“Per la miseria,
ma quanto ci hai messo?” se ne esce Erika con un sopracciglio biondo alzato, un
vestitino rosso di qualche stilista che ovviamente ignoro e un paio di tacchi
che solo a guardarli ho le vertigini.
“Anche io sono
felice di rivederti” rispondo piccata con il cesto regalo che zia Agnese ha
confezionato per i Pitti e che sono venuta a consegnare di persona, sicura che
in Villa ci fossero solo i custodi. E accidenti mi sbagliavo.
“Allora,
che aspetti, vieni dentro o vuoi stare lì fuori a gelarti le chiappe?”
“Ho
altre consegne urgenti da fare” e sollevo un po’ l’enorme cesto, che quasi non
riesco ad abbracciare, tentando di far capolino oltre la carta trasparente e
tutti questi cazzo di nastri rossi. “Che ci fai a Forte dei Marmi?” mi scappa
di bocca.
“Abbiamo
deciso di passare qui le feste” risponde lei, con quegli occhioni da Bamby e il
sorriso angelico a illuminarle il viso a forma di cuore. “Se ti degnassi di
leggere uno dei miei sms e magari a rispondermi, lo sapresti”.
Se l’avessi
saputo, mai e poi mai mi sarei offerta volontaria per questo giro di consegne
prenatalizie.
Gli zii hanno un
sacco di lavoro, io sono in vacanza da scuola, sono loro ospite più o meno da
quest’estate - quando ho deciso di trasferirmi definitivamente in Toscana con
Floppy, il mio coniglio nano, e il benestare dei miei genitori – e il minimo
che possa fare è aiutarli in gelateria. Che da poco più di un mese è diventata
anche pasticceria. E gli affari vanno a gonfie vele.
Con i cesti natalizi che la zia prepara personalmente, abbiamo davvero parecchie richieste.
Erika sbircia, oltre la mia spalla, lo scooter con il cesto portapacchi parcheggiato sul vialetto, e il sopracciglio continua a rimanere inarcato. “Non mi pare che ci sia altro là dentro”.
La detesto quando fa così.
“Hai intenzione di prenderti questo dannato coso o vuoi che te lo lasci qua fuori?”
Con i cesti natalizi che la zia prepara personalmente, abbiamo davvero parecchie richieste.
Erika sbircia, oltre la mia spalla, lo scooter con il cesto portapacchi parcheggiato sul vialetto, e il sopracciglio continua a rimanere inarcato. “Non mi pare che ci sia altro là dentro”.
La detesto quando fa così.
“Hai intenzione di prenderti questo dannato coso o vuoi che te lo lasci qua fuori?”
Lei
per tutta risposta mi afferra per un braccio e mi trascina oltre la soglia, sul
costoso tappeto dell’ingresso, me e i miei stivali umidi, e con un tonfo secco
richiude la porta alle mie spalle.
Faccio
un giro su me stessa, come una papera zuppa sulle sue zampe palmate, e affronto
la mia migliore amica. Anche se non ci frequentiamo più da quasi tre mesi, e
lei mi odia cordialmente per averla mollata da sola a Milano, con il liceo, il
cuore spezzato dal suo bagnino dei sogni, e un sacco di sms ignorati, spero
proprio che lo sia ancora.
Cioè,
siamo sempre il pane con la Nutella, il tè coi biscotti, il miele con le
frittelle. Insomma inseparabili. Anche se io sono fuggita come una vigliacca -
mi pare che me l’abbia scritto in uno dei suoi primi sms, quando le ho
telefonato per comunicarle che non sarei tornata in città - non ho mai smesso
di volerle bene. Mai.
“Allora
cosa vuoi, litigare o chiarire le cose?” I fiocchi del cesto mi pizzicano il
naso e mi scappa anche la pipì. E non sono mai stata una che usa mezzi termini
o che non è capace di chiamare le cose con il loro nome. A parte forse un unico
caso. Comunque non ci voglio pensare adesso. Meglio che me ne vada da qui. E
alla svelta.
“Darti
una sistemata”.
“Non
era un’opzione”.
“Lo
è da quando hai suonato il campanello” e si mette a braccia conserte “Fra
un’ora si cena. E non posso trascorrere l’antivigilia di Natale senza la mia
migliore amica”.
Santo
cielo.
“Lo
siamo ancora?”, e mi sembra incredibile, “dico, nonostante tutto. Io e te?”
Un
cenno di assenso e il suo sorriso più grande, quello che sa di primavera,
quello che non ho scordato perché lo conosco da quando ci siamo prese per mano
il primo giorno d’asilo, senza nemmeno conoscerci. E da allora non ci siamo più
lasciate. Cioè lei non mi ha più lasciata, io le ho tirato un pacco gigante. E
non importa se siamo quasi a Natale.
“È
la nostra cena tradizionale, l’hai scordato?”
“No,
certo che no”. Bugiarda.
Insomma,
ho avuto altro a cui pensare, e cenare a casa dei Pitti, con tutto quello che
ho dentro, con tutto quello che cerco di soffocare, con questo macigno di
sentimenti che è diventato un pachiderma sul petto, che non riesco a smaltire
nemmeno con chilometri di pedalate sulla mia bicicletta, dico, ne avrei
volentieri fatto a meno. Amiche del cuore o no.
“E
ti ho anche trovato uno che si sieda accanto a te”.
“Allora
è una vendetta?” sibilo socchiudendo gli occhi e preparandomi al peggio.
Lo
sapevo, lo sapevo!
Lo
sapevo che c’era qualcosa sotto, che questa storia del cesto regalo era un
trucco, un inganno, una stramaledetta trappola. Stavo quasi per mollare il
pacco a terra per abbracciarla! Accidenti se sa essere stronza! Ritiro tutto
quello che ho pensato di carino nei suoi confronti.
Erika
aumenta impercettibilmente il sorriso e prima che riesca a rispondere, qualcuno
ci interrompe, comparendo sulle scale alle mie spalle.
“Lentiggini”.
E
al suono di questa voce, mi sa che io e il pacco stiamo per svenire.
Va bene. La vita è proprio uno
schifo. Certi giorni vorresti darle quattro calci nel sedere e stare a guardarla
con un piede sulla sua tronfia pancia gongolante, e certi altri vorresti
prenderla a braccetto e farci quattro chiacchiere davanti ad una pizza e una
coca cola.
Io
non so esattamente quale opzione potrei scegliere stasera. Perché non ho ben
capito se Erika fa sul serio o mi sta prendendo in giro. Perché se fa sul
serio, non mi conosce affatto – il che è molto più che uno schifo – e se mi sta
prendendo in giro, giuro che stavolta l’ammazzo.
Perché
lei sa.
Le
ho confessato in una mail lunga un chilometro e codarda come la sottoscritta,
perché ho sentito il bisogno di mollare tutto, di andarmene, di pensare solo a
me stessa. Di dimenticare quanto è accaduto quest’estate. Una serata sotto le
stelle, un ballo, un abbraccio e un paio di strette di mano. Con il ragazzo di
cui sono perdutamente innamorata.
Da
tutta la vita.
Ah,
sì. C’è anche un appuntamento mancato.
E
un desiderio a una stella cadente.
Forse
tutto sommato, sono poco più che un paio di illusioni.
Erika
mi volta, acciuffandomi per un gomito, come si fa con i manichini esposti nelle
vetrine, me e il mio ingombrante cesto che pesa una quintalata – ma che ci avrà
messo zia Agnese? – e forse sto facendo scena muta da un po’ troppo tempo per
non apparire in catalessi.
“Chris,
è arrivata finalmente”.
Oddio,
ha detto il suo nome.
Suo
fratello è qui.
È
davvero lui.
Se
alzo gli occhi, se trovo il coraggio di mettere fuori il naso da questi
fiocchi, se mi ritorna l’uso della parola, se mi ricordo come si fa a mettere
in fila due frasi di senso logico, allora è possibile che io lo riveda.
“Ciao”.
Lui.
In
tutto il suo quasi metro e novanta, gambe lunghe e toniche da buon sportivo,
spalle ampie, braccia robuste, mascella ingombra di barba rada e incolta, bocca
piena aperta in un sorriso un po’ sghembo, naso dritto e proporzionato, capelli
striati di biondo, leggermente mossi e un po’ lunghi sul colletto, e gli occhi.
Di un celeste indefinito, a metà tra il turchese e il pervinca.
Chris
è qui di fronte a me, camicia immacolata, pullover azzurro e jeans. Con
gentilezza mi libera dal cesto. Io lo guardo con la stessa espressione
intelligente di una tartaruga che rumina una foglia di insalata.
“Ciao”
la mia voce ha gracchiato solo un momento. Ma ci sta, posso far finta di avere
un momentaneo raffreddore. Sono le sei di sera del ventitré di dicembre e ci
sono sette gradi. Pioviggina e sono zuppa. I miei capelli sono in ordine come
se un paio di galline ci avessero appena covato le uova e indosso una giacca a
vento giallo papera, in tinta con i miei stivali.
Mi
manca solo il bassotto della Petix.
“Tutto
bene?”
Stavo
meglio prima, quando mi crogiolavo nel mio dolore perfetto, guardandoti in
fotografia, e rileggevo il tuo sms striminzito, che non ho avuto cuore di
cancellare dal mio cellulare. Tu invece, oddio. Forse sei ancora più bello di
come ti ricordavo. E mi stai sorridendo in una maniera così speciale, che il
mio piano di dimenticarti sta già andando a farsi benedire.
Scrollo
leggermente il capo, tirandomi indietro un paio di ciocche umide dietro le
orecchie.
“Terra
chiama Ronny” borbotta Erika al mio fianco.
Okay
è deciso. Dopo cena l’ammazzo.
“Bene,
sì… Allora, quanto ti fermi?”
“Tre
giorni appena. Sono atterrato a Pisa stamattina”. Chris ha il mio cesto fra le
mani, e su di lui fa un effetto eccezionale, come se fossero appena usciti da
qualche spot pubblicitario. Se avessi la mia reflex farei uno scatto. Con la
luce dell’applique dell’ingresso che gli accarezza il profilo, creando un
morbido controluce sui suoi capelli. Mi prudono le mani dalla voglia di
accarezzarli e le caccio in tasca di botto, per paura di fare qualche
stupidaggine. Sono fuori da ogni controllo. Cioè Chris mi fa sentire così.
Lui
è il mio primo abbraccio, il mio primo ballo, il mio desiderio a una stella
cadente.
Lui
mi ha riaccompagnata a casa dopo una festa, promettendomi che ci saremmo
rivisti il giorno dopo e che poi è partito improvvisamente all’alba,
lasciandomi solo un sms di scuse.
Sono
proprio patetica.
A
pensarci bene, così a mente fredda, dopo tutto questo tempo, non so nemmeno
perché ci sono rimasta male. Avremmo dovuto vederci solo perché si era offerto
di darmi ripetizioni per recuperare le materie in cui ero stata rimandata. Come
fa un buon amico. Come avrebbe fatto con Erika.
Perché
io per lui sono come una sorellina.
Nulla
di più.
Mentre
per me lui è tutto.
Nulla
di meno.
“Allora
rimani a cena?” mi chiede osservando il mio viso, come se stesse riscoprendo
qualcosa che non ricordava.
Forse
ho dimenticato di depilarmi quei quattro peli che uniscono le mie sopracciglia.
“C’è
molto lavoro in negozio” protesto passandomi due dita all’attaccatura del naso,
così per controllare.
Erika
batte un tacco dieci a terra – da quando i suoi le lasciano portare delle
scarpe così assurde? - le braccia conserte “I tuoi zii mi hanno assicurato che
ti avrebbero dato la serata libera. È la nostra cena tradizionale prima del
Natale. Sono dieci anni che la passiamo assieme, Ronny”.
E
ogni anno mi sono seduta lontana da Chris, osservandolo come si fa con il
proprio cantante preferito, con l’attore dei tuoi sogni, il calciatore della
tua squadra del cuore. Insomma, in delirante adorazione. Se fosse una rockstar
è sicuro che andrei in giro con la sua foto spiaccicata su una decina di
magliette.
Sospiro
piano, perché forse mi sono pure dimenticata di respirare negli ultimi cinque
minuti.
“Allora
è tutto a posto” conclude Chris e dà un’occhiata al cesto “Lo sistemo da
qualche parte, prima che mamma lo veda. È una sorpresa”.
Annuisco
e sbircio Erika. Forse dovrei darle il beneficio del dubbio. E forse non è
proprio una trappola.
D’accordo,
l’ammazzo domani.
“Andiamo,
Cenerentola” commenta lei e mi prende sottobraccio trascinandomi verso le
scale.
Sfioro
la spalla di Chris, involontariamente.
E
il tempo si ferma.
Il
suo viso si china sul mio che si alza, così come un girasole, verso l’astro da
cui dipende.
“Sono
felice di rivederti”.
Il suo sorriso
mi arriva dentro, al centro del petto, dove il cuore, quel farabutto, schizza
come se fosse stato rianimato col defibrillatore.
“Sì, anche io”.
Che altro potrei
dire? È la pura verità.
“Che vuoi fare,
Erika?”
“Voglio dare una
spinta al destino”.
Tanta spudorata inaspettata
incredibile sincerità mi lascia muta per un minuto buono.
Pensavo di
doverle spiegare chissà quale straordinario teorema e lei mi spiazza con una
frase del genere.
Poi mi passa un
asciugamano, così morbido che ci tuffo il naso dentro e accidenti, vorrei
rimanerci nascosta almeno per un’altra mezz’ora. O forse tutta la sera.
Allora realizzo
ciò che mi ha appena detto. Ed esco fuori dalla spugna, con i capelli arruffati
che mi si appiccicano agli occhi.
“Quale destino?”
“Lascia fare a
me, intesi?”
Scosto i capelli
dal viso e mi fa segno di togliermi l’impermeabile e gli stivali.
“Voglio
andarmene a casa” borbotto rabbrividendo “Non mi sento bene”.
“Le solite
balle” agita una mano, dandomi le spalle e apre le ante dell’armadio “Starai
meglio dopo che ti sarai tolta quella roba zuppa di dosso”.
Siamo nella sua
camera da letto, che è un incanto, un sacco di malva e tanto tulle, il letto a
baldacchino e ogni dettaglio uscito da una rivista di arredamento. L’armadio
occupa una parete e dentro c’è un’intera collezione autunno inverno di FruFru e
MiaoMiao. Io gli stilisti non li conosco, non so se si è capito.
“Ecco, penso che
questo e questo andranno benone” e tira fuori un abitino e forse un golf, o
chissà come si chiamano in gergo, e me li sistema davanti, fissandomi con
occhio critico.
Questa scena
l’ho già vista.
Qualcuno che
tenta di trasformarmi in Cenerentola. Con vestiti che non indosserei mai,
tacchi, trucco parrucco e tutto il resto. E siccome questa fiaba è la mia e non
quella di Cenerentola che rimorchia il principe con una scarpetta di cristallo,
è sicuro che andrà a finire esattamente come la prima volta. Con una me che non
sono io. E un principe che sparisce all’alba a bordo di un aereo.
Anche se non so
come potrei mai avere una chance con Chris – la sola idea mi fa attorcigliare
le budella - vorrei averla con i miei stivali giallo papera.
Insomma stiamo
parlando per ipotesi.
In quale vita
potrei mai sperare che lui la smetta di vedermi come Lentiggini l’imbranata, la
distratta, la goffa amica della sua sorellina? Lui è Chris. Ed è solare,
attento, atletico, prestante, intelligente, generoso e bellissimo. E io sono
solo Ronny.
Per di più sto
ancora guarendo dall’ultima volta che gli sono stata troppo vicina, vestita da
principessa. E ho pensato che potesse avermi vista davvero.
In realtà mi
sono solo scottata. E sento ancora il dolore delle bruciature.
“Non se ne parla”
commento a voce alta, scuotendo il capo “Accetterò un paio di scarpe,
possibilmente non troppo strette e senza tacco, e asciugherò questi jeans e il
maglioncino, che vanno benissimo”.
Erika fissa me e
i miei indumenti come un insetticida con una fila di formiche.
“Ronny, così non
aiuti il destino”.
“Al destino
dovrei interessare io. Non quello che indosso”.
“Conciata così,
il condizionale è d’obbligo”.
“Ma l’hai letta
davvero la mia mail?”
Erika butta
sulla poltroncina, accanto alla finestra, il mio look perfetto. “Sei volte” e
si china sotto il letto alla ricerca di qualcosa. “L’ho praticamente imparata a
memoria”.
“E non ne hai
fatto parola con nessuno, vero?” mi informo tentando di usare un tono
tranquillo “Cioè l’hai cancellata, eliminata, distrutta dopo la sesta volta, di
modo che nessuno, all’infuori di te… Sì, insomma, lo sa… ”
“Eccole qua,
sono il tuo regalo di Natale”, esce fuori con un paio di ballerine color bronzo
e me le porge “E comunque, lo sapevo anche senza quella mail”.
“Grazie, sono
bellissime”. Afferro le scarpe e me le tengo strette al petto e rimango così,
come se lei mi avesse appena lanciato una scialuppa di salvataggio.
Erika fa su e
giù per la stanza, apre un paio di cassetti, afferra una spazzola e un phon e
torna verso di me. Che sono ancora qui, in piedi, fradicia e incredula. Una
papera in mezzo a tutto questo tulle color malva.
“Lo so da un
sacco di tempo” e si stringe nelle spalle sorridendomi “Ti asciugo i capelli,
siediti dai”. E mi indica il letto, dove mi lascio cadere, un po’ rintronata.
“E se ti fa
sentire meglio, sì, l’ho cancellata”.
Faccio un
sospiro di sollievo.
La lascio
armeggiare con i miei capelli, che asciuga, scalda, tira, piega. Non mi ribello
perché non ne ho le forze. Perché Erika mi conosce anche meglio di quanto io
conosca me stessa. Ed è per questo che è la mia migliore amica. Non ha bisogno
di confessioni, di dichiarazioni, di chiarimenti, di parole superflue. Lei sa
semplicemente chi sono. Me e i miei segreti. E gli vado bene anche così.
Sarà meglio non
dirlo a Floppy o mi terrà il muso per una settimana.
“È tardi, non
asciugheremo mai i tuoi vestiti in tempo” e spegne il phon “Ti presto un paio
di jeggings e un maglione asciutti, ti va?”
“Da quando lo sai?”
Mi spazzola i
capelli e penso che non indovinerà mai.
“Lo adori da
quando ti sei sbucciata le ginocchia, cadendo dal triciclo al parco giochi”.
Adesso vorrei
sprofondare in mezzo al tulle.
Erika si siede
vicino a me sul letto, mi mette sulle ginocchia un paio di jeans puliti e
incurva la bocca in un bel sorriso. “Lui è straordinario. E non solo perché è
mio fratello. Ed è impossibile non volergli bene”.
“Sono come tutte
quelle sciocche ragazzine che gli correvano dietro a scuola” mi nascondo la
faccia tra le mani “Ma ci ho provato, giuro che ci ho provato, a togliermelo
dalla testa”. Apro un paio di dita e sbatto le palpebre lì in mezzo “Tu mi
credi, vero? Lo sai che nonostante tutti i miei sforzi, nonostante io sappia
che è una follia, che ne verrò fuori con le ossa rotte, che prima o poi troverà
la sua persona e dovrò affrontare la realtà e magari andare a vendere gelati a
Zanzibar per dimenticarlo” e prendo fiato “Non l’ho fatto apposta. A farlo
entrare qui dentro?”
Mi porto una
mano sul cuore, come se fossi davanti a un giudice, a un prete, a un boia.
Sto giurando.
Che il mio cuore ha scelto per me. E lo ha fatto senza chiedere il mio
permesso. Potrei mettermi in lista per un trapianto. Ma sono faccende lunghe, e
certo ci sono casi più gravi del mio.
“Ronny, non
siamo più delle ragazzine” Erika mi sistema i capelli, mi appunta un paio di
forcine sopra l’orecchio destro “Credo che anche lui se ne sia accorto,
finalmente”.
“Che vuoi dire?”
“Solo che deve
lasciarci sbagliare. E capire da sole ciò che vogliamo. Anche senza il suo
aiuto”.
Questa cosa l’ho
già sentita. E comunque, chissà che mi ero immaginata.
“Sei arrabbiata con me?”
“Per cosa?”
“Per non avertelo detto prima”.
“Oh, me l’hai
detto” e china un poco il viso verso il mio “Praticamente tutti i giorni”.
“Quindi hai
organizzato questo Natale a Forte dei Marmi, per me?” Indago, scalciando via i
jeans bagnati e togliendomi il maglioncino umido.
“Cosa vuoi che
ti dica?” Erika mi passa un maglioncino di un bel celeste, con lo scollo a V e
quei cosi che ha chiamato con quel nome strano “Io e Chris siamo più simili di
quel che pensi”.
Indosso le
ballerine e sono pronta. “Dannatamente perfetti, come i vampiri Cullen?”
Lei scoppia a
ridere. L’abbraccio forte. E mi sento a casa.
Poi mi scosto un
attimo per fissarla in volto “Che cosa hai detto?”
“Che ho convinto
i miei e Chris a passare il Natale qui, perché qui c’è Ronny. Perché Ronny è un
pezzo della nostra famiglia”.
“Mi odieranno”.
Mi spinge via
bonariamente “Ti vogliamo bene, invece”.
Annuisco e le
prendo le mani “Sì, anche io a voi”.
“Mi sta colando
il miele dalle orecchie” mi tiene per mano e mi trascina verso la porta.
“Vedremo quanto mi vorrai bene, alla fine di questa serata”.
Le cene prenatalizie a casa dei
Pitti sono assolutamente strepitose. Candele dorate, in tinta con le posate,
piccoli calici che fungono da segnaposto, pieni di ghiaccioli che fluttuano
nell’acqua insieme a bacche rosse, tovaglia dorata e uno scampolo di organza
rossa che attraversa il tavolo da pranzo e che brilla sotto la magia delle luci
del maestoso albero di Natale, piazzato accanto al camino. Ci sono perfino le
calze attaccate alla mensola, addobbata con rami di pino e stelle rosse, e si
sente profumo di neve e mele caramellate.
Il signor Pitti
è un avvocato penalista, la signora Pitti si occupa di marketing per
l’editoria. Sono una bella coppia, brillante e molto affiatata. E soprattutto
evitano di chiedermi perché accidenti mi sia trasferita qui in Toscana. Ci sono
un paio di loro amici, ospiti qui con una figlia che ha appena iniziato
l’Università, tale Silvia, mora alta e carina, che è seduta di fronte a Chris e
che pende praticamente dalle sue labbra.
Vorrei tanto
infilarle un paio di ghiaccioli in un occhio. Magari anche più di un paio. Si
vede lontano un chilometro che non gliene frega un accidente degli ultimi posti
che Chris ha visitato per lavoro - visto che fa il pilota per una piccola
compagnia aerea - e continua ad emettere strani monosillabi, infarciti da
risatine idiote, da almeno un’ora buona. Cioè da quando ci siamo messi a
tavola. Per di più ha un vestitino con uno scollo esagerato dove farei
volentieri canestro con le bacche rosse. Così giusto per movimentare la serata.
Erika, di fronte
a me, ogni tanto le fa il verso e io devo camuffare una risata nascondendomi
dietro il tovagliolo.
C’è di buono che
la mia sedia è a circa quindici centimetri da quella di Chris. Che mi versa
l’acqua, mi passa il pane, i vassoi, e mi sorride nel fare tutte queste cose. E
ad ogni sorriso mi sento come le lucine di Natale sull’albero. Mi illumino ad
intermittenza.
Sarà meglio
staccare la spina o finirò per andare in cortocircuito.
Così non aspetto
più di cinque minuti dopo il caffè per ringraziare, salutare, abbracciare i
Pitti, dare una stretta di mano anziché un pugno in un occhio a Silvia, e farmi
accompagnare da Erika alla porta.
“Grazie per
l’ottima cena” le dico mentre lei mi passa il mio impermeabile giallo,
perfettamente asciutto e gli stivali.
“Non vorrai
tornare a casa in scooter con questo tempo?” mi domanda con un sorrisetto
furbo.
“Certo che sì”
mi vesto così in fretta che ho già la testa fuori dalla porta “Ci sentiamo
domani?”
“Contaci”.
Sono già sul
vialetto, sotto la pioggia. Dannata lei. E mi copro la testa con il cappuccio,
guardandomi in giro in cerca del mio scooter. Che è sparito.
Andiamo, che
scherzo cretino!
Erika ha già
chiuso la porta di casa. Sto per suonare di nuovo il campanello, quando un paio
di fari escono dal garage sotterraneo alla mia sinistra.
Compare una BMW
X5 nera. Il finestrino del lato passeggero si abbassa. Chris è al volante. Il
suo sorriso sghembo mi scuote dentro insieme al suono della sua voce, con tutti
i suoi bassi così musicali.
“Lentiggini, ti
accompagno io”.
Mi volto appena
e con la coda dell’occhio vedo Erika che mi saluta con la manina dalla
finestra.
Forse è questa
la sua idea di dare una spinta al destino.
E allora chi
sono io per oppormi?
Appena richiudo la portiera,
bisticcio con la cintura per inserirla e Chris viene in mio soccorso.
“Lascia fare a
me”.
Annuisco, perché
le sue dita sfiorano le mie e il brivido che mi attraversa il braccio mi ha
semplicemente tolto l’uso momentaneo della parola. E anche quel brillio
incredibile di coraggio che mi ha spinto ad accettare il suo passaggio fino a
casa degli zii.
Il viaggio
durerà al massimo dodici minuti.
Ma non credo che
sopravvivrò.
Siamo da soli.
Io e lui. Nella sua auto. Sento il profumo della sua colonia, che sa un po’ di
mare e un po’ di limone, e non posso fare a meno di ripensare alle sue braccia
che mi avvolgono mentre balliamo al chiaro di luna sulla spiaggia. La
sensazione del suo corpo caldo che stringe il mio è così viva nella mia testa
che deglutisco a vuoto, aggrappandomi al sedile. È come se le mie mani, al
ricordo, tentassero di raggiungerlo per conto proprio. Sono così concentrata
nel tentativo di tenerle a bada che quasi non mi accorgo che Chris mi sta
parlando.
“Tutto bene?”
“Sì” e aggiungo
“Non dovevi disturbarti”.
“Per me è un
piacere” scala la marcia fermandosi ad un semaforo “Inoltre devo ancora farmi
perdonare per l’ultima volta che ci siamo visti”.
Faccio la conta
dei semafori rossi da qui al negozio degli zii. Perché sto tentando di non
pensare proprio a quell’ultima volta.
“Insomma. Ti
avevo fatto una promessa e non l’ho mantenuta”. Riparte, inserendosi nuovamente
nel traffico, piuttosto sostenuto, nonostante l’ora. La gente è in vacanza. I
negozi sono aperti. C’è un tripudio di luci e alberi di Natale che scintillano
ad ogni angolo. Nonostante la pioggia. Che sembra diminuita.
“È il tuo
lavoro” e azzardo un’occhiata al suo incredibile profilo “Non hai nulla da
farti perdonare”.
“Ma sei
arrabbiata con me”.
Che stai
dicendo? Come potrei essere arrabbiata con te? Mai e poi mai. Nemmeno se non ti
rendi conto di ciò che sei per me e da quanto tempo lo sei.
“No davvero”.
“Allora perché
non hai risposto al mio messaggio?”
Uno scambio di
sms? Ma sei pazzo? Avrei iniziato a balbettare anche per iscritto.
“Non credevo
fosse necessario” infilo le mani sotto le ginocchia “E comunque me la sono
cavata. Sono stata promossa. Anche senza il tuo prezioso aiuto. E ora il liceo
qui va meglio. Direi”.
Sì, beh, a parte
il fatto che la vita sociale è sempre a zero, esco di rado e parlo solo ai
clienti degli zii, almeno i voti sono migliorati.
“Ecco, a
proposito. Perché ti sei trasferita?”
Ah, ma allora, che
cos’è, l’Inquisizione?
“Mi trovo bene
dagli zii” e non è poi una bugia.
Ecco siamo
arrivati. Qui inizia il tratto pedonale. E non c’è parcheggio. Quindi devo per
forza scendere e concludere questa imbarazzante conversazione.
Ma Chris mi pare
sia intenzionato a trovare un posto dove lasciare l’auto. Forse ha qualche
commissione da fare.
“Stai fuggendo
da qualcosa, Ronny?”
Da te. Da quella
stupida serata insieme. Da Erika. Dalla tua famiglia. Dalla possibilità di
incontrarti ancora. Perché sei come una droga, qualcosa di cui non posso fare a
meno. Perché sei come uno dei miei respiri, ti sento dentro come un battito del
cuore, così forte che a volte mi fa persino male ascoltarlo. E vorrei se ne
stesse zitto. Almeno per un secondo. Anche se significherebbe non sentire più
nulla.
Scuoto il capo.
“No, che dici?”
“È accaduto
qualcosa a Milano? Qualcuno ti ha dato fastidio? Se vuoi parlarne io sono qui”
e si infila in una stradina secondaria, dove trova finalmente un posto per
parcheggiare l’auto.
“No, te lo assicuro.
Niente del genere”.
“Me lo diresti?”
“Chris, volevo
solo rimanere qui. Non c’è altro” mi volto appena a guardarlo da sopra una
spalla, mentre sgancio la cintura di sicurezza “Grazie. So che ti preoccupi per
me. Ma anche se non te ne sei accorto, sono piuttosto cresciuta e in grado di
cavarmela da sola”.
“Lo so bene” e
aggiunge piano “Me ne sono accorto”.
“Allora, grazie”
ho un piede fuori dall’auto “E buon viaggio se non ci vediamo più”.
Ma lui scende a
sua volta, apre l’ombrello, chiude lo sportello e mi raggiunge.
“Perché ho
l’impressione che tu stia cercando di congedarmi?”
Ma se sogno
costantemente di abbracciarti e non lasciarti andare mai più?
“Credevo volessi
tornare dai tuoi ospiti”.
“Se la caveranno
benissimo anche senza di me” e mi strizza l’occhio “Facciamo due passi, ti va?”
Insieme, al riparo sotto l’intimità
di un ombrello, in uno spazio talmente ristretto che la possibilità di non
stargli appiccicata è nulla. Mi butto il cappuccio dell’impermeabile sulla
testa e infilo le mani nelle tasche.
Sto
iperventilando. E inciampo in qualcosa. Forse nei miei stessi piedi.
La mia mano
nemmeno chiede il permesso al cervello e cerca il sostegno del suo braccio. Le
mie dita percepiscono solidi muscoli, sotto lo spessore della giacca di lana
cotta che indossa, e ne ricordo il calore attorno alla vita, quando mi hanno
cinta durante il nostro ballo al chiaro di luna. Il suo corpo vicino al mio è
come se provocasse un milione di scintille a tutti i settori del mio sistema
nervoso centrale.
E anche se sono
mesi che mi ripeto che devo smetterla con questa follia, non c’è un solo posto
al mondo dove vorrei essere, se non qui, con lui, che è finalmente accanto a
me, in questa serata che di colpo ha smesso di essere gelida.
“Tutto okay?”
mormora chinandosi un poco verso di me.
Il suo volto
riempie il mio campo visivo. Non sento più nemmeno i rumori attorno a noi. Il
mondo ha smesso di girare credo. Forse per un nano secondo. Fisso la sua bocca
che si muove come se non riuscissi a comprendere quello che mi sta dicendo.
Deglutisco a
vuoto, e sono direi abbastanza in preda al panico. Perché giuro che vorrei
baciarlo. Qui adesso subito.
“Sì”. Lascio il
suo braccio, come se mi fossi scottata. “Cioè no. Sono in ritardo. Gli zii
saranno in pensiero. Devo andare. Scusa”.
Non aspetto
nemmeno che mi risponda. Perché potrei commettere una sciocchezza. Una follia.
Qualcosa di cui mi pentirei sicuramente. Qualcosa che potrebbe far finire per
sempre la nostra bella amicizia. Questo legame che comunque ci unisce. Non come
vorrei. Ma per la miseria, dovrei solo imparare ad accontentarmi e smetterla di
sognare l’impossibile.
Sono così presa
dallo slalom in mezzo a questo mare di persone, che non sembra avere un solo
problema al mondo, da non rendermi conto nemmeno di dove sto andando.
Ci sono
bancarelle di ogni tipo, al riparo sotto tendoni illuminati da file di luci
intermittenti e multicolori. La gente sorride, si muove, chiacchiera, si ferma
a parlare in ogni angolo, e le vie sono inondate da canti natalizi in filodiffusione.
Io so soltanto
che voglio mettere tra me e Chris un sacco di distanza. E rifugiarmi il prima
possibile al sicuro nella mia soffitta. E vuotare il sacco con Floppy.
La bici mi
prende in pieno. Forse nel mezzo di questi pensieri. O di un pezzo di quelli di
prima. Non saprei dirlo con certezza perché finisco lunga distesa a terra,
sull’asfalto bagnato, come una balena spiaggiata.
Il gomito destro
mi brucia parecchio, insieme forse ad un ginocchio, ai miei palmi e al mio ego.
Riapro gli occhi mettendo a fuoco il riverbero delle luci sulla pozzanghera ad
un soffio dal mio naso e un paio di scarponcini da uomo. Insieme ad un paio di
persone che si sono voltate per vedere che sta succedendo.
“Ronny!”
Chris è chino su
di me. Il suo bellissimo volto è così preoccupato che l’impresa di non
scoppiare a piangere come una fontana, si rivela più dura del previsto.
Devo deglutire a
vuoto un paio di volte. Magari qualcuna in più. Il magone è così prepotente,
così attaccato alla mia gola da non riuscire a scacciarlo via.
Sta
piovigginando. Di nuovo.
“Sto bene” assicuro e la voce non mi
appartiene.
“Non direi proprio”.
Il tizio che mi
ha speronata si offre di aiutarmi, ma Chris lo tiene lontano con una mano
“Lasciala, ci penso io. Mi pare che tu abbia già fatto abbastanza”.
“È lei che è
spuntata in mezzo alla strada” si difende il ciclista.
“Non farmelo
ripetere due volte” e la minaccia implicita, così sottile, riesce a scuotere
anche me.
“Ha ragione, è
colpa mia. Non ho guardato prima di attraversare” ammetto, per quietare gli
animi.
“Ecco, hai
sentito la tua ragazza?”
“Sali sulla tua
cazzo di bicicletta e pedala!” Chris è davvero infuriato. La mandibola è
serrata così forte che ho come l’impressione sia tentato di prendere a pugni il
tale. Non credo di averlo mai visto così. Di solito lui è quello dai toni
moderati e io quella che attacca briga. Si vede che oggi gli astri girano al
contrario.
Il nostro
piccolo pubblico sta intanto insultando il ciclista, prendendo le mie difese.
Anche perché a Natale siamo tutti più buoni. E il tale decide bene di
andarsene, borbottando qualcosa di incomprensibile. Forse un paio di epiteti al
nostro indirizzo. Ho un moto di compassione per lui, solo per il fatto che mi
ha definita la ragazza di Chris.
“Ronny, ti porto
al Pronto Soccorso”. Con mani gentili, Chris mi circonda le braccia, aiutandomi
a mettermi seduta. Gli occhi scandagliano ogni centimetro dei miei palmi
sbucciati, lo strappo al ginocchio dei pantaloni, da cui si intravede un’altra
escoriazione.
“Non serve, sono
un paio di lividi” abbozzo un sorriso, “basterà un po’ di disinfettante e un
cerotto”. La sua testa bionda è china su di me, così vicina che potrei
accarezzargli i capelli e sentire, per la frazione di un secondo, se sono
morbidi come penso.
Ho in mente questa
stessa immagine di noi due. Un milione di anni fa. Un mare di verde intorno a
noi, punteggiato dai bottoni gialli di una manciata di margherite, il mio
triciclo con le zampe all’aria, la musica di una banda entusiasta di cicale, il
celeste di un cielo dipinto con i miei pastelli a cera.
E gli occhi di
Chris, incredibili come quel cielo. Il bagliore del suo sorriso, le sue parole
gentili e le sue braccia attorno a me, salde a tal punto da sostenere il mio
peso contro il suo petto.
Così me ne sono
innamorata.
Per sempre.
La pioggia mi
picchietta sul viso e il sole torna ad essere un lampione, in un lago di
asfalto, inondato da file di luci intermittenti del colore dell’arcobaleno.
E siamo ancora
noi due. Seppur cresciuti. Ed io lo amo esattamente come quel giorno. Come se
fosse un principe delle fiabe, Peter Pan, l’Uomo Ragno, Batman o Superman. E
accidenti vorrei ancora diventare la sua Aurora, Wendy, MJ, CatWoman o Lois
Lane.
“Ce la fai ad
alzarti?” e mi sfiora una guancia, forse per liberarmi da uno sbuffo di fango
“O devo portarti in braccio come quando avevi quattro anni?”
Sbatto le palpebre un paio di volte.
Okay, forse qualcuna di più. Mi ha letta nel pensiero?
“Cosa?” forse
non ho capito bene. O forse lui è un supereroe.
“Te ne sei
dimenticata?”
“Di che?”
Chris sorride. E
mi fa saltare il cuore in gola.
“Facciamo così”
propone, infilando un braccio sotto le mie ginocchia e uno attorno alla mia
schiena “Te lo racconto strada facendo”. E mi solleva, come se fossi poco più
che un mucchietto di panni zuppi, e mi stringe contro il suo petto.
Il nostro
piccolo pubblico accenna addirittura un applauso. Nemmeno mi avesse baciata. E
questa sì che sarebbe stata una magnifica idea. Di sicuro sarei guarita
all’istante.
Comunque non oso
protestare. Nemmeno fiato. Ho persino paura che tutto questo sia un qualche
bidone di sogno che sto facendo e che fra poco si spegnerà, come uno degli
alberi di Natale che incontriamo lungo una via laterale, fuori dal centro, che
porta alla gelateria degli zii.
“Dunque, io all’epoca
avevo circa nove anni” attacca Chris con la sua voce che mi rimbomba sotto
l’orecchio, con le sue note dolci e basse che disegnano una scia di scintille
sul mio cuore. “Stavo giocando a calcio con i miei amici, e ti ho vista
ruzzolare sulla ghiaia, insieme al tuo triciclo”.
Se lo ricorda.
Chris se lo ricorda. Condividiamo lo stesso identico ricordo di quel giorno!
Non è uno dei
miei soliti sogni perché le ginocchia mi fanno un male dell’inferno e il gomito
mi brucia peggio di prima. E i miei palmi? Me li sbircio, abbandonati in grembo
e sono messi malissimo. Che gioia, sono sveglia!
E sono fra le
braccia di Chris. E mi sento a casa.
“Pensavo ti
saresti messa a piangere, ma eri lì a terra, e ti guardavi le ginocchia
sanguinanti con un’espressione così tranquilla, come se fossi pronta a
rimetterti in piedi, a riacciuffare il tuo triciclo e a continuare a giocare,
che non ho potuto fare a meno di raggiungerti”.
Sollevo il volto
appena un pochino, così scorgo il suo sorriso e lo accarezzo mentalmente.
“Eri vestita di
giallo, con il viso delizioso girato di profilo, e un mare di onde ramate sulle
spalle, accarezzate da quel sole estivo che sembra non voler tramontare mai” fa
una breve pausa, come se stesse rivivendo quel momento “E ricordo i tuoi occhi
grigi enormi e l’espressione incuriosita che hai a volte, quando vedi qualcosa
che vorresti assolutamente fotografare”.
Siamo già
davanti la porta sul retro della gelateria. Gli zii saranno in laboratorio,
alle prese con le ultime preparazioni. Frugo alla ricerca delle chiavi in tasca
e Chris ha smesso di raccontare, come se fosse preso da qualche importante
pensiero, meditazione, particolare o affini.
“Chris” lo
chiamo a malincuore, perché vorrei rimanere qui, tra le sue braccia,
possibilmente tutta la notte. In mezzo alla pioggia e alle intemperie, sotto
questa lampada notturna che illumina lo zerbino a forma di mucca della zia.
“Mmmh?”
“Grazie. Adesso
posso fare anche da sola”.
“I tuoi zii?” mi
chiede e mi fa scivolare a terra, ancora sostenendomi in vita.
Tento di
infilare la chiave nella toppa, ma i palmi mi bruciano da morire. Chris se ne
accorge e mi aiuta ad aprire.
“Stanno ancora
lavorando”.
“Allora vediamo
se hai qualcosa per sistemare quei tagli, così gli evitiamo un inutile
spavento”.
Ad una retorica
così limpida non saprei che rispondere. Così annuisco ed entriamo.
Accendo la luce
del corridoio e imbocchiamo insieme le scale che conducono al piano superiore. L’appartamento degli zii è sopra la
gelateria, in questo piccolo edificio di tre piani, rosso incandescente.
Saliamo al rallentatore, con me che zoppico un pochino perché non riesco a
piegare bene le ginocchia, e come un automa mi fermo soltanto quando abbiamo
raggiunto la mia stanza in soffitta. Chris mi sostiene e apre la porta.
La luce della
lampada da terra illumina il mio piccolo rifugio disordinato. Una scrivania ingombra
di libri, un armadio con un’anta aperta dove spunta la tracolla della mia
reflex e qualche maglione, uno specchio nascosto da un lenzuolo, una
poltroncina - che zia Agnese ha fatto sistemare da poco con una stoffa turchese
- e un fantastico letto a una piazza e mezza. Ancora da rifare.
Sul pavimento ci
sono il mio accappatoio, il mio pigiama e il mio reggiseno.
Dio che
vergogna.
“Scusa il
disordine” mi stringo un po’ nelle spalle e di sicuro sono fucsia come le mie
pantofole a forma di maialino, abbandonate sul pigiama.
Perfetto.
Davvero perfetto. Il ragazzo dei miei sogni è qui, nella mia stanza, e sembra
che attorno a noi sia esplosa una bomba.
“Dove hai il kit
del pronto soccorso?” mi domanda Chris e non mi sembra affatto turbato da ciò
che ho lasciato in giro. Cioè chissà quanti reggiseno avrà visto nella sua
vita. E tolti. Sento che mi sta salendo la temperatura.
Invece lui è
impegnato ad osservare la parete di fronte a noi, piena delle mie foto. C’è di
tutto, cieli stellati, panorami toscani colmi di girasoli, barche di pescatori,
piazze piene di gente, ritratti in bianco e nero di sorrisi rubati, gatti
randagi, clochard, artisti di strada, i mosaici con i colori delle foglie
d’autunno, la spiaggia d’inverno, conchiglie e bimbi che costruiscono piste per
le biglie e un sacco di altre emozioni dentro qualche cornice colorata.
“Nel mobile del
bagno. Prima anta a destra” lo interrompo e lui mi studia un momento, con
un’espressione che mi sembra addirittura ammirata.
Mi aiuta a
sfilarmi l’impermeabile che appende poi all’attaccapanni accanto alla porta e
io mi siedo sulla poltrona, in zona franca. In disordine o no, il letto mi
sembra ad un tratto assolutamente pericoloso. Distolgo lo sguardo e forse
arrossisco. Sto pensando intensamente a Chris e me, sdraiati lì sopra.
Avvinghiati per la verità. E molto, ma molto impegnati.
Chris è andato a
recuperare il necessario per la medicazione e io mi libero dagli stivali e dalle
calze come posso. Guardo i tagli ai comesichiamano – di Erika, per la miseria,
e se sono firmati come penso, dovrò lavorare un’intera estate per ripagarglieli
- dove grumi di sangue e asfalto nascondono le escoriazioni e sollevo un po’ la
manica del maglioncino, per controllare il mio gomito dolorante.
“Allora, fa
male?”
Chris è già di
ritorno e si piega su un ginocchio per osservare, da vicino e alla luce, il
disastro che ho combinato da sola. Ha portato il kit per medicarmi e un paio di
asciugamani puliti.
“Sono proprio una stupida” brontolo e soffio sul gomito “Devo togliermi questo maglioncino griffato o mi toccherà aggiungerlo ai debiti da pagare a tua sorella”.
“Sono proprio una stupida” brontolo e soffio sul gomito “Devo togliermi questo maglioncino griffato o mi toccherà aggiungerlo ai debiti da pagare a tua sorella”.
Lo sfilo piano
dalla vita, un pezzetto per volta, con una difficoltà moltiplicata dal
movimento del braccio che mi fa digrignare i denti.
Le mani di Chris
mi vengono in aiuto, sollevano l’indumento con delicatezza, prima il braccio
buono, poi oltre la testa, infine lentamente, liberano il gomito dal pizzicore
della lana sull’abrasione. Il livido è già evidente, gonfio, violaceo, striato
di sangue tutt’attorno.
“Stavi scappando
da me” gli sento dire “È mia la colpa”.
Sollevo il viso.
E sono ad un soffio dal suo. E mi rendo conto dell’intimità che abbiamo appena
condiviso. Delle sue mani che ancora stringono il maglione che mi ha tolto.
Il sangue mi
romba nelle orecchie come se mi fosse scoppiato un tuono dentro. Chris ha negli
occhi quel calore speciale che mi fa sentire il cuore come la pallina di un flipper
impazzito.
E mi sento
esposta, seppure con questa pudica canotta gialla e i jeans.
Tuttavia devo
cancellargli dal viso la ruga preoccupata che gli solca la fronte.
Scuoto il capo e
trovo il coraggio di parlare “Sono imbranata da sempre. Dovresti saperlo”.
La tensione,
quella specie di filo magico che ci ha uniti fino ad un istante prima, entrambi
si dissolvono repentini.
Non so se
dispiacermi o rallegrarmi.
La bocca di
Chris si apre in una gradevole risata. Si arma di salviettine disinfettanti e
si prende cura del mio gomito.
“I tuoi zii si
sono tirati in casa una catastrofe a catena”.
“Sì, è
probabile” concordo senza rancore “Mi spiace solo per le ultime consegne di
domani, conciata così, non so quanto riuscirò ad essergli utile”.
“Potrei aiutarti
io”.
“Che?”
L’ultima volta
che ha detto una frase del genere è partito dopo nemmeno sei ore, a bordo di un
aereo. Ed è sparito per tre mesi.
Chris si ferma,
come se avesse percepito, sentito i miei pensieri.
Cerca i miei
occhi. Così vicino mi fa mancare il fiato.
Se l’amore fosse
visibile, potrebbe smascherarmi senza fatica in questo stesso istante, solo con
questo scambio di sguardi. Senza nemmeno scavare in profondità. Perché ogni
cosa, tutto ciò che sento per lui è salito in superficie ed è come una bandiera
mossa dal vento, in un mare cristallino.
Sono stanca di
mentire a me stessa. Di mentire anche a lui. Stanca di nascondermi. Di far
finta che il mio cuore non mi stia gridando il suo nome a gran voce, come un
pazzo furioso, qui nel petto, mosso da una forza che stento a controllare.
“Non me ne andrò
all’alba, stavolta”.
Accidenti ma
allora ha davvero dei super poteri.
“Promesse da
marinaio” lo canzono inarcando un sopracciglio.
Lui mi prende
una mano, palmo lacerato all’insù e sorride, mentre pulisce con cautela la
ferita “Sono un pilota e un quasi ingegnere aerospaziale”.
“D’accordo.
Promesse da pilotaquasiingegnere”.
Lui ridacchia,
applica un cerotto al mio palmo sinistro e prende in cura l’altro “Sto
preparando la tesi, Lentiggini”.
“Sono
impressionata”.
Il suo sorriso
si fa più ampio. “Dovresti esserlo. Spedirò in orbita qualche satellite e mi
intervisteranno alla BBC”.
“Potresti anche
andarci tu in orbita. Probabilmente saresti l’astronauta più bello, nella
storia delle missioni spaziali, con indosso la tuta da marziano”.
La sua bocca si
incurva in un sorriso piuttosto compiaciuto e io mi rendo conto di avergli
appena fatto un palese complimento.
“EMU” aggiunge e
applica un cerotto al mio palmo destro “È il nome della tuta”.
“Davvero
originale”.
“Adesso le
ginocchia” mi esorta divertito.
“Dovrei
togliermi i jeans davanti a te?” mi sento chiedere, rossa per la vergogna.
Sbirciando il letto, è più che ovvio che il mio corpo traditore e bugiardo, lo
farebbe senza nemmeno porsi la domanda.
“Lentiggini, è
come se fossi mia sorella”. Con garbo si alza e si volta, facendo qualche passo
verso l’abbaino “Comunque per domani, voglio aiutarti sul serio”.
E non sa, non
può immaginare, che vuoto dentro, che polverone ghiacciato ha provocato in
fondo al mio petto, con queste sei parole. Che colpo al cuore mi ha appena
dato, così con il più micidiale dei pugni.
Mi sento
stordita. Come se mi fossi appena svegliata col mal di testa dopo una sbronza.
E io non bevo. Ma giuro, in questo momento vorrei esserne capace. Perché mi
sono di nuovo avvicinata troppo. E mi sono scottata. Ancora.
Mi alzo, tolgo i
jeans quasi con furia, e il dolore alle mani si accentua e mi concentro proprio
su questo, afferro l’accappatoio, lo infilo in fretta e lo annodo ben stretto.
“Chris, non ce n’è bisogno. Troverò una soluzione”. Il mio tono ha perso ogni
tipo di sfumatura. “E posso fare da sola anche qui, adesso”.
Lui mi fissa
oltre una spalla, le mani incrociate al petto. Forse c’è qualcosa sul mio viso,
lo vede. Corruga appena la fronte in cerca di risposte. O forse è solo la mia
impressione.
Si volta, copre
la distanza che ci separa, poca cosa, tre passi appena “Scusa, ti ho messa in
imbarazzo?”
“Niente affatto.
Hai ragione, siamo come fratelli. Ci conosciamo da tutta la vita. Non
arrossisco certo perché sono praticamente in mutande, nella mia camera da
letto, da sola con te”.
Inaspettatamente
i suoi occhi mi percorrono da capo a piedi. Così come se stesse verificando la
veridicità delle mie parole, rendendosi conto ad un tratto che è semplicemente
la realtà dei fatti. Il colore dei suoi occhi si fa di colpo più intenso, più
scuro, si passa una mano fra i capelli e poi l’allunga verso di me. Mi
accarezza una guancia, allargando il palmo aperto sulla mia pelle, e non so
davvero che cosa stia pensando perché il suo volto non lascia trasparire nulla.
Infine si china
su di me, quanto basta per farmi schizzare il cuore contro la gola. E posa la
sua bocca sulla mia guancia. In un saluto tenero e fraterno al tempo stesso.
“Buona notte,
Lentiggini”.
Quando si volta
perforo la sua schiena con occhi lividi di rabbia, così nera che mi viene da
tirargli dietro qualcosa. Afferro un cuscino e lo spedisco contro la porta
chiusa. “Buona notte un corno”.
Al mattino sono ancora arrabbiata.
Brutto segno. Io mi sveglio sempre col sorriso, perché sogno Chris.
Stanotte invece
non ho sognato nulla che ricordo, sicché lui non era presente. Meglio. Non
credo di volerci avere a che fare almeno per altri tre mesi. Magari è
ripartito, come al suo solito, per qualche rotta di piacere, a bordo di un piccolo
aereo con gente danarosa, belle donne che viaggiano e quasi certamente gli
sbavano dietro come quella Silvia di ieri sera. Senza contare tutte le altre
che ho avuto la sfortuna di intravedere nel corso degli anni.
Che stupida
agonia.
Chris è semplicemente
irraggiungibile, come i satelliti che vorrebbe mandare in orbita. E io passerò
tutta la vita a cercarlo con un occhio schiacciato contro un telescopio.
E accidenti è
anche la Vigilia di Natale. E sono piuttosto ammaccata, fuori e dentro e mi
tiro su a fatica dal letto. In qualche maniera mi do una sistemata, lavata alla
meglio, mi vesto zampettando per la stanza, acciuffo il mio impermeabile e i
miei stivali e scendo in cucina.
Non c’è nessuno.
Gli zii devono già essere in negozio. C’è Floppy però nella sua gabbietta, al
calduccio in mezzo a un sacco di paglia. Il suo musetto nero vibra divertito
facendomi una specie di sorriso. Almeno lui mi vuole bene. Anche se credo si
tratti solo di convenienza, visto che gli sto mettendo viveri di prima necessità
negli appositi contenitori.
“Non fare l’offeso, non è successo niente.
Stasera se riesco ti racconto” gli dico e gli sventolo mezza carota sotto i
baffetti furbi “Hai scritto a Babbo Natale?” lui storce il musino, gli occhi
neri mi fissano attenti “Avresti dovuto farlo, perché io mi sono dimenticata di
prenderti un regalo”.
Per tutta
risposta si gira di schiena e agita il codino.
Sento la zia che
canticchia e faccio capolino oltre la porta del laboratorio. È intenta a
confezionare altri pacchi. I riccioli ramati sono ingarbugliati in uno chignon
elaborato sulla testa – e posticcio, conoscendola, durerà più o meno venti
minuti - e i suoi occhi grigi, appena mi vedono, si illuminano.
“Veronica, ben
alzata, come ti senti?”
Non ho avuto
modo di spiegarle nulla. E non ho intenzione di farlo. In qualche modo me la
caverò.
“Bene. Ho
lasciato lo scooter da Erika perché pioveva. Se lo zio ha delle consegne in
zona, vado a recuperarlo”.
“Il tuo scooter
è sotto la tettoia, al suo posto” mi informa la zia “E piove ancora, quindi
abbiamo organizzato il giro diversamente”.
“Chi l’ha
riportato?” domando sospettosa “E diversamente come?”
Non fa in tempo
a rispondermi.
La porta del
negozio si apre, con un trillo di campanelli appesi sopra un rametto di
vischio. Sulla soglia compare zio Andrea e un tizio alto praticamente quanto
lui.
“Ronny, come
stai?” mi chiede lo zio, affascinante come sempre. Gli occhi chiari mi scrutano
un momento e mi regala uno dei suoi sorrisi attira clienti, quelli del chilo di
gelato in più, delle paste doppie, delle consegne a domicilio. Non so come
faccia zia Agnese a sopportare le neanche celate allusioni delle sue fan. Forse
è proprio vero che l’amore rende ciechi e sordi. Oppure lei si fida davvero di
lui. Di loro. Di ciò che hanno, che nessuno potrà mai togliergli.
“Tutto okay”.
“Davvero te la
senti di lavorare?” piega un po’ il capo e alza il pollice facendo un cenno
dietro di sé “Allora oggi abbiamo un volontario che ti aiuterà nelle consegne”.
“Ciao
Lentiggini” Chris spunta da dietro, scrollandosi un poco l’impermeabile giallo,
che su di lui sembra un capo da passerella, e si toglie il berretto con il logo
del negozio “Va meglio stamattina?”
Ecco perché gli
zii mi hanno chiesto se mi sento bene ed ecco perché il mio scooter è sotto la
tettoia. Guardo l’orologio sopra la parete di fronte a me. Non sono nemmeno le
otto. A che ora si sarà alzato per riportarlo indietro?
Ah, no, sono
stramaledettamente arrabbiata con lui. Quindi non mi addolcirà con un paio di
premure. E quel suo favoloso sorriso.
“Meglio. Ma non
c’è bisogno che ti disturbi ancora”.
“Lingua
affilata, pessimo umore, espressione feroce” commenta zio Andrea “Magari manda
avanti Chris, oggi” e consegna al mio temporaneo collega di lavoro, la lista
con gli indirizzi per le consegne “Meglio lasciare Ronny al caldo in macchina
ed evitare di… farle prendere freddo”.
Lui e Chris se
la ridono divertiti, come se io non fossi presente.
Li fulmino
entrambi con lo sguardo.
“Ronny, puoi
rimanere con me in negozio se non ti senti” viene in mio soccorso zia Agnese,
porgendomi il cappellino identico a quello di Chris.
“Nemmeno per
sogno” attacca lo zio “Farà scappare tutti i clienti”.
“Sono pronta”
borbotto, infilandomi l’impermeabile e indossando il cappellino “Andiamo”.
E siamo fuori.
Il furgoncino giallo della gelateria è parcheggiato dall’altra parte della
strada.
“È già carico,
abbiamo parecchio lavoro e gente con un sacco di fretta da accontentare”.
“Okay”.
Mi apre la
portiera, galante come sempre o forse sta cercando di ammorbidirmi “Fatto
colazione?”
“No ho fame”.
“Sicura di stare
bene?”
“Sì”.
Lo vedo che
trattiene un sorriso mentre gira dall’altra parte per sedersi al posto del
guidatore.
Partiamo
spediti, quanto il traffico ci permette, e ci dirigiamo verso la zona delle
ville sul mare. La radio è sintonizzata su Virgin e c’è tutta un’ovvia
programmazione con vecchi successi natalizi e una serie di gruppi anni ottanta
di cui gli zii vanno matti. Oltre a tutte le novità del momento. Cose che canticchierei,
se fossi dell’umore, si intende. Me ne sto invece osticamente in silenzio,
rispondendo a monosillabi e solo se necessario. Da vera e perfetta maleducata.
Io non tengo il
muso, mai. E non vorrei tenerlo a Chris. E forse è anche per questo che sono a
dir poco infuriata. Ho spergiurato col pensiero che non sarei mai e poi mai
stata arrabbiata con lui. Ed è riuscito a mandarmi in bestia un’ora dopo aver
fatto questa disarmante dichiarazione di non belligeranza.
A metà mattinata
siamo già a buon punto sulla tabella di marcia. Chris è preciso, conosce le
strade, mi lascia sul furgone, se non troviamo parcheggio, e quasi non mi
permette di sollevare niente, con la scusa che devo riposare. Io comunque, dopo
le prime sei clienti che gli hanno lasciato una cospicua mancia e forse anche
un paio di numeri di telefono, mi sono rintanata sul mio sedile a meditare
allegri e soddisfacenti piani di vendetta.
Lui fa questo
effetto sull’altro sesso, e quasi non se ne rende conto. Dovrei esserci
abituata. E di certo non ho alcun diritto, nessuna replica che potrei fare,
nulla che possa giustificare questa gelosia che mi corrode il fegato e che mi
fa prudere le mani. Vorrei tirare un pugno ad ognuna delle stupide oche che lo
hanno sfiorato un po’ più di due minuti anche solo con uno sguardo.
Nell’abitacolo
risuona Sei dei Negramaro, con tutti
i suoi bassi cadenzati, talmente potenti da arrivarmi sotto pelle. Ogni parola
della canzone mi procura un brivido che mi fa venir voglia di scendere dal
furgone e starmene per conto mio a sbollire il mio cattivo umore. Questa
Vigilia di Natale è una pena.
Ehi, vuoi ascoltarmi? Ho ancora altre
facce da indossare, tu chi sei? Sei. Quello che vedo. Sei. Un riflesso che non
mi appartiene. Un riflesso che non riconosco…
Mi fisso i cerotti
sui palmi. È stato Chris a curarmi. E vorrei un cerotto anche per la ferita che
ho sopra il cuore. Ma questa ferita l’ha procurata proprio lui.
Involontariamente. Perché lui non sa. Non può sapere. E di certo non vorrà mai
sapere, se mi ostino a comportarmi da acida zitella incazzata.
Questa non sono
io. Non mi riconosco.
“Focaccia di
patate appena sfornata” Chris sale a bordo e mi porge un sacchetto di carta,
caldo e fumante a contatto con l’aria fredda che entra dallo sportello aperto.
“È la tua mancia?”
gli chiedo sbirciando dentro “Il profumo è fantastico”.
“È per te, la
padrona di casa dice di rimetterti presto” e mi fa segno di salutarla oltre il
finestrino chiuso.
“Che gli hai
detto?” e agito una manina al vetro appannato.
“Che ti sei
rotolata nel fango con un ciclista cieco”.
Scoppio a
ridere, mentre lui mette in moto e inserisce la retro, uscendo dal vialetto di
questa bella villetta dei primi del novecento, un po’ fuori città.
“Allora
dividiamo”.
“Vuoi dividere
il bottino con il nemico?”
“Tu sei tutto,
tranne che mio nemico”.
“Potresti
definire tutto?”
Tutto.
“Fammici
pensare”. Spezzo la focaccia e gliela porgo.
Chris apre la
bocca e l’addenta. E un’onda di emozioni mi investe. Credo sia la cosa più
intima che ho mai fatto con qualcuno. A parte Floppy, è ovvio. Cioè sto
imboccando Chris, nel senso che gli sto dando da mangiare. Lo sto nutrendo. Sto
condividendo il mio cibo con lui. Con le mie mani.
Chris fa un
verso compiaciuto, masticando di gusto.
Le sue labbra
sfiorano le mie dita mentre finisce il pezzo di focaccia che ho spezzato per
lui.
Devo ricordarmi
come si fa a immettere aria nei polmoni.
Quando do da
mangiare a Floppy lui al massimo fa tremare i baffi. Mentre a tremare qui sono
io. Il mio cuore sta facendo un sacco di capriole.
“Buona,
assaggia, dai” mi esorta Chris e mi indica la focaccia con il mento, scalando
una marcia e svoltando a destra.
Io eseguo
prontamente. La focaccia è squisita. Ne mangiamo ancora un pezzo ciascuno e mi
torna il buon umore, così come se fosse spuntato un pezzo di azzurro sopra le
nostre teste, al chiuso del nostro furgone giallo.
Gli domando del
suo lavoro, dei suoi viaggi, della sua tesi e di un sacco di altro cose. Perché
ho deciso che non voglio sprecare questo nostro tempo insieme. Nemmeno un
secondo. Inoltre, se mi tengo impegnata, eviterò di guardarmi le dita come se
mi avesse fatto una specie di incantesimo.
Il cellulare di Chris suona nella
sua tasca. Le sue interlocutrici sono per lo più donne e un paio di colleghi di
lavoro. Ovviamente è molto popolare, con tanti amici che lo cercano, avrà di
sicuro una pagina ufficiale su Facebook o su Twitter, con milioni di MIPIACE
sotto il suo viso e tanti commenti cretini sulle sue foto. E io su FB non ci
sono nemmeno e la mia vita sociale è pari a quella di uno Yeti.
Stamattina ho
persino dimenticato di caricare il mio smartfossile, così non ho ancora potuto
chiamare la mia amica, che starà aspettando con ansia, ragguagli su ieri sera.
In realtà non è
che abbia poi chissà cosa da raccontarle. E la parte in cui lui mi sfila il
maglione e mi consiglia di togliermi i jeans, per ora preferisco tenerla per
me.
“È per te” mi
dice Chris porgendomi a sorpresa il suo cellulare “Erika” e scende poi dal
furgoncino per prendere il pacco da consegnare.
“Allora, ti pare
che puoi farmi aspettare mezzogiorno per ragguagliarmi su ieri sera?” La mia
amica è piuttosto seccata.
“Stavo giusto
pensando a te. Ho il cellulare scarico”.
“Sempre la
solita. Chiedi a Babbo Natale un IPhone”.
“Sì, certo” e
inarco un sopracciglio controllando i movimenti di Chris qui fuori. “Chris ha
una pagina ufficiale su Facebook?”
“Che?”
“Lascia
perdere”.
Lei nemmeno mi
ascolta. Come al solito. “Ti sei anche fatta investire. Brava. Io non ci avevo
pensato. Cioè non sarei arrivata a tanto, ma tu sei geniale”.
“Non l’ho mica
fatto apposta!”, protesto “non riesco nemmeno a piegare le ginocchia”.
“Sì, Chris ce
l’ha raccontato. Silvia l’ha presa malissimo. Oggi doveva accompagnarla a fare
shopping. Ma lui ha detto semplicemente che sarebbe venuto in negozio ad
aiutarti”.
“Davvero?”
L’idea che Silvia l’abbia presa malissimo mi piace parecchio. D’accordo, è
Natale. La smetto.
“Comunque,
giocati bene questa Vigilia di Natale, perché è un’occasione che non si
ripeterà” e aggiunge “Per di più Chris aveva un’aria così strana, stamattina a
colazione. Almeno è quello che mi ha detto la mamma. Io dormivo, è ovvio. Lo
sai che si è svegliato all’alba per riportarti lo scooter? È un vero tesoro”.
“Strana come?”
corrugo la fronte e mi mordicchio un’unghia.
“Non lo so.
Sembrava come se stesse pensando a qualcosa di importante. Era distratto. Molto
distratto”.
“Insomma, che
dovrei fare?” sospiro forte, stringendo il cellulare fra le dita “Mi ha detto
chiaro e tondo che sono come una sorella per lui… Capisci?”
“Fallo ingelosire”.
“Che razza di
consiglio è?”
“Che ne so,
funziona sempre”.
“Oddio, che fine
ha fatto la mia migliore amica?”
“Sono qui,
scema”.
Chris apre la
portiera e mi sorride sedendosi.
“Ci sentiamo più
tardi”.
“Passami Chris”.
Gli passo il
cellulare e Chris lo incastra tra la spalla e il mento, sistemandosi la cintura
di sicurezza.
“Davvero?”
chiede alla sorella e mi sbircia di sottecchi, con un’espressione prima
incredula, poi vagamente seccata. Ma è solo un momento. O me lo sono
immaginata. Lui chiude la comunicazione e mette in moto, il volto di nuovo
tranquillo, il cellulare al sicuro nella tasca dell’impermeabile.
“Non mi hai
detto che cosa hai chiesto a Babbo Natale” mi domanda a sorpresa, depennando
dalla lista il penultimo nome in elenco.
“Niente” rispondo
e bevo un sorso d’acqua dalla bottiglia al mio fianco, inserita nel vano
portaoggetti della portiera. Che potrei dirgli? Che quello che chiedo a Babbo
Natale è uguale tutti gli anni? Che non è una cosa che può essere messa in un
pacchetto, con un bel fiocco e un biglietto d’auguri? Che non si può imballare,
racchiudere, consegnare?
“Davvero non c’è
niente che vorresti? Che ne so, magari un nuovo obiettivo per la tua reflex, un
filtro, una borsa, un cavalletto, oppure un nuovo corpo macchina?”
“Ti sei
documentato” sorrido e scuoto il capo “No, ho tutto ciò che mi serve. La mia
piccola, il mio cuore e la mia testa. In tre bastiamo a noi stessi”.
Lui annuisce e
mi rivolge uno sguardo complice. “Dimenticavo che è il fotografo che fa buone
foto, non il contrario”.
“Come l’aereo è
il mezzo. Puoi anche inserire il pilota automatico, ma gli automatismi hanno
pur sempre dei limiti”.
“Inoltre ti
perdi un sacco di divertimento”.
Sorridiamo e
siamo perfettamente sintonizzati.
“E tu, che cosa
hai chiesto a Babbo Natale?” gli domando, piena di curiosità.
“Quel che
viene”.
“E se non fosse
quel che desideri?” corrugo la fronte togliendomi il cappellino che ha iniziato
a darmi fastidio. Infilo le dita in mezzo alle ciocche, districando un paio di
nodi.
“Se è il destino
a decidere, sarà quel che doveva essere”.
“Tua sorella, al
destino, preferisce dare comunque una spinta” sono impazzita, ma che sto
dicendo?
Chris ride
“Erika cerca solo di realizzare ciò che desidera davvero. E di questo devo
darle atto. Lei non si ferma fino a quando non ha ottenuto ciò che vuole”.
“Sì, la
perseveranza è il suo miglior pregio”.
“O difetto.
Bisogna vedere da che parte guardi la cosa”.
“Alle volte
comunque, la perseveranza non basta” incurvo la bocca in una smorfia, persa nei
miei ingranaggi mentali “Anche se hai un desiderio in cui credi con tutta te
stessa, da così tanto tempo che pensi di essere nata per lui, e daresti
qualsiasi cosa pur di vederlo realizzato, spesso ti rendi conto che
semplicemente non puoi averlo”.
Sospiro piano
scrollando le spalle. Fisso la strada davanti a me, il prossimo indirizzo è
dietro l’angolo. L’ultima consegna e poi questo tempo speciale, mio con Chris,
sarà finito.
“Allora credici
più forte, lotta con più coraggio, mettiti in gioco, rischia se ne necessario,
esci allo scoperto se serve. Ma provaci” mi suggerisce Chris, raggiungendo la
nostra destinazione “Almeno avrai tentato. Perché senza un ragionevole margine
di rischio, la maggior parte delle cose non ci appartiene mai completamente”.
Mi volto a
guardarlo, soppesando ogni singola parola che mi ha appena detto. Tutto, un
pezzetto alla volta, un passaggio alla volta, una virgola dopo l’altra. È così
vero che mi sento un groppo in gola. Come se le parole volessero liberarsi da
sole. Come se ciò che provo, tutto quello che ho dentro, stesse battendo forte
i pugni, da qualche parte, in prossimità del petto.
“Ci vuole
parecchio coraggio” mormoro cercando i suoi occhi che sono già appuntati dentro
i miei, così con molte cose taciute o forse solo sospese, in questo abitacolo
che sa di panettoni, zucchero a velo e cannella. E del suo indimenticabile
profumo.
“Sì, lo stesso
che hai avuto nel decidere di trasferirti in un posto nuovo, senza la tua
famiglia, senza Erika, senza i tuoi punti saldi, le abitudini di tutta una
vita, per ricominciare altrove”.
“Non è coraggio” mi stringo nelle spalle
“È sopravvivenza”.
“E non è la stessa cosa?”
La sua mano si
posa sulla mia guancia. Le sue dita si aprono a ventaglio, sfiorandomi lo
zigomo, infilandosi alla base della nuca, accarezzandomi il collo e la radice
dei capelli.
“Erika mi ha
detto che c’è un ragazzo e che avete discusso” e cerca conferma in fondo ai
miei occhi “Se è importante, forse dovresti trovare la maniera di sistemare le
cose con lui”.
Che cosa gli ha
detto Erika? Con chi è che dovrei sistemare le cose? Non sarà forse il suo
stupido piano di farlo ingelosire? Perché non mi pare che stia funzionando
affatto. Anzi. Mi sembra che sia proprio un completo disastro!
“Non è così… “
d’istinto copro il dorso della sua mano.
La radio trasmette You will never know di Imany.
E qualche idiota
suona il clacson alle nostre spalle, facendoci sobbalzare e allontanare come
due ladri colti sul fatto.
Se non è questo
un segno del destino. Che altro può essere?
Manca meno di mezz’ora a mezzanotte
e io ho passato buona parte del pomeriggio e della cena con gli zii, in un
silenzio agghiacciante. Tanto che lo zio, onde evitare di veder intristire
anche il resto della città durante la Messa di Mezzanotte, mi ha consigliato di
rimanermene tranquilla a casa a riposare. Loro sono andati via per tempo, ed io
sono nella mia soffitta con Floppy che rosicchia una carota nella sua
gabbietta. Me ne sto in piedi davanti allo specchio.
“Quindi che
dovrei fare?” gli domando a braccia conserte, alzando il mento ad osservare il
cielo oltre il vetro dell’abbaino. Floppy non è in vena di confidenze stasera.
Forse si sente un po’ trascurato e non prova nemmeno a darmi retta. Oppure,
visto che l’argomento è sempre il solito, è stufo anche lui di sentirmi fare
gli stessi discorsi e magari anche di vedermi così infelice.
Chris mi ha
riaccompagnata dritta in negozio, dopo aver consegnato l’ultimo pacco. Abbiamo
scambiato ancora qualche parola, ma l’atmosfera era così tesa che ad un certo
punto me la sono svignata in laboratorio, lasciandolo a chiacchierare con gli
zii. Non si è trattenuto molto, comunque. Ho monopolizzato la sua Vigilia di
Natale, il poco tempo da passare con i suoi, magari facendogli anche saltare il
rendez vous con Silvia.
Quest’ultima cosa non mi dispiace affatto.
Ed è stato fin
troppo gentile e disponibile. Ha fatto qualcosa di buono per me, come sempre
del resto. Ed io?
Io sono qui che
non riesco nemmeno a decidermi a togliere questo stupido lenzuolo dallo
specchio. E ad accettarmi per quella che sono. Me e tutto il casino che ho
dentro.
Le sue parole mi
tornano in mente a tratti, come se le avessi immagazzinate dentro un messaggio
vocale e di tanto in tanto qualcuno schiacciasse il play per farmelo
riascoltare.
“Allora credici più forte, lotta con più
coraggio, mettiti in gioco, rischia se ne necessario, esci allo scoperto se
serve. Ma provaci”…“Almeno avrai tentato. Perché senza un ragionevole margine
di rischio, la maggior parte delle cose non ci appartiene mai completamente”.
Lui ha dannatamente
ragione.
Forse io non ci
credo abbastanza. Non ho abbastanza coraggio. Soprattutto non riesco a
risolvermi ad uscire allo scoperto. A rischiare, anche un rifiuto. Perché so
che mi farebbe male. Quel genere di male da cui uscirei molto più che pesta.
Però. Ecco, se non accetto questo ragionevole margine di rischio, devo
ammettere con me stessa che ciò che provo non è qualcosa di assoluto ed
essenziale, qualcosa di cui non posso fare a meno nemmeno volendo.
Il mio cuore si
lamenta. Lui sa. Lui c’è. Lui è Chris.
E se rifiuto ciò
che tenta di dirmi. Rifiuto Chris. Rifiuto ciò che provo da quasi tutta una
vita. Che è la mia ragione, da così tanto tempo che pensare di non averla, di
smarrirla, di sprecarla, equivale a non vivere affatto.
Allungo una mano
e strappo con decisione il lenzuolo, fino a scoprire lo specchio.
Sono io questa.
Lunghe onde ramate, occhi grandi e grigi, lentiggini abbondanti, bocca
atteggiata ad una smorfia triste.
Beh, per la
miseria, io amo Chris. Non ho bisogno di altro, se non questo tipo di coraggio.
Quello di una ragazza innamorata.
“Fammi gli
auguri, Floppy”. Afferro il cappotto, la sciarpa, gli stivali, mi infilo la
cuffia sui capelli sciolti e agito due dita nella sua direzione. Lui smette per
un momento di rosicchiare la carota e annusa l’aria, con i baffetti che
vibrano.
Faccio gli
scalini a due a due, nonostante le ginocchia doloranti, e sono già sulla porta
di casa e poi fuori in mezzo a tanto di quel freddo che potrei anche congelare.
Se non stessi praticamente correndo, con il cuore che mi fa da satellitare, fra
una via e l’altra, e in mente un solo posto, dove le mie gambe finalmente si
arrestano da sole.
Non ho fiato quando arrivo davanti
al cancello dei Pitti. C’è un’unica luce accesa, al piano di sopra. Frugo nelle
tasche alla ricerca del mio cellulare. Digito il nome di Erika e rimango in
attesa, ballando sul posto per riuscire a scaldarmi. Dopo non so quanti
squilli, scatta finalmente il bip della risposta.
“Sono io”
attacco precipitosa.
“Lentiggini?”
“Chris???” e
osservo il numero sul display “Dov’è Erika?”
“In chiesa con
gli altri, ha dimenticato il cellulare. Tu, dove sei?”
“Fuori da casa
vostra”.
“Qui fuori?”
Non sento più
nulla. Dopo nemmeno mezzo minuto, il clic del cancellino che viene aperto a
distanza. La luce della scala si accende in casa, e io supero di corsa il
vialetto, e poi salgo i gradini davanti la porta di ingresso. Che si spalanca.
“Ronny, è
successo qualcosa?”
Chris, camicia
bianca, cravatta slacciata, pantaloni blu scuro. I capelli in disordine come se
ci avesse passato le dita dentro un sacco di volte. Oppure no.
“Scusami. No,
non è accaduto nulla. O per lo meno non ancora” riaggancio il cellulare che
anche lui tiene ancora in mano “Stavi dormendo?”
“No. Vieni
dentro, qui fuori si gela” e si tira indietro per farmi passare “Che significa
non ancora?”
La porta si
richiude dietro di noi e siamo in piedi uno di fronte all’altra, nel silenzio
della casa, rotto solo dal tic tac di un orologio, appeso da qualche parte, e
da uno stereo acceso.
Io devo ancora
riprendere fiato. O forse è Chris a farmi questo effetto. Mi sfilo con cautela
la cuffia dalla testa, la tuffo dentro le tasche del cappotto insieme al
cellulare. Cincischio con i guanti e poi sollevo il mento.
“Succederà
qualcosa quando riuscirò a dire quello che devo dire e motivo per il quale,
sono venuta fino a qui a quest’ora”.
Lui inarca un
sopracciglio con aria divertita “Vuoi una tazza di tè?”
“Sì,
aiuterebbe”.
“Dammi il
cappotto” e mi dà una mano a sfilarlo “È pronto, ci metto un attimo. Mi aspetti
in sala da pranzo? Così ti scaldi davanti al fuoco?”
“D’accordo. Ma
fa presto” prima che mi passi il coraggio.
“Promesso”.
Mi sono appena
avvicinata al camino, allungando le mani per togliermi di dosso un po’ di gelo
che lui è già di ritorno. Arriva con un vassoio, due tazze e una teiera, una
buona scelta di tè e lo zucchero. E io non ho praticamente saliva.
“Cosa
preferisci?” mi elenca un paio di nomi.
“Quello che
prendi tu”.
Lo stereo è
sintonizzato su una stazione locale. Musica adatta al momento, visto che
mancano dieci minuti a mezzanotte. E fra dieci minuti la mia vita sarà cambiata
per sempre. O quasi.
“Non vuoi
sederti?” e mette il tè in infusione “Lo sai è stato divertente oggi. E siamo
stati anche piuttosto bravi”.
“Più o meno” mi sento
dire e lui corruga la fronte voltandosi a guardarmi da sopra una spalla.
“È con me che
devi parlare, Ronny?”
“Sì” ammetto.
“Quanto
zucchero?”
“Quello che
vuoi”.
Lui ha un’aria
perplessa.
Accidenti così
non andiamo da nessuna parte. E io non so se ce la faccio. Dov’è finito il mio
coraggio? Eppure ce l’avevo fino a pochi istanti fa.
“Hai parlato con
il tuo ragazzo?” se ne esce “Avete fatto pace?”
“Chi?”
E mi porge la
tazza di tè che afferro meccanicamente.
“Avevate
discusso. È per questo che eri triste oggi, no?”
Osservo la mia
immagine riflessa nel liquido scuro, rischiarato dalle luci dell’albero di
Natale. Sono smarrita. Perduta e smarrita.
“No” scuoto il
capo “Non ero triste. Ero arrabbiata. Furiosa direi. E sei stato tu a farmi
arrabbiare. Perché io non voglio essere arrabbiata con te. Mai”.
Sembro fuori di
testa. Forse lo sono. Ma che ci sto a fare qui?
Chris mi guarda
senza comprendere, scandagliando la mia espressione, alla ricerca di qualche
sintomo di follia, magari.
“Perché ti ho
fatto arrabbiare?”
“Perché sei
stato sincero, immagino” mi viene fuori e poso la tazza di tè sul tavolo, prima
di versarmela addosso “Non dovevo prendermela”.
“A proposito di
cosa?”
“Mi hai detto
esattamente quello che sono per te”. Sollevo il mento, quanto basta per
fissarlo bene in volto e quasi mi viene da ridere nel vedere lo sconcerto che
gli corruga la fronte. “Il fatto è che non è la stessa cosa per me”.
Lui rimane in
silenzio. Forse di proposito.
“Lo so, va bene?
Lo so come mi vedi. Sono una mocciosa con un sacco di casini, uno dentro
l’altro, come una matriosca che quando si apre anche l’ultimo pezzo, sei sicuro
di trovarci qualche guaio” mi fisso la punta degli stivali “Insomma, vivo in un
mondo a parte, non so nemmeno che cosa sia un tacco alto, e il più delle volte
viaggio con la testa per aria anziché guardare dove metto i piedi. E poi c’è
quella cosa fastidiosa che ti fa credere che io sia ancora una bimba di quattro
anni che ha bisogno di qualcuno che l’aiuti”.
“Lo so che sei
cresciuta” mormora lui “Lo vedo”.
“Non come
vorrei” e torno a guardarlo “Mi hai chiesto di definire quel tutto” scosto una
ciocca di capelli dietro un orecchio “Ecco, ci ho pensato”.
“Ti ascolto”.
“Tutto” mi
stringo nelle spalle “Tu sei tutto. Ecco che cosa sei. Nemmeno una briciola in
meno. E lo sei da così tanto tempo, che voglio correre questo ragionevole
rischio” e mi porto una mano sul cuore, per quietarlo forse, perché sta
addirittura ruggendo ed è lui che mi spinge a proseguire “Sei qui dentro. E io
ho cercato di mandarti via un sacco di volte. Ma non ci riesco. Perché è come
pensare senza pensieri. È come respirare senza respiri. Semplicemente non è
possibile”.
“Ronny” sussurra
il mio nome, forse vorrebbe fermarmi. Ma io alzo appena le mani, perché a
questo punto non ho più nulla da perdere.
“Dovevo dirtelo.
Sono venuta fino qui per questo” e sento di essermi tolta un milione di pesi
dal cuore, così solo con queste semplici e forse sconclusionate parole “Dovevo
dirti che ricordo perfettamente quel pomeriggio al parco. Ed è sicuro che lo
ricorderò per tutta la vita. Che non ho chiesto nulla a Babbo Natale se non
l’unica cosa che conta per me. Che gli chiedo più o meno da quando avevo
quattro anni”.
Il suono di un
clacson irrompe nel soggiorno, ripetuto, inopportuno e maleducato.
Chris tace. Non
accenna nemmeno un fiato. È in piedi a meno di quattro passi da me e mi sta
guardando come se mi vedesse per la prima volta. E mi sembra così combattuto.
Il pendolo batte
la mezzanotte. Il fuoco scoppietta allegro nel camino. E l’albero di Natale
brilla in tutta la sua maestosa ricchezza.
E se non me ne
vado da qui, dopo tutto questo, è sicuro che scoppierò a piangere da un momento
all’altro. Non c’è altro che possa dire. Nulla che possa provocare in lui una
replica. Magari è solo in un tremendo imbarazzo.
Mi mordo il
labbro, sospiro, chiudo appena gli occhi, e con tutta la dignità di cui sono
capace, faccio per superarlo. Ho la sensazione che il buio sia fuori da questa
stanza luminosa. E che mi stia aspettando.
Chris non si
muove. Non accenna nemmeno a fermarmi. E sono già in corridoio, lontana da lui.
Da tutto ciò che gli ho confessato. Da tutto ciò che gli ho lasciato di me. Di
quel noi che ho immaginato per così tanto tempo, che non so nemmeno io adesso,
come riuscirò a sopravvivere.
Afferro il mio
cappotto alla cieca e ho già aperto la porta.
“Lentiggini”.
Chris mi ha raggiunta. La sua mano mi afferra, salda eppure dolce, all’altezza
del braccio.
Osservo le sue
dita attorno al mio braccio. “Lasciami andare”.
Lui sospira
piano, fa scivolare la destra fino a sfiorarmi il polso, a racchiudere nel suo
palmo il mio palmo. Il suo calore raggiunge ogni centimetro della mia pelle, e
mi procura una sorta di scossa, un brivido che mi scuote dentro.
“Non posso”
mormora intrecciando le sue dita alle mie “Non ancora”.
“Allora metti
fine a tutto questo. Adesso” gli suggerisco con un residuo sorprendente di
coraggio “Non lasciarmi alcun tipo di speranza. Fai a pezzi i miei sogni.
Distruggi quello che ho dentro. Non essere gentile con me. Perché non è la tua
gentilezza che voglio. Men che meno la tua compassione”.
Adesso i suoi
occhi mi stanno accarezzando. Il celeste si è fatto più scuro, più brillante,
denso come se volesse avvolgermi, prendermi con sé, attirarmi dentro quel
calore speciale capace di toccarmi il cuore.
“Parto fra due
ore” e mi sfiora il viso con la sinistra, palmo aperto, le dita scottano a
contatto con la mia pelle “Stamattina uno dei miei colleghi mi ha chiamato per
chiedermi il cambio con il suo volo e io ho accettato”.
“Te ne vai?” Fuori
in strada intravedo la sagoma gialla di un taxi. Che borbotta ancora con due
colpi di clacson. Sta aspettando lui. Ecco perché Chris è così elegante,
indossa la sua divisa da pilota.
Richiude la
porta con un gomito. E siamo di nuovo nel tepore quieto del corridoio.
“Sì” cerca i
miei occhi “Non è gentilezza la mia, e nemmeno compassione. Ho deciso di
andarmene, perché ho percepito tutto quello che mi hai detto stasera. Molto
prima che facessi squillare il cellulare di Erika”.
“Vuoi
andartene?” Corrugo la fronte, perché non ci sto capendo un accidente. Sento
solo il cuore, abbattuto e scoraggiato e non so come potrò consolarlo. Chris se
ne va. Ancora una volta. “Quindi che stai cercando di dirmi? Che sapevi tutto e
che hai preferito farmi parlare, rendendomi anche un po’ ridicola, anziché
zittirmi subito?”
Inaspettatamente
mi attira contro di sé “Sta’ zitta adesso” e mi abbraccia stretta “E ascolta
me”.
Annuisco e
comunque dove potrei andare, schiacciata come sono contro di lui? Mi farei
spellare viva piuttosto che staccare anche solo mezzo millimetro delle mie ossa
dal suo corpo caldo e perfetto.
“Sei un libro
aperto. Tutto quello che senti, ogni cosa, buona o cattiva, meravigliosa,
triste o divertente, è così evidente che è impossibile non finirci dentro, non
esserne travolti, come una specie di uragano che ti investe”.
“È questa la tua
idea di farmi a pezzi?”
Lui sorride. Ed
è un sorriso che mi toglie il respiro. La facoltà di ragionare, di mettere in
fila due parole di senso compiuto una dopo l’altra.
“Ronny, io non
voglio farti a pezzi, né te né i tuoi sogni. E voglio lasciarti tutta la
speranza che hai dentro, la stessa che ti ha portata qui stasera” il suo
sorriso si accentua “Da me”.
“Non vuoi?”
Scuote il capo
“Non posso. Ci provo da quest’estate a fare il contrario. Ma non sei la sola a
non esserci riuscita”.
“Non credo di
aver capito”.
“Allora provo a
spiegartelo così”.
Le sue braccia
mi sciolgono dal calore del suo abbraccio, le sue mani mi circondano il viso,
cerca i miei occhi e li tiene incatenati ai suoi chinandosi su di me. Fino a
sfiorare le mie labbra con le sue, in una carezza lenta e piena di tenerezza,
in un tormento così delicato e dolce che mi sfugge un gemito soffocato. Tanto
che lui si scosta un attimo. Apre gli occhi, li tuffa nei miei e ho come
l’impressione che sia incredulo quanto me, addirittura disorientato. Sorride e
le sue braccia mi circondano, strette, solide, calde, forti, quasi ad
assicurarsi che io non possa sfuggirgli. La sua bocca reclama la mia, in un
lento, determinato, incredibile saccheggio che mi fa schiudere le labbra, e
cedere le ginocchia. I miei palmi sono contro il suo petto, il suo cuore è ad
un soffio dalle mie mani. Lo sento battere impazzito, all’unisono col mio che
urla di gioia, perché finalmente ha trovato la sua metà.
Chris sa di
mare, di limone, di sogni, di nuvole e panna montata, di gelsomini e cannella.
E ogni pezzo di
me si disintegra in un tripudio di fuochi d’artificio, di scie luminose e cori
di alleluia.
“Buon Natale,
Lentiggini” mi sussurra sulle labbra e non so dove finiscono le parole e
ricominciano i baci.
La radio
trasmette Someone like you.
E siamo di nuovo
sulla spiaggia, al chiaro di luna, con le stelle che fluttuano come bagliori
argentati, su una sciarpa di velluto blu. Solo lui e io, così vicini e stretti
in un meraviglioso paio di minuti, che sembrano sfiorare l’eternità.
E la clessidra
del tempo non è altro che polvere di stelle, dentro un taxi giallo che ancora
aspetta il suo passeggero.
FINE
CHI E' L'AUTRICE
Virginia Parisi nasce nella suggestiva Piazza Armerina e vive da oltre un trentennio tra le belle colline del Monferrato. Sposata, madre di una bimba di due anni, si divide tra la famiglia, il lavoro di fotografa e la sua passione per la scrittura.
Come scrittrice ha esordito nel 2003 con il romance storico "Animi Fortitudo”, cui hanno fatto seguito nel 2004 il romanzo storico "La Fiamma della Speranza" e nel 2007 il giallo storico "L'Ottava Pergamena", nel 2009 la commedia sentimentale “Al centro del dipinto”. Nel 2011 ha pubblicato con la Spinnaker il romanzo fantasy "La leggenda di Ghelbes Tal" ( vedi qui). Sul blog La Mia Biblioteca Romantica è stato anche pubblicato il suo racconto breve "Un incontro perfetto"(leggilo qui).
bellissimo! non c'è la promessa d'amore, ma forse è meglio così, sarebbe stato fin troppo ovvio se lui le avesse detto apertamente che l'amava. Invece, così, c'è la possibilità di avere un'altra continuazione, di sapere cos'altro succede tra i due... lo sai vero che resterò in trepida attesa?? :)
RispondiElimina.... ma quanto mi è piaciuto!
RispondiEliminabrava, molto, molto coinvolgente e pieno d'attesa quest'ultimo abbraccio!
Davvero molto carino! Tra tutti è quello che mi ha coinvolta di più, e adesso aspetto anch'io una terza parte ;)
RispondiEliminaComplimenti!
Cassie
Grazie di cuore a voi x aver letto! Che piacere immenso sapere che Ronny e Ctris vi hanno emozionato...e che qualcuna aspetta una terza puntata.
RispondiElimina.E grazie a Francy ancora una volta x l'opportunità e le chiacchiere e la lettura in bozza.... E sì penso proprio che un seguito ci starebbe bene...Un abbraccio a tutte
Tenerissimo! Un amore adolescenziale in evoluzione. Molto bello. complimenti. Mi aspetto anch'io un epilogo meraviglioso! Dolce e passionale insieme! Brava
RispondiEliminaCarino ma, come era già successo con Stelle di mezzanotte, il finale mi ha lasciata un po' così. Non capisco perché Chris voglia andarsene, lui dice che è perché ha compreso i sentimenti di Ronny ma, visto che li ricambia, non avrebbe più senso rimanere?
RispondiEliminaSe ci sarà un seguito lo leggerò volentieri :)
Tenero e dolce, una malinconia stemperata dal lieto fine che fa respirare romanticismo. Una storia perfetta per il Natale.
RispondiEliminabello,a mio parere e come se tu vedessi un fim le emozioni descritte molto bene le provi anche tu mentre lo leggi lo adoro!!aspetto con ansia il prossimo!
RispondiEliminaAvevo letto la prima parte d'un fiato e speravo in una seconda; ho letto la seconda già assaporando... una terza: perchè la storia continua vero Virginia? Mentre si legge, le immagini scorrono nitide davanti agi occhi e quella frase "parto tra due ore per lavoro", ci lascia ancora sospesi, nonostante il bellissimo lieto fine. Insomma, "me sabe a poco"...direbbero in Spagna, mi è volato, è finito troppo presto.
RispondiEliminaMi è piaciuto molto.. davvero, perché la freschezza che trapela da queste righe fa scordare per qualche minuto tutto ciò che di complicato ci si presenta ogni giorno nella vita reale...
Hasta la proxima.. Ronny
Questi vostri commenti sono come regali di Natale inattesi e perfetti. Mi regalano un'emozione impossibile da descrivere a parole... Grazie di cuore.
RispondiEliminaQuando ho iniziato a scrivere di Chris e Ronny, pensavo, ripescando nella mia memoria di sedicenne, che mi sarebbe piaciuto raccontare una storia alle mie nipotine che crescono e che si avvicinano piano piano a quell'età in cui il cuore comincia a fare un po' di testa sua e ragiona per suo conto. Si ribella, ascolta, sgroppa, si butta a capofitto, si inalbera e sgomita per farsi largo in mezzo a valangate di emozioni sconosciute che sanno di primi amori. Quelli che non si scordano mai. Quelli che saranno per sempre. E oltre. Questi due racconti sono dedicati a loro. E come spesso mi capita, siccome non sono io a decidere la storia, ma i miei personaggi - e questi vostri post così cari mi sostengono nell'impresa - proseguo in questi giorni ad ascoltare i loro vaneggiamenti.... E Ronny è una tipa strampalata, ma quando vuole, anche parecchio insistente... Un bacione.
È piaciuto moltissimo anche a me. Con questo racconto sei riuscita ad emozionarmi profondamente. Complimenti, davvero!
RispondiEliminagrazie Laura per aver letto! un abbraccio!
RispondiEliminaÈ proprio vero che ci si pente di quello che nn si fa, mai di ciò che si fa o, almeno, si tenta. Mi ha fatta tornare indietro a tempi remoti e sensazioni praticamente dimenticate. Molto brava.
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