prese tra le mani quasi con
reverenza e depose un bacio su ciascuna punta rosa, che si era subito indurita
al contatto con l’aria, prima di sceglierne una da avvolgere con le labbra.
Lizbeth buttò indietro la testa
con un gemito.
“È da quando quella ragazza a
bocca aperta, con la maglietta troppo aderente su questi meloncini rotondi, mi
fissava in quel negozio che fantastico su questo.” Brian succhiò con trasporto.
“E questo.” Con i denti mordicchiò il capezzolo. “Ma soprattutto, ho sognato
come sarebbe stato mettere le mani su quel culetto rotondo, stretto nei jeans
attillati.”
Era lo stesso culetto che il suo
ex chiamava “mongolfiera”?
Le mani di Brian scesero sulle
sue natiche e le strinsero. “Ho intenzione di esplorarti tutta prima di
domattina. Da cima a fondo.”
E quando un cowboy si metteva in
testa una cosa, niente lo poteva fermare, proprio niente. Brian si adoperò per
portare a termine la sua missione senza non lasciare nulla d’intentato.
Alle prime luci dell’alba,
Lizbeth si svegliò con la guancia sopra un pettorale scolpito, appena spruzzato
di peli neri, e il braccio intorno a un torace largo e muscoloso. Brian stava
giocherellando con i suoi capelli e lei rimase immobile ad assorbire ancora un
po’ la sua presenza.
Alla fine il tatuaggio non lo
aveva trovato, solo alcune cicatrici dovute alla sua gioventù sfrenata o a
qualche incontro ravvicinato con un zoccolo. Ma non aveva avuto modo di
rimpiangerlo. Brian si era dimostrato ben più che all’altezza di qualsiasi
fantasia potesse ispirare un cowboy in sella a una Harley.
Brian le sfiorò la fronte con un bacio.
“Devo andare.” le disse
Lizbeth appagata e ancora mezza
assonnata, si spostò per lasciarlo uscire dal letto, si girò sulla schiena e
rimase ad ammirare lo spettacolo mattutino di quel corpo da personal trainer
che quella notte, solo per quella notte, era stato suo e le aveva dato un
piacere immenso. Doveva imprimerselo nel cervello, ricordare ogni piega e ogni
rilievo. Dalla curva dei larghi pettorali, alla linea stretta della vita, dal
sedere sodo e succoso, alle lunghe cosce muscolose da cavaliere veterano.
Lo avrebbe ripercorso nelle sue
giornate solitarie e vi avrebbe fantasticato sopra immaginando almeno un altro
milione di cose che le sarebbe piaciuto farci.
Brian le sorrise mentre si
rimetteva i boxer aderenti e i jeans, lasciando per ultima la maglietta così da
procrastinare lo show per il suo piacere. Quando fu pronto per andarsene, si
avvicinò e le sfiorò le labbra con le sue.
“A che ora parti?” le chiese.
“Ho il volo di rientro alle dieci
e trenta.” rispose lei. Probabilmente non avrebbe potuto rimanere lì a poltrire
a lungo.
“Ho delle cose da fare.” le disse
e Lizbeth immaginò di sentire una nota di rammarico. “Ma ci rivedremo ancora,
cowgirl.” Tornò a baciarla con le nocche che le sfioravano la guancia.
“Certo.” rispose lei, sicura del
fatto che fossero parole di circostanza. Ma non le importava. Com’era il detto?
Meglio un giorno da leoni che cento da pecora? Lizbeth continuò a guardare
quell’uomo da favola fino a quando non sparì oltre la soglia della terrazza.
Beh, la sua notte era stata proprio
quello e si sarebbe costretta a non avere nessun rimpianto, solo i ricordi di
un sogno fattosi realtà sotto il cielo stellato dell’Arizona.
Lizbeth sospirò davanti al
computer.
Doveva smetterla di guardare
fotomodelli in tenuta da cowboy, tanto nessuno faceva concorrenza al suo in
carne e ossa.
Nonostante le promesse, Brian non
si era più fatto sentire. Non che se lo fosse aspettato. Un esemplare di uomo
da copertina che si mescolava con un’insulsa texana come lei? Certe cose succedevano
solo nei romanzi della Harlequin.
Le sue amiche avevano provato a
essere ottimiste. “Vedrai, ti chiamerà” avevano sentenziato, dopo il suo
racconto del fine settimana. Ma più il tempo passava e più le speranzose,
sempre ottimiste, Mary Lou e Johanna, si scontravano contro la realtà: Brian
non si sarebbe fatto vivo.
Lizbeth chiuse la foto del
modello e riaprì il file del progetto a cui stava lavorando. La vera nota
positiva del suo rientro era stata vedere Susan Kendall arrivare in agenzia
sottobraccio a Thomas. Nessuna invidia, nessuna gelosia, solo un leggero senso
di sollievo per lo scampato pericolo. Se il carrierismo di Thomas non lo avesse
spinto a tentare la scorciatoia per il vertice, ci sarebbe stata lei appesa a
quel braccio. Una sorte che adesso appariva poco migliore della galera.
La porta del suo ufficio si
spalancò di colpo e il protagonista del suo ultimo pensiero piombò nel suo
ufficio con gli occhi che lanciavano strali di rabbia.
“Cosa credi di fare?” le inveì
contro.
Lizbeth fissò il
sempre-compassato Thomas con i capelli in disordine e lo sguardo iniettato di
sangue. Per qualche secondo la sorpreso le impedì di reagire.
“Allora!” urlò Thomas più forte.
Lo strillo la riscosse dalla
trance stuporosa. “Cosa intendi?” gli chiese, fissandolo con gli occhi
spalancati.
“Vuoi vendicarti?” Se era
possibile, la sua voce si alzò ancora di tono. “Vuoi rovinarmi perché ho
piantato il tuo grasso sedere per sposare la figlia di Kendall?” Il tono
assunse una nota stridula.
Quella cattiveria risvegliò il
suo orgoglio. Il suo grasso sedere, come lo chiamava lui, era piaciuto più di
un po’ a un cowboy di sua conoscenza.
Lizbeth si alzò in piedi di
scatto e piantò i palmi sulla scrivania. “ Se credi di poter entrare qui a
farneticare offese e stupide accuse, hai sbagliato di grosso. Dimmi cosa vuoi e
sgombera.” disse, accompagnando le parole con un eloquente gesto della mano
verso la porta.
“Parlo della Carmichael and Co.” le sputò contro Thomas.
La Carmichael? Cosa c’entrava lei
con la Carmichael? Non era quella grossa industria di trattamento carni a cui
stavano facendo la corte e dalle cui trattative era stata lasciata
deliberatamente fuori?
“E io cosa ci starei a dire?” gli
disse con una smorfia. “Non dovevi far brillare il tuo astro nascente di luce
propria?” finì con una nota di sarcasmo.
Come se fosse possibile. Senza lo
stuolo di segretarie e assistenti che facevano il lavoro duro per conto suo,
non avrebbe brillato neanche della luce di una candela.
“Qualcosa c’entri, visto che il
signor Carmichal in persona ha detto che tratterà solo se ci sei anche tu.”
“Cosa ha detto?” Lizbeth
strabuzzò gli occhi.
“Dov’è la signorina Garland.” lo
motteggiò Thomas. “Credevo facesse parte del gruppo.”
“Non so neanche chi sia il signor
Carmichael.”
“Beh, a quanto pare lui sì. Se
non ci sei, se ne va.” e aggiunse, “Non potete lasciar fuori il vostro creativo
migliore, ha detto. Lo stronzo.” Thomas finì in un ringhio.
Lei lo fissò con un moto di stima
per l’anziano uomo d’affari. Chissà dove aveva sentito parlare di lei.
“Ribadisco: non so assolutamente
chi sia. Comunque, se devo proprio venire di là…” e lasciò le ultime parole in
sospeso. Voleva fargliela pesare a quel cazzone.
“Vedi di non fare bastardate.”
ruggì Thomas, spruzzando di goccioline di rabbia la superficie lucida della sua
scrivania.
Con una smorfia di disgusto,
Lizbeth lasciò la relativa protezione della sua scrivania e, con un sorrisetto
compiaciuto sulle labbra, seguì le furiose falcate di Thomas lungo il
corridoio.
Arrivati davanti alla porta della
sala riunioni, lui si voltò per incenerirla con un silenzioso ammonimento, poi,
con un lungo respiro, s’incollò in faccia il miglior sorriso falso che
riuscisse a ottenere. “Eccoci qua.” annunciò con un forzatissimo tono allegro,
entrando nella stanza.
Tre uomini erano seduti al lato
opposto del tavolo: i due soci e un uomo dall’aria vagamente familiare. Le ci
vollero dieci secondi perché il calore di quello sguardo nocciola arrivasse
fino al suo cervello. Quell’uomo elegante, con i capelli scuri tirati indietro
dal gel e il sorriso più pericoloso dell’intera Arizona la stava fissando
divertito, forse dall’espressione da deficiente che le si doveva essere
stampata in faccia.
Il signor Kendall si alzò e le si
avvicinò. “Ecco la nostra Lizbeth.” Il sorriso forzato era tutto un programma.
Stava rovinando la ribalta del suo nuovo genero e sembrava proprio non gradire.
L’uomo le prese un braccio e la condusse verso gli altri.
“Lizbeth, questo è il signor
Carmichael.”
Brian si alzò in piedi in tutto
il suo splendore e Lizbeth temette le cedessero le gambe. Se era possibile, in
quel completo scuro dal taglio perfetto, con sotto una camicia celeste in
tessuto Sea Island, era ancora più appetitoso che in tenuta da cowboy.
“Piacere, signorina Garland.” Le
porse la mano che lei prese con il timore di risvegliarsi nel suo letto e
scoprire di averlo sognato. Il sorriso invece parlava di un segreto che non
avrebbero svelato a quei tre.
“Il signor Carmichael ha chiesto
espressamente di te.” Il falso orgoglio nella voce del signor Kendall le fece
stridere i denti.
Brian si portò le sue dita alle
labbra. “Ho sentito parlare molto di lei e della sua competenza.” le disse,
risollevando lo sguardo pieno di malizia su di lei. “Ho semplicemente detto a
questi signori che volevo il meglio. Se no me ne sarei andato.”
Le sembrò di avvertire un leggero
ringhio provenire da Thomas alle sue spalle, ma Lizbeth era troppo impegnata a
perdersi nel calore dello sguardo di Brian per farci davvero caso.
Nella sala era caduto un silenzio
imbarazzato. Lizbeth si rese conto che stavano tutti aspettando che lei dicesse
qualcosa. “La ringrazio.” rispose in fretta. Perché riusciva sempre ad apparire
un imbecille davanti a quell’uomo? “Lei mi lusinga.”
“Non credo proprio.” Brian si
girò e la guidò verso la sedia accanto a lui. “Bene.” esclamò, sedendosi a sua
volta e abbagliando le facce inespressive dei soci dell’agenzia con il suo
sorriso da superstar. “Adesso che ci siamo tutti, possiamo cominciare.”
Alla fine della riunione la
Kendall, Turner and Roary si era accaparrata il cliente, con la precisa
clausola che lei lavorasse in prima persona alla campagna pubblicitaria della
sua azienda di trattamento carni: dalla produzione al consumatore.
Il suo ex era uscito insieme al
suocero con l’aria arcigna di una prima donna privata delle luci della ribalta.
Ci sarebbero state delle ripercussioni, glielo aveva letto in faccia, ma in
quel momento era l’ultima delle sue preoccupazioni. Voleva solo godersi il suo
piccolo trionfo e il suo cowboy in abito professionale.
Le avevano lasciato il compito di
accompagnarlo all’uscita, come l’ultima delle segretarie. Ricordati di stare al tuo posto…
Se solo avessero immaginato la
verità…
“Te l’avevo detto che ci saremmo
rivisti.”
“Credevo fossi uno degli
stallieri…” Lizbeth scosse la testa ancora incredula mentre i loro passi li
portavano lungo il lucido pavimento di granito grigio verso l’uscita.
“Lo so.” Il tono divertito era
innegabile.
“Ma tutti ti trattavano così…”
“Tra di noi non ci sono molte
formalità. Sono nato là. La gente del posto mi ha visto più spesso con le
ginocchia sbucciate e il naso colante che in vestiti da manager. Non si
sognerebbero mai di trattarmi come se fossi qualcos’altro.”
“Ma il ranch?”
“E’ della mia famiglia. Fa parte
di una catena sparsa per mezza Arizona e Texas, turistici e di allevamento. Dal
produttore al consumatore, ricordi?”
“Ma tu sapevi chi ero?”
Brian annuì. “Durante la gita hai
nominato l’agenzia per cui lavori.” Poi abbassò il tono. “Dopo quella notte ho
deciso di voler fare qualcosa per vendicarti.” Brian si passò la mano tra i
capelli, spettinando quel perfetto ordine congelato dal gel. “Volevo anche
sondare il terreno, capire se ero stato solo l’avventura di una notte, il
fortunato bastardo che si era trovato nel posto giusto al momento giusto per
merito di quello sfigato dalla faccia da ratto.”
“Non scherzare.” esclamò Lizbeth.
Da qualche parte ci doveva essere una video camera nascosta. Il super cowboy
che voleva sapere se lei era interessata a qualcosa di più di una notte di
passione? Ma per piacere!
“Perché dovrei scherzare?” disse
con il tono indurito.
“Guardati!” e fece un gesto con
la mano per comprenderlo dalla testa ai piedi. Poi si piantò le dita contro il
petto. “Ora me.”
Lui la attirò in un angolo
dell’atrio dove non potevano vederli.
“Cosa c’è che non va in me?”
“Sei ricco, hai la voce di un
cantante country. “ Lizbeth si mise a contare sulle dita. “La faccia di un
fotomodello e un corpo da urlo.”
“Da scatenare una rissa.”
ridacchiò lui, le braccia avvolte alla sua vita per tenerla vicina.
“Io sono un’insipida cittadina
che non è neanche riuscita a tenersi un fidanzato con la faccia da ratto.” La
sua tirata terminò con un tono lamentoso.
“Se per insipido intendi quelle
curve da far girare un intero negozio o da indurre commenti a luci rosse nei
cowboy di un ranch, lo spirito pungente e appassionato con cui ti rapporti agli
altri e l’evidente competenza
nel tuo lavoro, credo mi convertirò a una vita senza
sale.” le disse.
Poi le sfiorò le labbra. “Voglio
una possibilità con te, solo quello.” le disse sottovoce. “Capisco che non mi
conosci, capisco che sei appena stata scottata, ma una cosa ti prometto:
onestà. E se non dovesse funzionare non scapperò mai a Las Vegas per sposare
un’altra.”
Per qualche strana ragione
Lizbeth gli credette. Prendere dei rischi nella vita era l’unico modo per
sentirsi davvero vivi. Quello splendido uomo voleva una possibilità? E chi era
lei per negargliela?
Lizbeth si avvicinò e lasciò che
fossero le sue labbra a rispondergli. Lui la strinse più forte e il bacio
leggero si trasformò in qualcosa di molto più bollente.
Rimasero qualche secondo in
quell’angolo buio e poi si presero per mano per arrivare alla sua macchina.
L’autista era già pronto ad aprirgli la portiera.
“Allora arrivederci.” la salutò
sfiorandole le labbra. “Ti chiamo stasera.”
Lei lo guardò con la testa
chinata di lato. “Come l’ultima volta?” Tre lunghe settimane di attesa.
“Stavo preparando la mia
sorpresa.” Le scostò una ciocca di capelli dal viso. “Ci. Sentiamo. Stasera.”
finì deciso.
Salì in macchina e l’autista gli
chiuse dietro la portiera.
Lizbeth rimase sul marciapiede a
salutare con la mano fino a quando la Bentley non svoltò all’angolo successivo.
Poi si sfiorò le labbra dove ancora aleggiavano i suoi baci.
Aspetta solo che racconto a Johanna e Mary Lou come è finito il loro
regalo di consolazione.
FINE
CHI E' L'AUTRICE...
MARIA CRISTINA ROBB è nata a Bologna e vive a Castel Maggiore, con la sua famiglia: un marito e una figlia. Fa l’infermiera da circa 27 nel dipartimento di chirurgia di un grosso ospedale universitario in cui si occupa anche di ricerca. Si definisce una lettrice compulsiva e ha sempre desiderato poter scrivere qualcosa che desse agli altri le stesse emozioni che prova lei quando tiene un libro tra le mani. Per questo ha frequentato alcuni corsi di Scrittura Creativa e Collettiva che le hanno fornito validi elementi per affinare il suo stile. Il suo debutto è stato il concorso sul blog “La Mia Biblioteca Romantica”, dove il suo racconto “Mr. Talbot” è risultato vincitore di una rassegna di Romance Erotico. Da allora ha continuato a scrivere, pubblicare su blog e partecipare a contest dove è risultata tra i finalisti in diverse occasioni. Di recente, con uno pseudonimo ha iniziato a pubblicare racconti appassionanti ed erotici per una nota casa editrice.
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TI E' PIACIUTO QUEST'ESTATE TI REGALO UN COWBOY? PARTECIPA ALLA RASSEGNA CON I TUOI COMMENTI FIRMANDOLI. A FINE AGOSTO, ELEGGEREMO IL VOSTRO RACCONTO ESTIVO PREFERITO ED ESTRARREMO LIBRI SORPRESA FRA TUTTE LE LETTRICI CHE LASCERANNO COMMENTI INTERESSANTI AI NOSTRI RACCONTI. PARTECIPATE!
APPUNTAMENTO A VENERDI' 7 E SABATO 8 AGOSTO PER I PROSSIMI DUE APPASSIONATI RACCONTI DI SUMMER LOVING... CONTINUA A SEGUIRCI.
Brava Robb, ancora una volta hai saputo coinvolgermi con un tuo racconto! Adesso aspetto un romanzo intero! Fede
RispondiEliminaBellissimo racconto!Mi è piaciuto molto e grazie al Blog per avercelo presentato :)
RispondiEliminaGrazie, grazie!!!
RispondiEliminaBellissimo come Mr.Talbot, che mi è piaciuto un sacco.
RispondiEliminaAdesso però vorrei sapere i libri pubblicati con lo pseudonimo...
marina
no no ho trovato!!! E ti ho pure letta!!!!
Eliminamarina
Per fortuna Marina ;)
EliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaMolto bello, mi è veramente piaciuto. Lei in certi momenti è veramente uno spasso,mi ha fatto ridere...lui è uno di quegli uomini che vorresti trovare veramente, ha tutto quello che una donna desidera,soprattutto il senso dell'umorismo e fare sentire la sua donna come la donna più bella del mondo e la più desiderata.
RispondiEliminaBrava Maria Cristina.
Franca Poli
Se questo è il primo dei racconti non vedo l'ora di leggere gli altri!!!
RispondiEliminaDivertente ed emozionante, un mix perfetto per allietare una calda serata estiva ;-)
Grazie!!!!! :*
RispondiEliminaBrava Mc Robb!! Bel racconto, voglio anche io un cowboy il mio compleanno è a settembre (rendo noto) se qlc volesse omaggiarmi......
RispondiEliminaun cowboy così... anche usato!
RispondiEliminabel racconto, piacevole e rilassante
Un onore Maria! :)
EliminaCara consorella Maria Cristina, mi è piaciuto molto il tuo cow boy caliente e al contempo simpatico. Che la Dea benedica te e lui
RispondiEliminaGrazie mille care amiche!!! La Dea Scriba intendi?
RispondiEliminaOnnicomprensiva, puoi intendere quella che vuoi.
RispondiEliminaMolto molto carino. Mi sa che dovrei trasferirmi da quelle parti. Brava, MC!
RispondiEliminaMolto molto carino. Mi sa che dovrei trasferirmi da quelle parti. Brava, MC!
RispondiEliminaSono stata molto felice di leggere un altro racconto di Maria Cristina Robb dopo Mr. Talbot che mi era piaciuto tantissimo. Stuzzicante, divertente, con una scrittura fluida e piacevole. Spero di poter presto leggere anche un romanzo. Bellissimo il personaggio dell'affascinate cowboy. Complimenti.
RispondiEliminastupendo, bellissimo, romanticissimo, sensuale e allegro, tutto quello che mi piace in un romance... la scrittura è fluida ed è stato un vero piacere leggerlo, credo sia già il mio preferito
RispondiEliminabellisimo allegro romantico e spumeggiante come devono essere i romance talmente presa che mi sembrava di essere lei hahha grazie.
RispondiEliminaMolto molto carino. Mi sa che dovrei trasferirsi da quelle parti. Brava, MC!
RispondiEliminaMi aggiungo alle tue estimatrici nel fare l'ola! Milena
RispondiEliminaGrazie a tutte!!!! :* :*:*
RispondiEliminaMi associo ai tantissimi complimenti, veramente brava... Un grosso in bocca al lupo! :)
RispondiEliminaUn racconto veramente piacevole. Brava!
RispondiEliminaUn bel racconto simpatico, frizzante e divertente brava brava brava
RispondiEliminaUn racconto molto bello, Cristina, con un protagonista davvero fascinoso. Brava!
RispondiEliminaSimpatico e divertente,purtroppo corto ma è sembrato un'intero libro complimenti mi sono divertita
RispondiEliminaGrazie ancora a tutte :) :) :)
RispondiEliminaNon sono abituata a leggere di cow-boy e i tratti indiani non è che mi ispirino tanto ma...cazzarola (si può dire cazzarola in un blog? Va bé, ormai ho fatto) questo racconto mi ha emozionata quanto un romanzo!
RispondiEliminaLa scena iniziale, il fondoschiena da rissa, mi ha fatta sghignazzare a volumi imbarazzanti! Questo pezzo va diritto nelle mie preferenze (e i racconto li ho letti quasi tutti, mi manca solo Regina Pozzati).
Complimenti all'autrice, scrive davvero benissimo. Ci sono altri suoi pezzi in giro? Magari quelli meno erotici (non amo il genere erotico, però lei scrive da farmi impazzire). M.C. Robb scrivi altre commedie romantiche, ti prego!!!
Grazie Ery! Arcicontenta ti sia piaciuto il mio cowboy. Finora ho scritto soprattutto erotici a parte altri racconti apparsi in questo blog. Il futuro è ancora nebuloso, chissà. Di certo mi sono divertita da pazzi a scrivere questo racconto. :) :) <3
RispondiEliminaQuesto è stato l'ultimo dei racconti finalisti che ho letto.
RispondiEliminaScelto per ultimo ..non so forse per la copertina..con in testa già il mio voto a chi sarebbe andato. SORPRESA!!!!..Punto e a capo!!!
Mi è piaciuto tantissimo,scorrevole,scritto per quelle come me che quando si dedicano alla lettura vogliono un libro che le inchiodi.Bello, complimenti!!!Ha catturato il mio voto in assoluto e ora la difficoltà sta nel secondo voto e la scelta è difficile.Auguri a te come a tutte e non vinca la migliore(perchè siete state tutte molto brave) ma vinca..vinca.....perchè dovere scegliere???
CHE BELLO!!!!!!!! un racconto pieno di spudorato, schietto riscatto ma che meriterebbe un bel continuo........magari col traditore che ci riprova e con la mogliettina che cerca di sedurre il + bel vendicatore(ballerino/cantante/cavaliere/manager) moderno che si possa immaginare.....uomo che tra l'altro APPREZZA le ROTONDITà (FINALMENTE) salutiiiiiiii
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