CHADI di Flumeri & Giacometti



A Omar J. 

“Cade una nespola sull’erba bagnata – nostalgia. Chadi Jilal.”
Leggo e rileggo l’haiku come ad assaporarlo, mentre l’aereo comincia la discesa su Casablanca. Quelle poche parole mi affascinano, anche se non so dire con esattezza perché. Forse perché scritte da un ragazzo marocchino in una lingua che non è la sua? O perché mi colpisce la similitudine tra la nespola caduta e la nostalgia? O perché hanno un suono che in qualche modo trasuda sensualità? Probabilmente per tutti questi motivi. 
Sono molto curiosa di ciò che mi attende a Rabat. L’invito di Meryam è arrivato proprio quando stavo per accettare di trascorrere le vacanze in Sardegna a casa di amici. Mi chiedeva se fossi interessata a tenere il mio workshop sugli step base della narrazione all’interno di un seminario estivo, frequentato dai suoi studenti del master d’italiano.
Meryam è una professoressa marocchina e insegna italiano all’università Mohammed V di Rabat. Ci siamo conosciute a Roma ad un convegno sulla lingua italiana come ponte fra le culture e abbiamo subito simpatizzato. Una volta saputo che facevo l’editor e che tenevo corsi di scrittura creativa, mi aveva detto che sarebbe stata contenta di invitarmi in Marocco per lavorare con i suoi studenti. Avevo pensato che fossero quelle cose che si dicono sull’onda dell’entusiasmo del momento e che poi non si concretizzano, e invece ecco arrivare la sua proposta: cinque giorni a Rabat su invito ufficiale dell’Università Mohammed V. Naturalmente a loro spese.
Come non accettare? Nel frattempo, per darmi un’idea della preparazione dei ragazzi, Meryam mi ha mandato questa piccola antologia di poesie composte da loro. Mi ha stupito il livello dell’italiano e alcune mi sono piaciute, ma questo verso apparentemente semplice di Chadi Jilal è qualcosa di diverso. Sono curiosa di conoscere l’autore. Mentre cerco di immaginare come possa essere, l’aereo tocca terra. Poi rulla sulla pista.
Guardo stupefatta dall’oblò. Com’è possibile? Siamo immersi nella nebbia! Non sono mai stata in Marocco, ma immaginavo sole a picco, colori vividi, caldo desertico. E invece…
Una volta scesa dalla scaletta, la situazione non migliora. Non si vede praticamente nulla, neanche fossi atterrata nel bel mezzo della Pianura Padana. E poi mi viene in mente la scena dell’addio all’aeroporto tra Humphrey Bogart e Ingrid Bergman proprio in “Casablanca”: in effetti, a ripensarci, c’era una nebbia che si tagliava con il coltello. Spero che non sia così anche a Rabat, mi dico mentre cerco di individuare l’autista dell’università tra i tanti personaggi muniti di cartello in attesa all’uscita dei passeggeri.
Finalmente vedo il mio nome: M.me Isabella Rocca. Ci intendiamo praticamente a gesti. Il mio francese non è granché e il suo mi sembra quasi peggio, ma riesco a capire che mi accompagnerà in albergo e che  la mia ospite verrà poi a prendermi per cenare insieme.
Il tragitto da Casablanca a Rabat è piuttosto monotono, sarà per il paesaggio brullo e piatto, punteggiato di costruzioni a forma di parallelepipedo tutte uguali e anche per la musica diffusa dal vecchio apparecchio radio e che, in effetti, mi sembra più una litania ripetuta all’infinito che una musica vera e propria.
Quando entriamo a Rabat, tutto improvvisamente cambia. Al primo impatto mi colpisce il verde. Palme, cespugli, arbusti in fiore. Un altro mito sfatato. Poi le grandi mura antiche che circondano la città, i colori, gli edifici affastellati gli uni sugli altri, un disordine variopinto e affascinante e infine uno spettacolare tramonto sul mare. Resto senza fiato.
Ma non ho il tempo di assaporare le emozioni, perché la vettura si districa tra le altre, tra i pedoni che sembrano tentare il suicidio a ogni passo, tra le bancarelle di ogni tipo e alla fine mi deposita di fronte a un’immensa costruzione bianca ipermoderna sulla quale campeggia l’insegna “Hotel Rabat”. Cerco di esplicitare la mia perplessità, ma l’autista, con gesti insistenti, mi fa cenno che siamo arrivati. Non mi resta che scendere ed entrare.
Una volta dentro, resto basita. Davanti a me c’è un immenso atrio dal pavimento di marmo scintillante, circondato da colonne anch’esse di marmo a cui si alternano palme altissime e cactus e divani di pelle candida. Al centro una fontana, sullo sfondo un immenso schermo al plasma e da un lato un pianoforte a coda. Intorno piani e piani di balconate circolari fiorite su cui si aprono le porte delle stanze, il tutto ricoperto da una cupola di vetro lavorato. Insomma, l’idea che noi abbiamo delle Mille e una Notte mescolata a un design occidentale post moderno.
Mi avvicino incerta alla reception. Possibile che l’Università mi abbia davvero prenotato una stanza in un posto del genere? Possibile. Faccio appena in tempo a farmi una doccia in un bagno che, come la stanza, è all’altezza del resto quando suona il telefono interno e vengo avvisata che Meryam è arrivata e mi aspetta nella hall.
Poco dopo ci abbracciamo e la ringrazio con entusiasmo.
«Davvero, Meryam, non c’era bisogno di un albergo a cinque stelle!»
Mi sorride.
«Per noi l’ospitalità è sacra, Isabella. Sono felice che ti piaccia.»
Poi passiamo a parlare dei ragazzi, di come saranno organizzate le giornate del workshop, delle loro aspettative. Sono emozionata e non glielo nascondo. È una  splendida opportunità e mi auguro che sia una bella esperienza per tutti noi.
«Ne sono certa» mi dice lei nel suo italiano praticamente perfetto. «E adesso andiamo a cena, sarai stanca e domani ti aspetta una giornata faticosa.»
Non appena metto piede nel locale che ha scelto, mi sento trasportata in un mondo totalmente diverso. Qui niente mescolanze, nessuna concessione al gusto occidentale. Luci tenui diffuse dalle lampade di ferro battuto che sembrano ricamate, divanetti bassi di pelle lavorata e lunghi tavoli di legno scuro, tendaggi di stoffe ricamate, una fontana che mormora in un angolo, piatti dai bellissimi disegni dipinti a mano.
All’ingresso un gentilissimo cameriere ci porge delle salviette poi ci indica un catino di ceramica e, con una brocca, ci versa acqua sulle mani. Un rito irrinunciabile prima dei pasti, mi spiega Meryam, perché è previsto che molte pietanze si mangino, appunto, con le mani.
Una volta sedute, ci viene servito del tè verde in una teiera dal beccuccio ricurvo, poi arrivano una serie di piattini con verdure cotte al profumo di spezie, accompagnate da pane fresco.
«Antipasto tipico marocchino» mi dice Meryam sorridendo.
Assaporo con gusto ed esprimo con entusiasmo il mio apprezzamento.
«Ho pensato che ti sarebbe piaciuto mangiare in un posto non per turisti» mi spiega e io mi dichiaro assolutamente d’accordo con lei.
Mentre ci viene servito un fantastico cous cous al pesce, ricoperto di verdure e condito con brodo aromatico, le faccio delle domande sui ragazzi, circa una ventina, che incontrerò il giorno dopo.
«Hanno un’ottima padronanza dell’taliano» le dico. «C’è un haiku che mi ha colpito più degli altri» aggiungo.
«Quale?» mi chiede.
«Quello scritto da Chadi Jilal.»
Una strana espressione compare sul suo volto levigato, incorniciato dallo  hijab, il velo dal quale non si separa mai.
«Sì, Chadi» dice pensierosa.
La guardo interrogativa, aspettando che si spieghi. Lei ci pensa un attimo, come se stesse scegliendo le parole adatte.
«Chadi non è uno studente come tutti» mi dice alla fine. «È più grande degli altri e ha una storia…particolare.»
Le sue parole non fanno che aumentare la mia curiosità. Ma mi sembra scortese insistere. Lei scuote la testa, sembra aver preso una decisione.
«Non voglio che tu abbia delle idee preconcette, Isabella. Perciò non ti dirò altro. Preferisco che tu ti faccia un’opinione da sola.»
D’accordo.  Dovrò aspettare domani.  Mi consolo con deliziosi pasticcini ripieni di mandorle e noci, profumati con acqua ai fiori d’arancio.
«Non potevo desiderare un incipit migliore!» le dico sorridendo. E lo penso davvero.
Continuo a pensarlo anche la mattina successiva, quando l’autista mi deposita di fronte all’ingresso di quello che, a prima vista, sembra un grande giardino, dove lungo i vialetti curati sorgono piccole costruzioni bianche tutte uguali, separate da aiuole fiorite. Vedo Meryam venirmi incontro con il suo sorriso pieno di calore.
«Benvenuta!» mi accoglie.
«Un posto splendido» commento ammirata.
Mi guarda con orgoglio.
«Questa è la sede della Scuola Normale Superiore del Dipartimento d’Italiano dove insegno» mi spiega. «Gli studenti che fanno il master studiano qui.»
La seguo incantata attraverso i viali, negli occhi una festa di colori: il blu cobalto del cielo, il verde intenso delle piante, il bianco accecante delle costruzioni. Si ferma di  fronte a una delle porte e la apre. «Siamo arrivate».
Nella grande aula non c’è nessuno. Preparo il materiale, sistemo il computer, verifico gli altoparlanti, controllo le slides… ma ancora non si vede nessuno. Allora esco e noto che nel viale ci sono piccoli gruppi di studenti, che però non accennano ad entrare.
«Dagli tempo» mi dice  Meryam. 
Torno nell’aula e finalmente, circospetti, i ragazzi e le ragazze cominciano a entrare. Qualcuno fa un timido sorriso. Qualcun altro mi squadra apertamente. Sono molto diversi tra loro, alcuni scuri di pelle, quasi neri, altri olivastri, altri chiarissimi. Le ragazze mi colpiscono per la diversità di abbigliamento: chi indossa il velo e chi no, chi è in jeans e maglietta, chi nel tradizionale chador nero, chi è truccata e chi fa di tutto per occultare la propria femminilità.
Quando sono seduti, Meryam mi presenta e io, dopo aver detto alcune cose di me e del mio lavoro, comincio a spiegare in che modo,  una volta  che  gli avrò fornito gli elementi base per la costruzione di una storia, si metteranno all’opera in piccoli gruppi per scriverne una loro. Che poi revisioneremo tutti insieme. Mi seguono con attenzione.
«Ci sono domande?» chiedo.
Ma nessuno si fa avanti. È arrivato il momento di rompere il ghiaccio. Spiego quanto sia importante cogliere la realtà con tutti i sensi, osservare, percepire, ascoltare ciò che il mondo circostante e le persone ci trasmettono. E mi metto in gioco.
«Per esempio» dico «osservatemi con attenzione e datemi una descrizione di me sincera, senza filtri. Qui nessuno si offende, è solo un esercizio. Vi dò quindici minuti.»
Dopo lunghi attimi di perplessità, uno dopo l’altro cominciano a scrivere, prima incerti, poi prendendo sempre più confidenza. Passato il tempo, chiedo se qualcuno vuole leggere. Nel silenzio generale, da uno dei banchi in fondo si alza senza esitazione una mano. Mi avvicino. Il proprietario della mano è un ragazzo magro ma dal fisico atletico, la pelle ambrata, i tratti decisi, gli occhi scuri e   intensi. Quando annuisco e gli faccio cenno di procedere, per un attimo mi incanto sulle labbra piene e sensuali che si schiudono su una chiostra di denti bianchissimi mentre, con una voce bassa, profonda e dall’accento indefinito, con sfumature di francese e spagnolo e qualche durezza, ma in un italiano fluido e praticamente perfetto, legge:
«Di colpo mi imbatto in questa donna troppo giovane ma determinata, dai capelli castano chiari,  dagli occhi verdi come il suo blusone. Italiana, romana, dice che è venuta per insegnarci a scrivere. Cerco di nascondere la mia perplessità. Di colpo Isabella, questo è il suo nome, si pianta in mezzo all'aula e dice che dobbiamo descriverla, e la prima cosa che mi viene in mente coraggiosa ‘sta tizia, io non mi sarei mai prestato ad essere descritto da una marea di estranei. Isabella fa l’editor, dice che ama lavorare nella sua cucina, gesticola mentre parla, l'associazione di questi elementi produce un enorme cliché nella mia mente, italiana che ama la cucina gesticola mentre parla e dall’atteggiamento e dai modi sicuramente femminista. Isabella dice che la sua famiglia è numerosa e che non ha un gran rapporto con i suoi fratelli; colgo la palla al balzo e, mosso da una specie di sadismo puerile, insisto: di dov'è la sua famiglia, mezzo toscana mezzo veneta, gente di mare, dice, comincio ad empatizzare ma ancora non la riesco a descrivere.»
 Mentre io resto senza parole, un applauso spontaneo segue l’incredibile performance del ragazzo, che mi fissa con un atteggiamento di sfida e una luce ironica negli occhi.
«Complimenti» dico, ricambiando lo sguardo senza abbassare il mio. «Una proprietà di linguaggio invidiabile. Mi dici il tuo nome?»
Un sorriso lento e sensuale, poi:
«Chadi. Chadi Jilal.»
Avrei dovuto immaginarlo. A guardarlo con attenzione si percepisce una nota stonata rispetto al contesto: quello che continua a fissarmi con un’espressione sfrontata è un uomo, non un ragazzo. Lo dicono le piccole rughe intorno agli occhi, la piega dura della bocca, una spruzzata di bianco tra i capelli folti e nerissimi.
«Complimenti Chadi» ripeto, poi con uno sforzo distolgo lo sguardo da quegli occhi neri che hanno catturato i miei e sembrano non volerli lasciare andare e mi rivolgo agli altri: «Allora, qualcun altro? Coraggio… »
Timidamente, cominciano ad alzarsi altre mani. I ragazzi e le ragazze leggono, con qualche incertezza, in un italiano che non è come quello di Chadi ma di buon livello. Percepisco il feeling che comincia a crearsi. È sempre un momento emozionante quando questo avviene e qui lo è in modo particolare. Sento che sono riuscita ad agganciarli e che ora possiamo procedere insieme.
Ma c’è un interferenza che continua a sovrapporsi e che avverto sempre più forte man mano che il workshop procede. Lo sguardo di Chadi su di me. Intenso. Penetrante. Arrogante. Anche se non è più intervenuto, anche se sta in disparte, quasi a marcare fisicamente la sua distanza dagli altri, trincerato dietro la sua espressione indecifrabile, il suo sguardo non mi lascia per un momento. Me lo sento addosso. Me lo sento dentro. E devo fare un grande sforzo per concentrarmi, per ignorare le sensazioni che mi suscita.
Arriva il momento della pausa. Alcuni ragazzi escono per chiacchierare tra loro fuori dell’aula, altri mi circondano per farmi domande. Chadi mi passa davanti senza una parola, esce e si accende ostentatamente una sigaretta di fronte alla porta dell’aula. Non fa nessun tentativo di avvicinarsi, di parlarmi. Lo ammetto, ci rimango male. Mi aspettavo un commento, una domanda, qualcosa insomma. Invece niente. Il suo atteggiamento ironico e distaccato contrasta con l’intensità del suo sguardo, che continuo a sentirmi addosso. D’accordo. Non sarò io a costringerlo. 
La giornata si rivela faticosa ma stimolante, interessante e coinvolgente. I ragazzi sono curiosi, partecipano, accettano di mettersi in gioco. Chadi no. Dopo l’exploit iniziale, è rimasto chiuso nel suo isolamento. Quando concludo con l’invito  a ritrovarci domani, è il primo ad alzarsi. Pochi istanti dopo lascia l’aula. Senza salutare. Cerco di mascherare la mia delusione e di concentrarmi sui feed back positivi che ho ricevuto dagli altri studenti. Meryam è entusiasta.
«Ero certa che avreste lavorato bene insieme» dichiara.
«I tuoi ragazzi e le tue ragazze sono davvero in gamba e il loro italiano è ottimo» mi complimento con lei.
Meryam sorride orgogliosa. «È una grande soddisfazione sentirtelo dire, Isabella.»
«È la verità» rispondo sincera. «Devo ammettere che il pezzo scritto da Chadi mi ha davvero colpito» aggiungo, mentre spero che questa volta lei non sia così reticente a dirmi qualcosa su di lui. Invece mi rendo conto che è di nuovo a disagio.
«Senza dubbio Chadi ha un’intelligenza e delle capacità fuori dal comune» risponde cauta, senza sbilanciarsi.
«In effetti è parecchio più grande degli altri studenti… come mai è ancora all’università?» rilancio.
«Non sappiamo molto di lui, solo che ha fatto diversi lavori e poi ha ripreso a studiare.» Meryam tormenta con le dita il bordo dello hijab, «la sua è una famiglia importante ma Chadi non… insomma, è orgoglioso, non vuole trattamenti di favore, ci tiene a essere considerato solo per se stesso.»
La guardo perplessa.
«E cosa c’è di male? Anzi, mi sembra che gli faccia onore.»
Meryam distoglie lo sguardo.
«Sì, certo, ma, come ti ho detto, lui non è una persona facile. Ha delle idee…» si blocca. «Scusa, non voglio dare giudizi» riprende con un’espressione imbarazzata.
Capisco che è meglio lasciar stare l’argomento, non voglio metterla a disagio con le mie domande che evidentemente sono inopportune.
«Scusami tu, avrò occasione di parlarne con lui, se vorrà» chiudo diplomaticamente il discorso, pensando che, visto l’atteggiamento di Chadi, non sarà la cosa più facile del mondo.
Meryam sorride e appare sollevata.
«Sì, penso sia meglio così.»
Passiamo a parlare di altro, ma io non riesco a levarmi dalla testa lo sguardo di Chadi, i suoi occhi liquidi, intensi, che sembrano volermi entrare dentro, cercare quel contatto che si è creato con le parole con cui mi ha descritto, cogliendo in poche righe degli aspetti nascosti di me e, per un attimo, facendomi sentire nuda. Non ci riesco neppure quando mi infilo tra le lenzuola fruscianti della mia lussuosa camera d’albergo, stanca, sì, ma percorsa da brividi d’aspettativa che, devo essere sincera, non dipendono solo dalla nuova sfida da affrontare e da vincere con questo workshop ma dalla sfida  che mi hanno lanciato quegli occhi che mi si sono piantati  dentro e ci sono rimasti.

 La mattina successiva, mentre attraverso i viali dell’università in un bagno di sole e di colori intensi come ogni cosa qui – volti, sapori, profumi, luce – man mano che mi avvicino all’aula del workshop sento crescere dentro di me, sempre più acuto, il senso di aspettativa. Come se i miei sensi si fossero sintonizzati con quello che mi circonda e vivessero tutto con la stessa intensità.
Quando mi vedono arrivare, questa volta i “miei” studenti mi vengono incontro, mi salutano, mi rivolgono domande, sembrano ansiosi di riprendere il lavoro interrotto. Ma Chadi non c’è. Mi guardo intorno, prima fuori, poi nell’aula, lo cerco tra i volti di tutti quelli che prendono posto. No, non c’è. Inutile negarlo, sono delusa. E non solo delusa. Ma devo concentrarmi sul workshop, sono qui per questo, giusto? Non per distrarmi con sciocche fantasticherie. 
Oggi i ragazzi devono dividersi in gruppi; ogni gruppo proporrà un’idea di storia e si voterà per quella che li coinvolge e li interessa di più. I vari gruppi poi lavoreranno ognuno in autonomia alla costruzione della stessa storia prescelta, seguendo le mie indicazioni sugli step narrativi, e alla fine si confronteranno con gli altri.
Sto per chiedere ai ragazzi di formare i gruppi, quando Meryam mi suggerisce che sarà meglio farlo noi. Un po’ mi stupisco ma sono ospite e mi sembra scortese contraddirla. Li organizza rapidamente e con efficienza. Ho appena cominciato a spiegare come procederemo, quando la porta si spalanca ed entra Chadi. Indossa dei jeans consumati che sottolineano le gambe lunghe e snelle e un giubbotto di pelle nero, che mette in risalto le spalle larghe, su una t-shirt sbiadita dove si legge “Se per vivere devi strisciare, alzati e muori. Jim Morrison.”
«Mi scuso per il ritardo» mi dice fissandomi con quegli occhi magnetici e profondi.
Perché ho la sensazione che, malgrado le parole di cortesia, non si stia scusando affatto?
«D’accordo Chadi, stavamo per cominciare. Scegli un gruppo e siedi, grazie» rispondo con un tono un po’ troppo secco.
Lui ignora Meryam che gli indica il gruppo meno numeroso e si siede in un altro, scrollando lievemente le spalle. Lei sta per dirgli qualcosa, ma poi rinuncia, mentre Chadi mi scocca un sorrisetto ironico. Faccio finta di niente, anche se mi riesce difficile, perché di nuovo sento i suoi occhi su di me, come se mi provocassero e al tempo stesso mi accarezzassero e mi chiedessero una risposta a una domanda che devo fingere di ignorare.
Spiego di nuovo che devono individuare un argomento che li interessa e abbozzare, sulla base del lavoro fatto il giorno precedente, un’idea di storia, ovvero incipit, protagonisti, conflitto principale e finale. So che non è facile, ma sono fiduciosa.
Comincio a girare tra i vari banchi, rispondo alle domande, dò qualche suggerimento. Mi soffermo anche vicino a Chadi. Lui sta scrivendo, gli altri si limitano a guardare e ad annuire.
«Tutto bene?» chiedo anche a loro.
Chadi solleva lo sguardo su di me e di nuovo i suoi occhi catturano i miei.
«Nessun problema, professoressa.» È una mia impressione o c’è una sfumatura ironica nel modo in cui pronuncia l’ultima parola?
«Veramente dovrebbe essere un lavoro di gruppo.» Non sono riuscita a trattenermi.
«Certo professoressa.» Adesso sono sicura che mi stia prendendo in giro.
I nostri sguardi si sfidano per qualche istante. Gli altri ragazzi non intervengono.
Qualcuno mi chiama dalla parte opposta dell’aula. Un accenno di sorriso si disegna sulle belle labbra di Chadi.
«Hanno bisogno di aiuto» dice beffardo con quella voce un po’ roca dall’accento indefinito. 
Mi volto senza rispondere e raggiungo l’altro gruppo. Una polemica sarebbe inutile e controproducente. Cerco di mascherare l’irritazione e da quel momento evito accuratamente di tornare vicino a Chadi, che continua a scrivere da solo, senza interpellare gli altri.
Quando il tempo a loro disposizione è finito, cominciamo a leggere. Ci sono spunti di vario tipo: storie familiari, gialli, storie di violenza, storie intimiste. Naturalmente bisogna lavorarci, ma il materiale c’è.
Chadi legge per ultimo. La sua voce ancora una volta mi cattura. E anche quello che legge. La storia di un bambino e del suo esclusivo rapporto con il padre, il suo idolo, il suo unico punto di riferimento. Della separazione dovuta a un evento tragico e inatteso. Del tunnel che il bambino, poi ragazzo, imbocca fino a diventare un killer prezzolato. Una storia cupa, senza speranza. E senza lieto fine. Quando finisce di leggere, mi fissa in attesa di un commento.
Ho la gola serrata, vorrei trovare le parole giuste ma non ci riesco. Perché dentro quella storia, non so come, non so perché, ma c’è lui. Ci sono la sua sofferenza, la sua rabbia. Faccio un profondo respiro e cerco di tornare ad essere l’insegnante distaccata che dovrei.
«Grazie Chadi» mi limito a dire. Lui socchiude gli occhi e resta impassibile. Allora mi giro verso gli altri: «E adesso, ragazzi, avete ascoltato tutte le storie.» Vado verso la lavagna e le riassumo brevemente numerandole una per una. «Ora votate quella che vi è piaciuta di più scrivendo il numero su un foglietto. La storia che avrà più voti sarà quella a cui lavorerete nei prossimi giorni.»
Nell’aula si leva un brusio confuso. Colgo lo sguardo preoccupato di Meryam. Poi quello ironico di Chadi. Non capisco quale sia il problema.
«Su ragazzi, scrivete la vostra preferenza.»
Ma, quando raccolgo i fogli, mi accorgo che c’è chi ha messo più numeri, chi nulla, chi ha copiato pezzi di quello che ho scritto. Sono molto perplessa. In fondo ho chiesto una cosa semplicissima e la loro comprensione dell’italiano mi è sembrata molto buona… Forse hanno bisogno di una pausa.
«Ci fermiamo per un quarto d’ora» annuncio.
Meryam mi dice che ne approfitta per un incontro con alcuni colleghi. Poi mi suggerisce di essere io a scegliere la storia tra quelle proposte dai ragazzi. «Sarebbe più semplice» mi dice. E di nuovo mi stupisco, ma sono a disagio all’idea di contraddirla sottolineando che la scelta deve essere loro.
È tempo di uscire a prendere un po’ d’aria. E di fare qualcosa che non dovrei, ma di cui sento di aver bisogno: fumare una sigaretta. Tengo sempre un pacchetto nella borsa, anche se in teoria ho smesso. Per le emergenze, diciamo così. Mi appoggio al muro, prendo la sigaretta e frugo alla ricerca di un accendino. Niente, non ce l’ho, accidenti. Proprio in quel momento una mano si materializza di fronte al mio viso e un attimo dopo brilla una fiammella che si protende verso la mia sigaretta.
«Fuma professoressa?»
Accendo e incontro il lampo scuro e ironico degli occhi di Chadi.
«Grazie.»
«De nada.»
La curiosità ha il sopravvento.
«Posso chiederti quante lingue parli?»
«Cinque. Arabo, francese, spagnolo, italiano e inglese, quest'ultimo però non lo domino bene.» Lo guardo colpita. «È una cosa abbastanza comune in Marocco» aggiunge con una scrollata di spalle.
«In Italia no di certo» dico per mascherare la sorpresa e il piccolo brivido che mi ha provocato l’uso del termine “dominare”.
«Mi piace l’Italia. Ci sono stato per un po’.»
Non aggiunge altro. Ma io voglio sapere di più.
«Dove?»
«A Siena. Ho studiato all’università per stranieri. Poi ho preso un master a Barcellona.»
«E adesso ne prenderai un altro. E poi? Cosa pensi di fare, oltre a collezionare master?» cerco di condurre la conversazione su un binario di scambio impersonale tra insegnante e allievo, anche se i  nostri sguardi, la vicinanza fisica, il linguaggio dei nostri corpi raccontano una storia diversa.
Resta in silenzio per alcuni istanti.
«Non ne ho idea.»
Sono totalmente spiazzata.
«Vorresti scrivere?»
Scrolla le spalle in quel suo modo a metà tra l’ironico e il distaccato.
«Non lo so, forse. O magari vorrei insegnare letteratura italiana. Molti stranieri flirtano con la vostra lingua. È la lingua della bellezza, ha un suono così sensuale, quasi erotico direi…» pronuncia le ultime parole con intenzione, mentre il suo sguardo mi fissa la bocca, poi scende piano, sfacciato, come a volermi spogliare e accarezzare al tempo stesso. Ho le guance in fiamme e mi maledico per questo.
«L’ho messa in imbarazzo?» mi fissa con un’espressione fintamente innocente.
«Assolutamente no.» Sappiamo tutti e due che sto mentendo ma non gli darò la soddisfazione di ammetterlo e di cedere alla sua provocazione.
«Perché hai scelto quella storia?»
Adesso è lui a irrigidirsi.
«È una storia come un’altra» replica secco.
E anche in questo caso sappiamo tutti e due che sta mentendo.
Ma insistere significa entrare in un campo troppo intimo, troppo personale. La prendo alla larga.
«Perché non ti sei confrontato con  i ragazzi del tuo gruppo?»
Stavolta il sarcasmo nella sua voce non è affatto mascherato.
«Perché confronto è una parola  sconosciuta  da noi» ribatte «come la votazione che lei ha richiesto. E infatti ha visto come è finita.»
Resto senza parole.
«Che vuoi dire?»
«Che non sanno scegliere. Non siamo abituati a scegliere. Qui il voto non ha lo stesso significato che ha da voi. Il Marocco è una dittatura» conclude con voce bassa e carica di rabbia.
Lo fisso allibita.
«Ma come? Io sapevo che è una monarchia illuminata, che questo è il più laico tra i paesi islamici…»
Scuote la testa e mi guarda come se fossi una bambina scema.
«Palle. Questo è un paese dove uno impara a stare al suo posto fin da piccolo, dove ogni dimostrazione di individualismo, di personalità è vista male» afferma amaro. «Per questo stavo bene in Italia, mi sentivo meno straniero.»
«Ma allora perché non vai via?» la domanda mi è venuta spontanea.
Pianta gli occhi dentro i miei e mi sembra di percepire le sue emozioni: rabbia, sofferenza, passione.
«Perché amo questo fottuto paese.»
Avvicina il viso al mio e il suo alito caldo mi sfiora come il fuoco che sento bruciargli dentro. 
«Uno scrittore spagnolo parlava di quello che secondo il suo parere era il concetto di patria. Diceva, cito a memoria, qualche panorama, qualche odore un paio di persone care… Lui lo diceva in modo più poetico.» Mi fissa con arroganza. «È un atto di fede, non credo che lei capisca.»
Sono spiazzata, confusa ma anche irritata dal suo tono. Reagisco di pancia.
«Puoi smettere di darmi del lei? Abbiamo più o meno la stessa età.»
Sorride sarcastico.
«Ma lei è la teacher, la professoressa. N’est ce pas?»
Certo. E come tale devo comportarmi.
«Torniamo dentro» gli dico «l’intervallo è finito.»

Sono passati altri due giorni. Ne resta solo uno, poi il workshop  si concluderà.
I ragazzi hanno lavorato con grande impegno e, malgrado le differenze culturali, i momenti di difficoltà, gli interventi di Meryam per tenere sotto controllo i miei comportamenti troppo “democratici”, sono riusciti a costruire, insieme, un  abbozzo di  trama.
Quella scelta non è stata la storia di Chadi. La votazione è stata indirizzata da Meryam verso un argomento meno problematico. Lui non è sembrato particolarmente dispiaciuto. Ha continuato a venire, ad ascoltarmi mentre i suoi occhi mi entravano dentro in un modo che più di una volta mi ha fatto arrossire, ma senza quasi partecipare al lavoro degli altri. Però l’ho visto scrivere. Prendeva appunti? Non saprei dirlo. Non abbiamo più avuto occasione di parlare da soli.
Per questo, una volta terminata la giornata, quando apro il computer per controllare le mail e la mia pagina fb, mi stupisce molto trovare, insieme a quelle di alcuni degli altri ragazzi, la sua richiesta di amicizia.
C’è anche un messaggio privato: “Professoressa, volevo dirle che sono stati i giorni più belli da quando sono alla facoltà d’italiano. Mi è tornata la voglia di scrivere. Grazie.”
Sono stupefatta. Non so cosa rispondere. Ma lui vedrà che ho letto il messaggio. Digito: “Ne sono felice, Chadi.” Anche se sono altre le cose che vorrei dire. Ma, come ha sottolineato e come continua a ricordarmi lui, io sono la professoressa.
Proprio per questo non dovrei fare quello che sto per fare. Ma la tentazione è troppo forte. Apro la sua pagina facebook. Dopo avergli dato l’amicizia ho accesso al suo profilo, ai suoi post, alle sue foto. Scorro le pagine, vado indietro negli anni. Frugo nelle pieghe della sua vita.
Link a brani di rap duro, di protesta, aggressivo, violento.  Compagni di bevute. Donne, ragazze: italiane, spagnole, francesi. Tante.
Una gli scrive: “Quello che ricordo di Barcellona è il whisky e il tuo letto.” 
Un’altra gli posta l’immagine di loro abbracciati su una spiaggia tropicale.
Sotto la foto di un’altra lui commenta: Sei come ascoltare l'estate di Vivaldi in pieno inverno. Cazzo sorridi cretina non era mica un complimento.”
Arrogante. Esibizionista. Provocatorio.
“Agli amici ultimamente invece di chiedere come va, preferisco porgere la domanda seguente: quanto fa schifo la vostra vita?”
Ribelle. Cinico. Disincantato.
Ma anche romantico e malinconico.
Tra citazioni di Bukowski e dell’uomo che non sapeva piangere di Johnny Cash, c’è   Alda Merini, la grande poetessa italiana, più volte internata in un ospedale psichiatrico.  
Apro la sigaretta/come fosse una foglia di tabacco/e aspiro avidamente/l'assenza della tua vita./È così bello sentirti fuori,/desideroso di vedermi/e non mai ascoltato./Sono crudele, lo so,/ma il gergo dei poeti è questo:/un lungo silenzio acceso/dopo un lunghissimo bacio.

Così mi piace ricordarla” scrive Chadi.
Leggo e rileggo quella poesia.  Ed è come se gli toccassi il cuore dopo essere entrata nella sua testa. Una sensazione incredibilmente forte. Devo smettere. Devo ricordarmi chi sono, qual è il mio ruolo qui. Ma continuo a scorrere le pagine e improvvisamente lo sguardo mi cade sulla foto in bianco e nero di un uomo dallo sguardo diretto e franco, il volto bello e spigoloso. Un uomo che sembra la copia di Chadi con una ventina d’anni in più. Sotto qualcuno ha scritto:
 “Chadi, oggi è l’anniversario della morte di Hassan, ci manca, non dimenticheremo mai il nostro compagno e maestro.”
Sento di aver scoperto qualcosa di importante, la chiave che mi mancava. Lascio facebook e comincio una ricerca su Google.
Alla fine trovo l’articolo di un giornale francese di parecchi anni fa. Racconta della morte sospetta in carcere di uno degli oppositori del regime marocchino: Hassan Jilal, medico, intellettuale, personalità nota in Europa, soprattutto in Spagna e Francia, per i suoi studi e le sue battaglie per la democrazia in Marocco. Lascia la moglie e due figli adolescenti: Zahra e Chadi.
In quel momento vedo apparire il pallino verde che mi segnala che Chadi è online. Poco dopo compare un post.
“Osservo la sua faccia, l'espressione dei suoi occhi, i suoi zigomi contratti
malgrado sia così bianca ha una pelle splendida. Non ha né fossette né i capelli a caschetto, non ha nessun neo, almeno sul viso
e neanche sul resto del corpo, ci avrei scommesso, da li a poco lo avrei….
Una risatina. Un tinnire lieve ed acuto. La donna che tinnisce.
 drin…drin….
La amavo ed avevo paura di romperla.
È che non posso smettere di vederti come uno straniero. Ed io non voglio che tu smetta di vedermi come uno straniero.”
 Lo so che forse mi sto facendo un film, ma sono sicura che quel post sia per me.

«Sapevo che lo avresti fatto. Per questo ti ho chiesto l’amicizia.»
Gli ho detto che ho guardato la sua pagina fb. E questa è stata la risposta.
Mi sorride e, per la prima volta, mi dà del tu. Arrogante, come sempre. Ma ha ragione.
Il workshop si è concluso. Ho salutato gli altri ragazzi e Meryam. Chadi mi ha aspettato nel viale fuori dell’aula. La solita sigaretta tra le labbra. Me ne ha offerta una. L’ho accettata.
«Sai,» mi dice «in Marocco non si incontrano tante donne come te. Donne che hanno vissuto, che sono state lavorate dalla vita…»
Mi chiedo se sia un complimento. L’espressione dei suoi occhi mi dice di sì.
«Le ragazze, qui, conservano un certo incanto, una certa grazia» prosegue Chadi «ma subito uno si annoia, il loro gioco della seduzione è tutto un bluff, i tempi si dilatano all’infinito e quando la raggiungi e lei cede, scopri che non c’è niente. Solo montagne d’insicurezze. Sarebbe anche tenero, forse… ma non è quello che voglio» e adesso sono i suoi occhi a dirmi ciò che vuole. 
«Non ti sembra di generalizzare?» gli chiedo, un po’ a disagio per quelle parole e ancora di più per quello che non dice.
Si stringe nelle spalle ma i suoi occhi non mi lasciano un momento.
«Può darsi. Ma non fraintendermi quando parlo di donne. Non le considero una categoria. E forse sono più femminista io di tante femministe» ironizza. Poi cambia argomento. «Allora, hai trovato qualcosa di interessante sulla mia pagina?»
«Ho trovato quel post su tuo padre» dico a voce bassa.
La sua espressione diventa dura, amara.
«E…?»
I suoi occhi frugano nei miei come io ho frugato nella sua vita.
«Ho letto quello che gli è successo» mormoro. Poi distolgo lo sguardo.
Lui allora fa una cosa che non mi aspetto. Mi solleva il mento con due dita e mi costringe a fissarlo in quegli occhi che non hanno bisogno di parole.
«Vuoi sapere la verità?» mi chiede con quella voce bassa e sensuale che sembra una carezza. «Sono stato assente per un bel po’, Isabella. Senza legami reali. Vivevo senza pensare. Facevo quello che mi diceva l’istinto. Bevevo. Scopavo. E poi di nuovo. Scopavo e bevevo.»
«E adesso?» mormoro con una voce che quasi non riconosco. Ma è la mia. Come è mia la pelle che brucia al tocco della sua mano. E miei i brividi che la sua voce mi fa scorrere lungo la schiena, come se fossi attraversata da cavi elettrici.
Mi sfiora il viso. Le labbra.
«Se vuoi saperlo, devi venire con me.»
Riesco solo a dire:
«E la professoressa?»
Il suo sorriso è un lampo bianco, abbagliante.
«Il workshop è finito. Adesso giochiamo alla pari, possiamo essere solo ciò che siamo.» Avvicina il volto al mio, quasi a sfiorarmi, sento il suo calore, il suo profumo. Lo fisso come ipnotizzata.
«E cosa siamo, Chadi?»
«Seulement un homme et une femme.»

L’ho seguito senza fare domande attraverso matasse inestricabili di vicoli. La Medina, prima. La casbah degli Oudaja, poi. Tra costruzioni addossate le une alle altre, bianco accecante velato di azzurro, improvvise macchie di verde rigoglioso, fontane di piastrelle decorate con colori sgargianti e portoncini di legno lavorato. In fondo, un grande piazzale circondato da bastioni a picco sul mare. Il cielo è arancione e viola e anche noi siamo imbevuti della luce del tramonto. Che ci rende irreali. Immobili, vicini, contempliamo lo spettacolo del sole che, piano, affonda nell’orizzonte d’acqua.
«Capisci perché lo amo questo paese?» mi chiede Chadi in un sussurro.
Annuisco. Sì, lo capisco.
«Capisci perché non me ne posso andare?»
 Le sue dita mi sfiorano il braccio nudo. Rabbrividisco.
«Vieni, ho voglia di bere.»
Mi prende per mano e io mi abbandono alla sua stretta e al suo calore. Non mi va di pensare in questo momento. Ma solo di gustare fino in fondo il sapore di un’emozione che sale dentro di me come una marea inarrestabile.
Ancora vicoli. Poi un portoncino azzurro sormontato da una tettoia di tegole e circondato di piante che si arrampicano sul muro bianco, tra lampioni di ferro battuto e finestre dalle persiane dello stesso azzurro del portone. Lo seguo su per una scala ripida e bianca fino a un ballatoio lastricato di piastrelle coloratissime a disegni geometrici. Sul ballatoio si affacciano alcune porte. Chadi prende una chiave dalla tasca e apre l’ultima.
L’interno è avvolto nella penombra. Intravedo le sagome di alcuni pesanti mobili antichi, una tv al plasma, un angolo cucina con un vecchio frigorifero e, nella stanza accanto, un grande letto coperto di cuscini colorati. Una scala a chiocciola conduce a una porta finestra. Dalle persiane accostate riesco a scorgere il verde lucente delle piante. Mentre mi guardo intorno, Chadi apre il frigo e prende alcune birre. Poi mi sfiora la spalla. Una carezza?
«Vieni.»
Saliamo sulla scala a chiocciola. Chadi apre la portafinestra e di colpo siamo in una piccola oasi verde. Piante di ogni tipo e altezza circondano il terrazzo bagnato dalla luce magica del tramonto. Davanti a noi il mare è una distesa palpitante screziata di viola e arancio. Resto immobile, prigioniera di un incantesimo che ho paura di spezzare con un gesto o una parola.
«Siedi» mi dice, indicandomi un divanetto basso dalla tappezzeria un po’ sbiadita. Poi si siede accanto a me e mi porge una delle birre. Beve una lunga sorsata dalla sua.
«Senza l’alcool non riuscirei a sopravvivere. È la mia via di fuga, l’unica cosa che mi aiuta a sopportare la mediocrità che mi circonda» commenta fissandomi negli occhi. «Cerco di vivere alla giornata, di non rimanere ancorato ad un passato con cui non ho fatto i conti… non del tutto.» Beve ancora, mentre io lo ascolto in silenzio, gli occhi nei suoi, senza interrompere quel flusso di parole, di vicinanza, di sincerità. «Ma è impossibile sfuggire al proprio passato, Isabella» continua amaro «Per questo forse alcuni, come me, cercano di esorcizzarlo. Così…» e finisce la birra con un’ultima sorsata.
Fisso le sue labbra umide e non riesco a non pensare che vorrei toccarle, accarezzarle, sentirle sulle mie…
Chadi prende un’altra birra.
«È tutto così intenso» mormora. «A volte ho i brividi perché sento la vita così…e non posso tradurla se non in vaghi pensieri» beve ancora una lunga sorsata. Poi posa la bottiglia e con la mano  fredda mi sfiora il viso. Mi accarezza le labbra.
«Capisci cosa intendo?» le sue dita mi trasmettono lo stesso brivido intenso, mentre la sua mano scende ad accarezzarmi il collo, lieve e ora non più fredda ma imbevuta del mio calore. E del suo. Vorrei che continuasse a parlare. Ad accarezzarmi. Vorrei che mi baciasse. Adesso la sua bocca è a pochi centimetri dalla mia. Sento il suo respiro caldo che si mischia col mio.
«Qualcuno ha detto che è nostro soltanto ciò che è già finito» sussurra sulle mie labbra «e che ricordiamo di più i posti dove siamo stati tristi…ma io non ci credo…ti ricorderai di questo posto, Isabella?»
La sua bocca adesso accarezza la mia. La sua lingua segue il contorno delle mie labbra, le disegna, le schiude… Il desiderio mi travolge come un’onda mentre la sua lingua affonda dentro di me, cerca la mia, vuole una risposta, e le sue mani mi accarezzano la schiena, scivolano sul collo, nell’incavo dei seni, mi sfiorano i capezzoli, li stringono piano e poi più forte. E poi di nuovo piano.
Dalle labbra mi sfugge un gemito, mi inarco contro di lui, mentre continuiamo a baciarci, come assetati, come affamati che vogliono solo saziarsi uno dell’altra. Adesso sono io che gli accarezzo la schiena, la sua pelle è liscia e calda, ne voglio di più, voglio sentirlo contro di me, sopra di me, senza nulla che ci divida, solo pelle contro pelle. Mi fa sdraiare sul divano, mi accarezza, mi spoglia.
«Lo sai che qui da noi potrebbero arrestarci per questo? Come si dice…oltraggio al pudore» mi mormora all’orecchio, poi lo accarezza con la bocca e scende sul collo e sul seno, leccando, succhiando e io mi offro a lui, mi apro per lui e per le sue dita avide di me.
Lo cerco, lo spoglio con frenesia, bacio ogni centimetro della sua pelle ambrata mentre le piante nascondono il nostro amplesso agli sguardi indiscreti. E quando lui entra dentro di me, la sua bocca soffoca i miei gemiti in un bacio appassionato, la sua lingua ritma gli affondi, ancora, ancora, ancora.
Fino a quando il piacere ci coglie insieme e ci trascina via, in un altrove dove non conta più nulla che non siano i nostri corpi fusi uno nell’altro e il desiderio che cancella e travolge ogni altra cosa.

Chadi mi ha chiesto di restare.
Gli ho detto di sì. Ma a patto che lui scriva.
«Non puoi buttare via il tuo talento.» Stavolta è stata l’editor a parlare.
Adesso sono qui, sulla sua terrazza che sembra un bosco, guardo il mare e   ripenso alle notti che trascorriamo insieme nel grande letto della sua stanza, senza saziarci mai uno dell’altra, senza farci domande, senza prometterci nulla. Godendo solo dei momenti, degli attimi. Senza ieri e senza domani, come dice la canzone.
Avverto la presenza di Chadi alle mie spalle. La sua bocca sul collo, mentre mi allunga una bottiglia di birra ghiacciata.
«La fanno a Casablanca» la sua voce mi accarezza l’orecchio «birra marocchina doc.»
Prendo la bottiglia e mi volto per incontrare le sue labbra. Ho voglia della sua bocca, delle sue mani. Ma non dimentico il compito che gli ho dato.
«Dove sono i fogli?» gli chiedo staccandomi da lui.
«Aguzzina» replica con quel suo irresistibile sorriso pieno di fascino «lo sai che questo è un ricatto?»
«Certo che lo so. Allora, dove sono?»
Il suo sorriso si allarga, mette una mano in tasca e ne trae dei foglietti stazzonati. «Secondo capitolo, contenta?»
Li prendo e gli sorrido anch’io, mentre Chadi mi attira a sé.
«Ora non hai più scuse chica…» e la sua bocca cerca la mia.
Non so quanto resterò, non so cosa succederà. So solo che adesso sono felice e che di tutto questo non voglio perdere nemmeno un attimo.

FINE

CHI SONO LE AUTRICI...
 Elisabetta Flumeri e Gabriella Giacometti sono da anni una collaudata coppia creativa. Esordiscono come autrici di romanzi rosa e fotoromanzi, per poi passare a scrivere per la radio, la pubblicità e le riviste per ragazzi. Pubblicano anche diverse guide per gli Oscar Mondadori e successivamente lavorano come sceneggiatrici televisive di lunga serialità, affrontando generi diversi, dalla commedia al sentimentale, dal legal al dramma in costume. Nello stesso tempo operano come editor e supervisori di fiction tv e tengono corsi di scrittura creativa per insegnanti e alunni delle scuole elementari e medie superiori.
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27 commenti:

  1. Stupendo! Spero solo sia una prima parte di qualcosa di lunghissimo perché è bellissimo.
    Emiliana

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  2. Un racconto che ti travolge con le sue atmosfere esotiche e ti inebria con una delicata sensualità, grazie.

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  3. Molto, molto, molto bello.
    E significativo: perché scrivere quando c'è così tanto bello da leggere? :)

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  4. E niente, ogni volta queste autrici mi incantano. Perché scrivono di sentimenti e lo fanno dannatamente bene, perdincibacco!

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  5. Bello, sensuale, intrigante: il racconto come pure il protagonista. Mi è sembrato di essere lì. Sembrava di essere immersa nei colori, nei suoni e negli odori di quei luoghi. Stile impeccabile ed elegante. Complimenti alle autrici di cui conosco e apprezzo la bravura.

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  6. Davvero bello. Chadi giganteggia. A un certo punto si ha la sensazione che si racconti da solo, fin nel profondo, talmente e' dentro la storia. Complimenti di cuore, ragazze! :)
    Ornella Albanese

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  7. Signore, davvero non sappiamo come ringraziarvi! In modo particolare perché Chadi è personaggio , sì, ma in realtà ispirato a una persona vera, a cui dobbiamo molto di quello che è stato scritto. per questo il racconto ci sta particolarmente a cuore. Grazie Amneris e Federica,amiche sincere, grazie lady McKinnon per la stima e le belle parole, e grazie alla nostra "gigantessa" Ornella, la prima che ci ha intrigato e incantato quando siamo tornate al mondo del romance. con affetto eli & gab

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  8. Un racconto intenso, struggente con un protagonista misterioso, che ha alle spalle una vita particolare. Bravissime le autrici che hanno saputo descrivere
    sia i colori e le atmosfere di un paese diverso dal nostro che l'attrazione che da subito entrambi i protagonisti sentono...quegli sguardi scambiati, quegli occhi che si cercano, si evitano e che comunicano senza parole mi hanno emozionato.
    Una storia che forse durerà, forse no...ognuno può immaginare il futuro di Chadi e Isabella come più desidera e forse è giusto così... Molto bella anche l'immagine scelta per dare un volto a Chadi.

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  9. Per fortuna si è risolto il problema sul sito, perché questo racconto merita di essere letto. Il personaggio maschile è fin troppo dominante ed arrogante per i miei gusti, ma infine è la prof a spuntarla...anche se in modo non proprio usuale! Sarebbe bello leggere un seguito, lo spunto iniziale è parecchio intrigante. Grazie e complimenti

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  10. Grazie Alice e grazie Alessandra, è una gioia per chi scrive riuscire, anche se in poche pagine, a suscitare emozioni autentiche e sapere che chi legge vorrebbe saperne di più, per continuare a seguire la storia e i personaggi... un invito che ci piacerebbe raccogliere!

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  11. Assolutamente magnifico!!!
    Una storia che non mi stancherei mai di leggere, che spero sia l'inizio di una storia ancor più intensa!!!
    Mio dio mi sembra di sentirli, gli occhi di Chadi su di me!!!
    Bravissime!!!

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  12. Sarah Bernardinello14/08/16, 17:49

    Storia stupenda e protagonisti magnifici! L'atmosfera del Marocco e il magnetismo di Chadi sono resi alla perfezione. Ma con questo duo, non poteva essere altrimenti. Grazie per il bellissimo racconto.

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  13. grazie Rosy, grazie Sarah! Per l'entusiasmo e la stima e per aver condiviso l'impronta indelebile che il Marocco ci ha lasciato dentro

    RispondiElimina
  14. Che bello, mi sono sentita trasportata in Marocco, coi suoi sapori e i suoi colori, e mi sono lasciata andare sulle ali della sensualità, delicata, ma sempre presente, di questo racconto, insieme all'alone di mistero presente inizialmente attorno alla figura di Chadi.

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  15. bellissimo! emozionante e passionale. le descrizioni sono così reali che ti sembra di essere proprio li con loro.
    il protagonista è un po' troppo arrogante per i miei gusti, ma lei è in grado di tenergli testa e la cosa si compensa perfettamente.

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  16. È stato interessante e piacevole cogliere i profumi, i colori e la abitudini di questa terra. Era come se lo sfondo fosse esso stesso protagonista.
    E, beh, complice anche la copertina, questo chadi è davvero molto intrigante, io l'ho trovato molto macho.
    Grazie per questo racconto

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  17. Che storia emozionante! E che protagonista intrigante, intenso e sensuale...mi sono presa una bella cotta per lui ^_^

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  18. Bello! mi è piaciuta l'idea di inserire appunti sulla situazione politica del paesaggio esotico e mi è piaciuto che il passato tormentato di lui sia così strettamente legato alla storia del suo Paese (e non a qualche trauma infantile); bella l'idea di Patria e bello che Chadi non voglia lasciare il suo Paese, sono tormenti 'alti' e a volte condivisibili pure in Italia! :) Un Marocco che usa Facebook, fuma e beve birra, non è usuale conoscerlo ed è bello ritrovarlo in una storia d'amore così intensa. Spero che Chadi possa avere qualche futuro, magari alla Tahar Ben Jelloun, che racconta con poesia i dolori e le contraddizioni, ma anche il suo immenso amore, della sua terra. Brave davvero!

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  19. grazie di cuore per aver sottolineato con tanta profondità e attenzione questo aspetto della storia, Ale! per noi è molto importante, anche perché, come già detto, Chadi è solo in parte un personaggio immaginario e la sua storia nasce dalla realtà. come il Marocco - volevamo evitare appunto la cartolina - che abbiamo conosciuto e dove vorrei tanto tornare. Magari per riprendere la storia di Chadi...

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  20. il racconto è molto intrigante ti affezioni ai due personaggi scrivete altri racconti come questo.Elisabetta

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  21. Un racconto stupendo, magico, profondo e sensuale. E contro tutte le false differenze. L'ho adorato.

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  22. Questo racconto fa male, perchè coome tutto ciò che è intenso non lascia il sorriso ma induce alla riflessione. Mi sembra di leggere le emozioni di Elisabetta e Gabriella, più che le mie. E Chadi riassume nel suo cinismo e nella sua ribellione il senso di inadeguatezza che vivono in molti, l'insoddisfazione... lo straniamento che provo anche io.
    Forse come Chadi sono solo estremamente arrogante e penso di sentire di più, vedere di più... in ogni caso lui mi ha, e voi mi avete, toccato il cuore.

    RispondiElimina

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