UN FIORE NELLA PIOGGIA di Eva Palumbo


Nella tradizione persiana,
il tulipano rosso era donato
in una perfetta dichiarazione d'amore.
Questa usanza nasce da una leggenda
che racconta la storia dell'amore infelice tra due amanti:
la regina di Armenia, Shirin, e un capomastro, Farhad.
Questi si uccise dopo la falsa notizia della morte dell’amata
e da ogni goccia del suo sangue che cadde a terra
nacque un tulipano rosso.
Il tulipano rosso è perfetto per dire che amate
e amerete per sempre.


Guardai fuori dalla finestra e feci una risatina incredula.
Ancora pioggia.
Non ricordavo un inverno così piovoso da anni. Roma era allagata, le strade fiumi di acqua sporca, gli alberi grondanti e fradici. Mucchi di foglie inzuppate e marce si ammassavano agli angoli dei muri, e un cielo grigio e opprimente pesava sulla città.
A volte la pioggia era quella leggera e sottile, quasi impercettibile, tanto da immaginare di poter anche non usare l'ombrello, e invece poi ti ritrovavi infreddolito e bagnato fino al midollo. A volte, invece, erano scrosci così violenti da far paura, con il cielo nero squarciato da lampi, e secchiate d'acqua che si riversavano sulle auto, sui palazzi, sui pochi pedoni temerari che affrontavano la tempesta.
Febbraio era passato e non c'era quasi stato un giorno in cui non avesse piovuto. Ora, all'inizio di Marzo, quando di solito già si cominciava a pensare all'imminente primavera, il tempo se possibile era anche peggiorato. Quella mattina, un vento gelido e tagliente mi costrinse a stringermi nel giaccone e ad alzarne il bavero sul collo, mentre camminavo svelto lungo il marciapiede, cercando di evitare le pozzanghere fangose che lo avevano invaso, e combattendo per non farmi strappare di mano l'inutile ombrello nero con cui mi opponevo alla pioggia, per quanto possibile.
Odiavo con tutto il cuore quel freddo, quella pioggia, quell'inverno cupo e gelido che non finiva più. Odiavo il traffico impazzito, la calca delle persone in metropolitana e lungo le strade, la puzza di umido e sporco che mi prendeva alla gola... A dire il vero, in quel periodo odiavo tutto. La mia vita era diventata un lungo, lento susseguirsi di giornate sempre uguali. Al mattino, uscivo sempre prima, e la sera rientravo nel mio appartamento sempre più tardi. Il lavoro era diventato talmente tanto da non darmi respiro, nemmeno il finesettimana, nemmeno di notte. Ma tanto, anche se avessi avuto del tempo libero, con chi avrei potuto passarlo? Da quasi due anni, da quando ero diventato associato nello studio legale dove lavoravo, non avevo praticamente più una vita.
I miei padroni erano i miei ricchi clienti, ricchi e ingordi, che mi pagavano profumatamente per diventare ancora più ricchi, spostando capitali, acquisendo società, fondendo compagnie e facendo sempre più soldi, sempre più soldi, sempre più soldi.
Non era così che da ragazzo immaginavo sarebbe stata la mia vita, quando mi iscrissi a legge sognando di fare l'avvocato... ma viste le ricchissime percentuali che prevedevano i miei contratti, non sarei stato certo io a lamentarmi, almeno apertamente. Stringevo i denti, ingoiavo la noia, l'insofferenza, il fastidio, mi appiccicavo l'ennesimo sorriso alla faccia e continuavo ad andare sempre prima al lavoro, a tornarne sempre più tardi. A camminare a testa bassa, un giorno dopo l'altro, lungo il breve tragitto che separava casa mia dal mio studio, poco prima di Piazza del Popolo, senza degnare di uno sguardo il Tevere ingrossato dalla pioggia che sbatteva contro i piloni del ponte Matteotti, cercando di evitare gli altri passanti infreddoliti come me.
Quel giorno camminavo a passo svelto, ripassando mentalmente gli appuntamenti della giornata, e cercando di prepararmi per quello di mezzogiorno. Era in ballo una grossa transazione, e se fossi riuscito ad assicurarla al mio studio, ero certo che il mio capo diretto sarebbe stato molto riconoscente. Strinsi i denti e cercai di farmi passare l'ormai consueta ondata di nausea che mi assaliva quando pensavo all'ennesima pila di scartoffie e documenti che avrei dovuto studiare per concludere l'affare.
Quella mattina, quindi, non era diversa da tante altre, se non forse per il fatto che era ancora più presto del solito, e i negozi lungo il marciapiede non avevano ancora alzato le saracinesche. La pioggia stendeva il suo velo su ogni cosa. Io facevo quella strada tutte le mattine e tutte le sere, ormai da due anni, e la conoscevo talmente bene da poterla fare quasi ad occhi chiusi.
L'edicola, poi un bar, un portone di legno, un'agenzia di assicurazioni. Due negozi di abbigliamento dozzinale, una lavanderia, un altro portone, un parrucchiere per donna, un fruttivendolo. Una scuolaguida, una merceria. Un altro portone, e poi...
Alzai lo sguardo, sorpreso.
L'unica insegna illuminata era quella di un negozio di fiori, che non avevo mai notato prima. Sorpreso, mi guardai intorno, e notai che qualcosa era cambiato. Non c'era un negozio di scarpe, lì? Rallentai un attimo, e vidi due grandi vetrine piene di piante e vasi di fiori colorati, illuminati da una calda luce arancione che veniva dall'interno del negozio. Tra le due vetrine, una porta a vetri chiusa, con gli infissi dipinti di verde brillante, e sul marciapiede una serie di rastrelliere bianche e verdi che straripavano di piantine fiorite, di composizioni colorate, di piante con le foglie lucide. Una tettoia bianca e verde proteggeva tutto dalla pioggia. Accanto alla porta, c'era un carrellino di metallo con sopra un cesto di vimini pieno di strani fiori recisi con una decina di centimetri di stelo. Erano viola e blu, con i petali carnosi striati di giallo. Un cartellino bianco poggiato sul carrello diceva "Prego, servitevi pure". Al di sopra, era appesa una lavagnetta di legno di quelle vecchio stile, con la cornice un po' scheggiata e una frase scritta in stampatello con il gesso bianco, come a scuola:
Chi desidera vedere l'arcobaleno, deve imparare ad amare la pioggia
Mi fermai di botto davanti alla porta del negozio. All'interno, una figura di spalle sistemava alcuni vasi su delle mensole alte, muovendosi al ritmo di una musica che da fuori non sentivo. Spostai lo sguardo al cesto di fiori alla mia sinistra, poi di nuovo verso l'interno del negozio. Adesso la persona era passata dietro il bancone e si era girata verso di me. Mi guardava con la testa inclinata di lato.
Io battei le palpebre. Era una ragazza. Beh, in realtà sembrava più un elfo, in effetti. Piccola, la pelle chiara, i lunghi capelli biondi un po' mossi sciolti sulle spalle, una camicia verde, e un'espressione interrogativa sul viso. Per alcuni lunghi, lunghissimi istanti, non riuscii a distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Grandi, luminosi. Verdi come la sua camicia. Come le foglie delle piante da cui era circondata.
Poi, una macchina suonò il clacson alle mie spalle, facendomi sobbalzare, e l'incantesimo si ruppe. Scossi la testa, strinsi la mano sul manico dell'ombrello e ricominciai a camminare verso il mio ufficio. Prima di svoltare l'angolo, però, mi girai brevemente indietro, e vidi che una donna infagottata in un giubbotto scuro si fermava davanti al cesto dei fiori, indugiava un attimo e poi ne sceglieva uno da annusare. Scossi di nuovo la testa. Come si poteva essere così ingenui da aprire un negozio di fiori e poi regalarli? E quella frase da diario del liceo... com'era? ... amare la pioggia... certo, come no. Evitai l'ennesima pozzanghera e mi avviai deciso verso l'ufficio. Prima di entrare nel lussuoso androne ricoperto di marmo, e fare un cenno distratto di saluto alla segretaria, che come al solito mi seguì con lo sguardo finché non entrai nell'ascensore, avevo già deciso di dimenticarmi dei fiori viola e blu nel cesto e dell'elfo con gli occhi verdi all'interno del negozio illuminato.

**********

Pioggia, pioggia, pioggia.
Era semplicemente assurdo, sembrava che le cataratte del cielo si fossero spalancate e avessero deciso di svuotarsi tutte insieme, annegando ogni speranza di sole, calore, luce. Il cielo plumbeo era solcato da fulmini azzurri, intervallati dai bassi brontolii dei tuoni. Mi aggiustai la sciarpa attorno al collo e affrontai il temporale. Prendere un taxi era fuori discussione, con il traffico congestionato già a quell'ora ci avrei messo il triplo del tempo che a piedi. Camminai svelto lungo ponte Matteotti per poi svoltare rapidamente sul lungotevere, poi, imboccando la strada del mio ufficio, senza quasi accorgermene rallentai mentre passavo davanti al negozio di fiori. Come il giorno prima, anche quella mattina un cesto di fiori a disposizione dei passanti faceva bella mostra di sé sul carrello di metallo. Questa volta, erano piccoli mazzetti di fiorellini di campo gialli, legati con rafia, mischiati a delle classiche, semplici margherite gialle, che perfino io riconoscevo. C'era anche qualche piccolo girasole, con i lucidi petali giallo scuro intorno al cuore nero.
Mi fermai davanti al cesto, e guardai la lavagna su cui c'era scritto:
Non può piovere per tutta la vita
Trattenni una risatina incredula. Ottimismo d'accatto, o piuttosto sciocca ingenuità tardo-adolescenziale? Sbirciai all'interno del negozio e vidi l'elfo che si aggirava tra le piante, con in mano un vaso contenente un enorme mazzo di rose bianche a stelo lungo che le nascondeva il viso. Indugiai un po' davanti alla vetrina. Non sapevo perché... forse volevo solo rivedere quei grandi occhi verdi sgranati, che il giorno prima mi avevano fissato in modo così intenso. Quando la ragazza posò il vaso a terra e si rialzò, i nostri sguardi si incrociarono e questa volta lei mi si rivolse con un lieve sorriso sulle labbra. Labbra grandi, carnose, rosa e lucide, non potei fare a meno di notare. Il sorriso si accentuò quando mi fece un lieve saluto, e poi le sue dita accennarono a chiamarmi all'interno del negozio.
Esitai, poi, senza nessun motivo al mondo per farlo, spinsi la maniglia ed entrai.
All'interno del locale il profumo dei fiori saturava l'aria in modo quasi eccessivo, stordente. Riconoscevo appena alcuni dei fiori più comuni... per il resto, era un tripudio di colori e sfumature, tante quante se ne potevano immaginare. Quella mattina, la ragazza indossava una camicia scozzese a piccoli quadretti verdi e grigi, che le illuminava il viso rendendo ancora più verdi i suoi grandi occhi.
Mi sorrise apertamente.
«Buongiorno», mi disse. La sua voce era bassa e musicale. Feci un breve cenno con la testa, poi mi guardai intorno.
«Ho appena aperto», continuò l'elfo, abbracciando con un gesto il piccolo locale.
«Sì, io... infatti ho visto ieri per la prima volta il suo negozio», dissi, stranamente esitante. L'aria profumata mi stava un po' stordendo. «Ho visto che regala fiori», aggiunsi, indicando con un pollice alle mie spalle.
L'elfo sorrise di nuovo.
«Hanno funzionato?»
«Cosa?», chiesi, un po' interdetto.
«I fiori di ieri. Iris viola», disse l'elfo. «Fiori adatti al mattino di lunedì, direi. L'iris è un messaggio, un augurio per chi sta per intraprendere qualcosa di importante. Quello che ci vuole per affrontare le sfide della settimana»
Battei le palpebre, sempre più stupito.
«In effetti, io...», esitai, poi tacqui. Le coincidenze mi avevano sempre inquietato. Perché era ovviamente solo una coincidenza, che proprio quella settimana io dovessi affrontare quella prova così importante per il mio studio.
E per me, certo. Anche per me.
Mi passai la mano nei capelli. Ci guardavamo in silenzio, mentre dalla radio nel retro del negozio si sentivano le risate di due conduttori che chiacchieravano allegramente, prima di lanciare l'ennesimo motivetto allegro. Mentre i suoi occhi erano incatenati ai miei, mi resi conto che i miei pensieri stavano prendendo direzioni impreviste.
Era bella, quella ragazza che sembrava un elfo dei fiori.
Bella senza essere appariscente, bella per la sua espressione tranquilla e serena.
Le guardavo il viso, luminoso anche senza trucco. Aveva una manciata di lentiggini sparse sul naso e sulle guance, la linea della mandibola morbida, le orecchie piccole, con una pallina d'argento ai lobi...
Le orecchie?
Le stavo guardando le orecchie?
Scossi la testa, come per schiarirmi le idee.
«Beh...», mormorai, «adesso io devo andare. Sa, il lavoro...»
«Non dimenticare l'ombrello», mi disse l'elfo, sempre sorridendo, accennando al portaombrelli vicino alla porta d'ingresso dove l'avevo infilato, entrando.
Mi girai a metà, guardandola. C'era un'aria strana, in quel negozio, un'atmosfera rarefatta e suggestiva... sembrava di essere in una bolla sospesa nello spazio e forse anche nel tempo, con la luce grigia della mattina bagnata che penetrava dalle vetrine e si mescolava alla soffusa luce arancione delle lampadine sulla parete dietro il banco con la cassa. La pioggia picchiettava sul tendone che proteggeva il marciapiedi appena fuori la porta, con un rumore che mi sembrò... allegro?
Guardai fuori, poi ritornai a guardare l'elfo.
«E quelli... quelli di oggi?», chiesi, indicando il fiori gialli nel cesto, a disposizione di chi passava. «Hanno un significato anche quelli? Magari uno... adatto al martedì?», conclusi, con un filo di sarcasmo.
«Oh! No...», sorrise l'elfo, portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Mi venne immediatamente voglia di rifare il gesto, di indugiare con le dita sulla pelle del collo, e subito dopo mi diedi dello stupido. «Quelli sono... solo un auspicio. Un lampo di giallo per ricordarci che il sole esiste, anche se si nasconde dietro le nuvole...»
«Ah, già... Non può piovere per sempre?», sorrisi indulgente, citando la frase che lei aveva scritto sulla lavagna.
«Il giallo dà allegria, vivacità, serenità. Non trovi? Chi ama il giallo ama il cambiamento e il nuovo, e non ne ha paura. Chi ama il giallo è in pace con sé stesso.»
Battei un paio di volte le palpebre, poi scossi la testa, come per schiarirmi le idee.
«Io... le auguro un buongiorno», dissi, prendendo l'ombrello e poggiando la mano sulla maniglia della porta. L'aria fredda si insinuò all'interno quando la aprii e uscii precipitosamente, seguito dalla sua voce gentile che mi diceva:
«Anche a te... passa una buona giornata!»
Feci un passo avanti e istintivamente allungai la mano sul cestino, come per prendere un fiore di quelli in omaggio, poi la ritrassi scuotendo piano la testa, la infilai in tasca e mi avviai velocemente verso l'ufficio.

**********

«Matteo? Matteo, sei con noi?»
La voce di Claudio, il mio collega allo studio, si insinuò nei miei pensieri e mi fece quasi sussultare. Seduti insieme ai nostri collaboratori al lungo tavolo riunioni, stavamo rivedendo la strategia da adottare per la fusione per la quale finalmente ci eravamo accordati. Guardando distrattamente fuori dalla finestra, avevo visto, incredibilmente, uno spicchio di celeste farsi strada caparbiamente tra le cupi nubi grigiastre che, al solito, incombevano sulla città.
Come se fosse un'apparizione misteriosa (e lo era, in effetti, visto che erano settimane che non vedevo il cielo sereno), mi ero incantato a guardare un debole ma tenace raggio di sole che penetrava la coltre delle nuvole e illuminava i giardinetti che si intravedevano in basso, tre piani al di sotto, attraverso le grandi vetrate della stanza.
Senza che riuscissi ad impedirmelo, il pensiero era corso al piccolo elfo biondo del negozio di fiori, alla sua espressione serena e sorridente mentre mi parlava del sole al di là delle nuvole, e all'allegria che dà il colore giallo...
Mi riscossi, e mi girai verso Claudio.
«Certo... certo, sono qui. Mi ero solo... distratto un attimo. È uscito il sole, hai visto?»
«Il sole?». Il mio collega guardò fuori dalla finestra, poi riportò la sua attenzione su di me. «Sì, certo... Veramente io vedo ancora solo pioggia e nuvole, comunque... Matteo, cavolo, ce l'abbiamo fatta! La Della Valle ha firmato... sei stato un grande!»
Mi strinsi nelle spalle e cominciai a raccogliere i fogli che avevo sparso in giro. Diedi un'occhiata rapida all'orologio al polso: le cinque e mezza. Forse ce l'avrei fatta ad andare via prima. Per la prima volta dopo mesi, sarei uscito dall'ufficio con la luce del sole. Potevo andare a correre un po' al Pincio. Oppure, potevo fare un giro largo per tornare a casa, o anche fermarmi un po' sul lungotevere. Andare a mangiare in qualche bel posto, magari anche prendere una birra in un pub, guardando una partita insieme alla gente, invece di ingurgitare un pezzo di pizza in piedi davanti al tavolo, con il computer acceso sull'ultimo contratto. Potevo perfino telefonare ai miei, che non sentivo da... non mi ricordavo neppure quanto. Guardai Claudio: forse potevo chiedergli di uscire un po', di accompagnarmi da qualche parte... Veloce, un pensiero mi attraversò la mente: se fossi riuscito ad uscire dall'ufficio ad un'ora decente, sarei potuto passare davanti al negozio prima che chiudesse. Avrei potuto magari dare un'altra sbirciata agli occhi verdi della ragazza dei fiori, magari chiederle se le andava un caffè...
«E abbiamo anche il tempo di impostare la relazione per il gran capo, e fargliela trovare pronta sulla scrivania per domattina», disse lui. «Sono solo le cinque e mezzo, in due, massimo tre ore abbiamo fatto...»
Chiusi gli occhi per nascondere una fitta di irritazione.
Accidenti, avevo lavorato come un mulo nei due mesi precedenti per concludere quel contratto, senza un attimo di pausa, senza conoscere né sabati né domeniche, avevo dedicato anche gran parte delle mie notti a quella maledetta transazione, e adesso non meritavo neanche un paio d'ore di tregua?
Sospirai, e mi risedetti al tavolo accanto a Claudio, cercando di concentrarmi sulle parole del contratto che mi ballavano davanti agli occhi. Al diavolo raggi di sole, fiorellini e occhi verdi da elfo. Dovevo lavorare. Anche se stava diventando sempre più difficile resistere alla sensazione di nausea che mi prendeva alla bocca dello stomaco, al pensiero di quello che era diventata la mia vita.
Mi girai verso il mio collega, e in quel momento vidi distintamente lo squarcio tra le nubi che era apparso poco prima richiudersi inesorabilmente, e quel tenue barlume di luce solare svanire nel grigio della pioggia che riprese a cadere con furia rinnovata.

**********
Orchidee.
Quel mattino erano orchidee.
Perfino io le avevo riconosciute.
Chi diavolo è così pazzo da regalare orchidee? Quella ragazza non aveva il minimo senso degli affari? E quella frase scritta sulla lavagna...
Mi piace pensare che il meglio deve ancora venire
Ma che cos'era, una di quelle appartenenti a qualche strana religione new age, tutta ottimismo, pace, amore, fantasia al potere?
Entrai nel negozio come una furia, facendo quasi sbattere la porta contro il muro, tanto che la ragazza sobbalzò leggermente. Si raddrizzò, sollevandosi dal pavimento dove si era acquattata per sistemare alcuni vasi pieni di alti fiori colorati.
Era piccolina, proporzionata. I lunghi capelli erano raccolti in una coda che le arrivava fino alla base della schiena, fino a sfiorarle il sedere tondo, che riempiva un paio di jeans scoloriti e larghi in fondo.
Aveva un paio di scarpe da ginnastica rosse, un po' logore, e una semplice maglietta bianca a maniche lunghe, su cui indossava di nuovo il grembiule verde con il logo del negozio. Mi soffermai forse un attimo di troppo con lo sguardo sul suo petto, notando il seno pieno e formoso... insolito per un elfo no?
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena quando mi resi conto che la stavo guardando in silenzio da minuti interi. Avvertii il suo sguardo curioso su di me, e mi schiarii la voce.
«B-buongiorno», balbettai, e poi mi accigliai. Perché diavolo stavo farfugliando come un idiota?
La ragazza sorrise, e io ebbi l'assurda sensazione di rivivere il momento del pomeriggio del giorno prima, quando avevo visto quel raggio di sole bucare a sorpresa la coltre di nuvole bassa nel cielo e colpire i giardini vicino all'ufficio.
«Come stai?», mi chiese, e io aggrottai di nuovo la fronte.
«Bene. Sto bene. Io... ho visto che sta regalando di nuovo fiori»
Lei annuì.
«Ma sono orchidee!», esclamai, quasi oltraggiato. «Uno dei fiori più preziosi che si possano comprare... lo so persino io!»
«Sì», ammise lei, inclinando la testa di lato e guardandomi ancora più incuriosita.
«Chi regala dei fiori molto costosi che potrebbe vendere nel suo negozio?», esclamai, allargando le braccia. «Lo scopo di aprire un negozio è vendere, no? Chi comprerà un fiore quando può averlo gratis?»
La ragazza sorrise, poi distolse lo sguardo, sfiorando con lunghe dita pallide i petali degli strani fiori arancioni e blu che aveva appena finito di disporre accanto a sé. Infine, tornò con lo sguardo su di me, e io inspirai bruscamente quando quelle pozze verdi mi fissarono intensamente.
«Hai ragione, sembra una cosa un po' sciocca. Il fatto è che l'orchidea è così bella... mi piaceva l'idea di regalare un messaggio di totale dedizione»
«Come ha detto?»
«Per avere il meglio, bisogna dedicarsi con dedizione alle cose. Dedizione totale, come suggerisce il significato del fiore. Tutto sta a capire davvero cos'è meglio, per noi»
La guardai, senza parlare.
Ancora quel rumore, ritmico, che la pioggia faceva tamburellando sulla tela del tendone, fuori... Ma sentivo anche qualcos'altro. Qualcosa che mi tambureggiava nel petto, come i bassi di una musica profonda e ipnotica. Ci misi qualche secondo a capire che era il mio cuore.
Espirai lentamente, e indietreggiai. Il profumo dei fiori mi stava dando alla testa, decisi.
Mi voltai verso la porta, poi mi girai a metà verso di lei, con la mano sulla maniglia, stranamente restio a sottrarmi del tutto a quella specie di... di incantesimo che mi prendeva in quel negozietto pieno di fiori colorati.
«La vita è il fiore», mormorai, ripetendo il nome del negozio che avevo letto sull'incisione sulla porta. «È un nome un po' strano...»
«La vita è il fiore per il quale l'amore è il miele», disse lei a bassa voce. Le sentivo vibrare un sorriso nella voce. «È una frase di Victor Hugo. Il poeta francese»
«Sì... ovviamente». Ovviamente. Non poteva essere che una frase di un poeta francese. «Buon... buongiorno».
Uscii precipitosamente sul marciapiede e mi ritrovai affannato, appoggiato al muro mentre cercavo di riprendere fiato. Che. Cosa. Diavolo. Stava. Succedendo. Mi sembrava di essermi appena svegliato, dopo aver sognato un assurdo sogno pieno di colori vividi e vibranti, ma senza alcun senso logico.
Mi guardai attorno, ma sul marciapiede non vidi nessuno. Nonostante fosse mattina, l'ora in cui la gente va a scuola, al lavoro, o chissà dove, non c'era nessuno lungo la strada, nessuno dall'altra parte, nessuno nella piazzetta di fronte.
Ma dov'erano tutti? Spalancai gli occhi, allarmato. Che stava succedendo? Mi girai di scatto e vidi la ragazza che mi fissava dalla vetrina, con un lieve sorriso sulle labbra.
Le sue labbra.
Un infinito attimo in cui mi vidi gettare di lato l'ombrello e lo zaino con il computer, afferrare la maniglia, spalancare la porta, coprire in un attimo la distanza che mi separava da lei e stringerla, toccarla, afferrarle i capelli, le spalle, per vedere se era reale, se esisteva veramente, se non era solo una mia fantasia. Baciarle quelle labbra, morderla, leccarla, sentire il suo sapore. Affondare il viso sul suo collo. Sentirla, respirarla, immergermi nel suo profumo di fiori...
Il rombo di un autobus che passava alle mie spalle mi fece sussultare. Le cose riacquistarono i loro contorni definiti, i colori ritornarono smorzati, dilavati dalla pioggia, e io indietreggiai e poi quasi fuggii, per ritornare alla mia realtà.

**********

«Che hai Matteo?». Claudio mi guardava negli occhi, un'espressione di vago allarme sul viso. «Sembri strano.»
«Strano? In che senso?»
«Sembri... distratto. Non so, come se... come se avessi qualcosa che ti rode. Avanti, che succede? Problemi? Hai bisogno di...»
«Sto bene. Sto benissimo», risposi precipitosamente, per poi tornare con lo sguardo sul computer, sforzandomi di tenere ai margini del cervello i pensieri che mi giravano vorticosi in testa da più di una settimana.
Da quando avevo smesso di passare davanti al negozio di fiori, dopo quell'assurdo episodio che mi aveva fatto temere che qualcosa di strano e pericoloso stesse succedendo. E che quella ragazza ne fosse in qualche modo responsabile. Ero arrivato anche a pensare che tutto quel profumo di fiori mi avesse intossicato. Mi sembrava di aver avuto le allucinazioni, di aver perso il controllo, e quella sensazione non mi piaceva affatto. Ero riuscito a tener duro e a non passare davanti al negozio, nonostante il desiderio inspiegabile di rivedere quegli occhi verdi, magnetici, ipnotici eppure così tranquilli, così sereni...
Scossi la testa. Ecco, mi stavo perdendo di nuovo.
Non riuscivo a togliermi quella ragazza dalla testa, eppure era l'estremo opposto delle donne con cui di
solito amavo uscire e divertirmi. Di solito... trattenni una risatina, per non dare a Claudio l'idea che fossi completamente impazzito. Quanto tempo era che non uscivo con nessuna? Quanto tempo era che non guardavo nessuna?
Ultimamente non avevo neppure il tempo per fermarmi davanti allo specchio e controllare che fosse ancora tutto a posto, figuriamoci se avevo avuto l'occasione per portare fuori qualcuna, magari in un posto carino ed elegante, per poi accompagnarla a casa e farmi invitare da lei e...
Da quanto tempo non facevo l'amore? Spalancai gli occhi al pensiero. Mesi, probabilmente. Mesi in cui non avevo sentito la benché minima pulsione, il benché minimo interesse per nessuna. Subito, il volto della ragazza dei fiori mi si disegnò di nuovo davanti agli occhi.
Era bella, bellissima. Se avessi avuto il tempo di pensare a qualcuna, avrei pensato a lei... che idiota, ma se era quello che stavo facendo, ininterrottamente da più di una settimana.
I suoi capelli biondi. Il suo corpo piccolo e morbido. Le sue lunghe dita bianche. Il suo profumo di fiori... Mi alzai bruscamente dalla sedia e mi avviai verso la porta.
«Ehi», esclamò Claudio. «Dove vai?»
Non risposi.
Prima ancora di rendermene conto, ero sceso giù per le scale e mi ero precipitato in strada. Non avevo nemmeno preso l'ombrello, ma ci misi qualche minuto per rendermi conto che l'intensità della pioggia era decisamente diminuita, e che la luce era cambiata.

**********
Rose.
Rose rosse, bianche, rosa, gialle. Blu, perfino.
Il cestino ancora pieno, il profumo dolce, che riempiva l'aria, e le gocce di pioggia che scendevano lente dai bordi del telone, mentre il traffico del pomeriggio impazzava lungo la strada, e cento voci si rincorrevano attorno a me.
Era la prima volta che mi trovavo davanti al negozio in un'ora che non fosse quella del mattino presto, quando tutto era ovattato e ancora sonnolento. Posai la mano sulla maniglia della porta, in preda ad una strana smania.
Non vedevo la mia ragazza dagli occhi verdi da giorni, e ora che stavo per trovarmela di nuovo di fronte, il cuore mi batteva forte nel petto. Per un attimo, ripensai al fatto che me ne ero andato all'improvviso dall'ufficio, senza avvertire nessuno, senza prendere le mie cose, lasciando tutto sospeso.
Che cosa mi stava succedendo?
Non desideravo altro che rivederla. Dovevo rivederla. E ora che l'avevo ammesso con me stesso, mi sembrava tutto più luminoso. Più colorato. Più caldo... Guardai alle mie spalle. Vedevo le persone che chiudevano gli ombrelli, che li mettevano via.
E mi resi conto che non pioveva più.
Portai lo sguardo sulla lavagna, dove la scritta, un po' cancellata ai bordi, era illuminata da un raggio di sole radente che mi sembrò bellissimo.
Il vero amore è una quiete accesa
Spinsi la porta ed entrai. E lei era lì, in mezzo ai fiori, che si muoveva come in una danza tra i vasi e le piante con le foglie verdi e brillanti, al suono di una musica lieve che proveniva dal retro del negozio. Si girò e mi sorrise lievemente.
«Sei tornato», disse, con voce tranquilla.
«Ha smesso di piovere», dissi, e poi mi diedi del cretino. Che razza di esordio da deficiente! Ma lei sorrise ancora più apertamente e si avvicinò.
«Ho visto. Sei senza cappotto, senza zaino... dove hai lasciato tutto?»
Mi strinsi nelle spalle e feci un passo verso di lei.
«Mi chiamo Matteo, e... troveresti troppo strano se ti invitassi a prendere qualcosa... non so, un caffè... e...»
«Perché?», mi chiese, inclinando la testa su una spalla ma senza smettere di sorridere.
«Perché...». Esitai. Ero davvero stupido. Avevo pensato a lei così tanto, e non avevo messo in conto la possibilità che per lei fossi solo un tizio qualunque, che ogni tanto era entrato nel suo negozio, che una volta le aveva anche contestato il fatto che regalava fiori. «Perché ha smesso di piovere. Perché Roma sta luccicando, lavata e splendente sotto il sole, finalmente. Perché sei... bella. E penso a te. Tanto. Anche se non so il tuo nome.»
Al diavolo. Che poteva fare, oltre a mandarmi a quel paese? Certo, potevo ritrovarmi con una bella segnalazione alla polizia per molestie, e quello poteva essere un problema. Abbassai gli occhi, improvvisamente incerto, ma lei mi si avvicinò ancora di più, tanto che le sue scarpe entrarono nel mio campo visivo e fui costretto a rialzare lo sguardo, scorrendo lungo il suo corpo, le gambe, il petto, il collo, fino al viso.
Stava sorridendo.
«Mi chiamo Serena», disse piano. «E ti chiedevo perché dovrei trovarlo strano, se mi inviti fuori per un caffè.»
«Non... non è strano?»
«Oh! No. Per me non lo è. Affatto.»
«Bene». E poi tacqui, sorridendo. Come uno stupido, probabilmente, ma non me ne importava nulla. «Bene, allora», ripetei.
Gesù, dovevo essere proprio un bel vedere, come no. In camicia, giacca aperta e cravatta allentata, in piedi davanti a lei, bellissima e semplice mentre si toglieva il grembiule e lo poggiava sul bancone, e poi si girava a prendere un fiore da un vaso. E me lo porgeva.
«Un tulipano?».
Mentre lo prendevo, le nostre dita si sfiorarono appena. La guardai, incuriosito, perché era arrossita leggermente mentre annuiva.
«Un tulipano rosso», mormorò.
«E significa... significa qualcosa?», chiesi esitante.
Lei abbassò gli occhi, poi li rialzò, luminosi e sorridenti.
«Dovrai studiare un po' la mia lingua, Matteo», disse. Poi inclinò la testa di lato, in quel suo gesto così tipico che mi fece pensare di conoscerla da tanto, tanto tempo.
«Allora...», disse, allegra. «Questo caffè?».

FINE


Le frasi sulla lavagna di Serena:
"Chi desidera vedere l'arcobaleno, deve imparare ad amare la pioggia": P. Coelho
"Non può piovere per tutta la vita": G.C. Marquez
"Mi piace pensare che il meglio deve ancora venire": L. Ligabue
"Il vero amore è una quiete accesa": G. Ungaretti


CHI E' L'AUTRICE

Eva Palumbo è nata in Salento, ha vissuto a lungo a Napoli e ora vive con suo marito e suo figlio a Roma, dove lavora a tempo pieno come ricercatrice. Ama molto leggere, soprattutto romanzi d'amore. Da qualche  anno dedica il suo tempo libero alla scrittura. Alcuni suoi racconti sono apparsi sul blog La Mia Biblioteca Romantica ("Sei settimane dopo", "Un bellissimo buongiorno", "Christmas in Killarney", quest'ultimo nel corso della rassegna Christmas In Love 2014 dello stesso blog). Con sua enorme sorpresa e felicità, ha appena firmato un contratto con la Triskell Edizioni per la pubblicazione di un romanzo breve, prevista tra 
qualche mese. Chiacchiera dei libri che legge e delle cose che scrive sul suo blog:


VI E' PIACIUTO UN FIORE NELLA PIOGGIA? ASPETTIAMO I VOSTRI COMMENTI.



5 commenti:

  1. Hola! Davvero dolce e carino questo racconto ^.^ complimenti Eva! Dovresti approfondirlo, mi piace questa trama e si intona con il mio umore degli ultimi tempi...ogni giorno respiro un po' di magia e positività...sarà grazie alla mia Siviglia che tra meno di un mese lascerò...ma voglio godermi ogni attimo in totale serenità :) sono lontana dalla mia famiglia che mi manca, eppure so di poter trascorrere comunque una bella giornata senza rifugiarmi nella nostalgia, ora un po' anche grazie al tuo luminoso racconto :)
    saluti,
    Simo

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  2. Bellissimo racconto, Eva! Molto dolce e romantico, porta in sé un messaggio profondo che non posso non condividere: nella vita ci sono cose più importanti del successo e del denaro e ogni tanto occorre ritagliarsi dei momenti per se stessi, per stare con le persone che amiamo. Mi piacerebbe sapere cosa ne è stato di Matteo e Serena, dopo quel caffè. Ci regalerai un seguito?

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  3. dolcissimo e romanticissimo,un sogno ad occhi aperti, in attesa dell'arcobaleno, ma ci ha lasciato un po' in sospeso.....

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  4. Grazie a tutte per le vostre parole... sono così contenta di avervi regalato un momento di dolcezza!
    In effetti, Matteo e Serena mi stanno così simpatici che... credo proprio che presto avranno un futuro dolce e luminoso, come questa primavera che finalmente sembra essere arrivata anche per noi!
    Un abbraccio,
    Eva

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  5. Anche se in ritardo ti faccio i miei complimenti un racconto molto carino e ti lascia una sensazione piacevole come le giornate di primavera

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