Christmas in Love 2013: STELLE GEMELLE di Virginia Parisi




“Per la miseria, ma quanto ci hai messo?” se ne esce Erika con un sopracciglio biondo alzato, un vestitino rosso di qualche stilista che ovviamente ignoro e un paio di tacchi che solo a guardarli ho le vertigini.
“Anche io sono felice di rivederti” rispondo piccata con il cesto regalo che zia Agnese ha confezionato per i Pitti e che sono venuta a consegnare di persona, sicura che in Villa ci fossero solo i custodi. E accidenti mi sbagliavo.
“Allora, che aspetti, vieni dentro o vuoi stare lì fuori a gelarti le chiappe?”
“Ho altre consegne urgenti da fare” e sollevo un po’ l’enorme cesto, che quasi non riesco ad abbracciare, tentando di far capolino oltre la carta trasparente e tutti questi cazzo di nastri rossi. “Che ci fai a Forte dei Marmi?” mi scappa di bocca.
“Abbiamo deciso di passare qui le feste” risponde lei, con quegli occhioni da Bamby e il sorriso angelico a illuminarle il viso a forma di cuore. “Se ti degnassi di leggere uno dei miei sms e magari a rispondermi, lo sapresti”.
Se l’avessi saputo, mai e poi mai mi sarei offerta volontaria per questo giro di consegne prenatalizie.
Gli zii hanno un sacco di lavoro, io sono in vacanza da scuola, sono loro ospite più o meno da quest’estate - quando ho deciso di trasferirmi definitivamente in Toscana con Floppy, il mio coniglio nano, e il benestare dei miei genitori – e il minimo che possa fare è aiutarli in gelateria. Che da poco più di un mese è diventata anche pasticceria. E gli affari vanno a gonfie vele. 
Con i cesti natalizi che la zia prepara personalmente, abbiamo davvero parecchie richieste.
Erika sbircia, oltre la mia spalla, lo scooter con il cesto portapacchi parcheggiato sul vialetto, e il sopracciglio continua a rimanere inarcato. “Non mi pare che ci sia altro là dentro”.
La detesto quando fa così.
“Hai intenzione di prenderti questo dannato coso o vuoi che te lo lasci qua fuori?”
Lei per tutta risposta mi afferra per un braccio e mi trascina oltre la soglia, sul costoso tappeto dell’ingresso, me e i miei stivali umidi, e con un tonfo secco richiude la porta alle mie spalle.
Faccio un giro su me stessa, come una papera zuppa sulle sue zampe palmate, e affronto la mia migliore amica. Anche se non ci frequentiamo più da quasi tre mesi, e lei mi odia cordialmente per averla mollata da sola a Milano, con il liceo, il cuore spezzato dal suo bagnino dei sogni, e un sacco di sms ignorati, spero proprio che lo sia ancora.
Cioè, siamo sempre il pane con la Nutella, il tè coi biscotti, il miele con le frittelle. Insomma inseparabili. Anche se io sono fuggita come una vigliacca - mi pare che me l’abbia scritto in uno dei suoi primi sms, quando le ho telefonato per comunicarle che non sarei tornata in città - non ho mai smesso di volerle bene. Mai.
“Allora cosa vuoi, litigare o chiarire le cose?” I fiocchi del cesto mi pizzicano il naso e mi scappa anche la pipì. E non sono mai stata una che usa mezzi termini o che non è capace di chiamare le cose con il loro nome. A parte forse un unico caso. Comunque non ci voglio pensare adesso. Meglio che me ne vada da qui. E alla svelta.
“Darti una sistemata”.
“Non era un’opzione”.
“Lo è da quando hai suonato il campanello” e si mette a braccia conserte “Fra un’ora si cena. E non posso trascorrere l’antivigilia di Natale senza la mia migliore amica”.
Santo cielo.
“Lo siamo ancora?”, e mi sembra incredibile, “dico, nonostante tutto. Io e te?”
Un cenno di assenso e il suo sorriso più grande, quello che sa di primavera, quello che non ho scordato perché lo conosco da quando ci siamo prese per mano il primo giorno d’asilo, senza nemmeno conoscerci. E da allora non ci siamo più lasciate. Cioè lei non mi ha più lasciata, io le ho tirato un pacco gigante. E non importa se siamo quasi a Natale.
“È la nostra cena tradizionale, l’hai scordato?”
“No, certo che no”. Bugiarda.
Insomma, ho avuto altro a cui pensare, e cenare a casa dei Pitti, con tutto quello che ho dentro, con tutto quello che cerco di soffocare, con questo macigno di sentimenti che è diventato un pachiderma sul petto, che non riesco a smaltire nemmeno con chilometri di pedalate sulla mia bicicletta, dico, ne avrei volentieri fatto a meno. Amiche del cuore o no.
“E ti ho anche trovato uno che si sieda accanto a te”.
“Allora è una vendetta?” sibilo socchiudendo gli occhi e preparandomi al peggio.
Lo sapevo, lo sapevo!
Lo sapevo che c’era qualcosa sotto, che questa storia del cesto regalo era un trucco, un inganno, una stramaledetta trappola. Stavo quasi per mollare il pacco a terra per abbracciarla! Accidenti se sa essere stronza! Ritiro tutto quello che ho pensato di carino nei suoi confronti.
Erika aumenta impercettibilmente il sorriso e prima che riesca a rispondere, qualcuno ci interrompe, comparendo sulle scale alle mie spalle.
“Lentiggini”.
E al suono di questa voce, mi sa che io e il pacco stiamo per svenire.

             Va bene. La vita è proprio uno schifo. Certi giorni vorresti darle quattro calci nel sedere e stare a guardarla con un piede sulla sua tronfia pancia gongolante, e certi altri vorresti prenderla a braccetto e farci quattro chiacchiere davanti ad una pizza e una coca cola.
Io non so esattamente quale opzione potrei scegliere stasera. Perché non ho ben capito se Erika fa sul serio o mi sta prendendo in giro. Perché se fa sul serio, non mi conosce affatto – il che è molto più che uno schifo – e se mi sta prendendo in giro, giuro che stavolta l’ammazzo.
Perché lei sa.
Le ho confessato in una mail lunga un chilometro e codarda come la sottoscritta, perché ho sentito il bisogno di mollare tutto, di andarmene, di pensare solo a me stessa. Di dimenticare quanto è accaduto quest’estate. Una serata sotto le stelle, un ballo, un abbraccio e un paio di strette di mano. Con il ragazzo di cui sono perdutamente innamorata.
Da tutta la vita.
Ah, sì. C’è anche un appuntamento mancato.
E un desiderio a una stella cadente.
Forse tutto sommato, sono poco più che un paio di illusioni.
Erika mi volta, acciuffandomi per un gomito, come si fa con i manichini esposti nelle vetrine, me e il mio ingombrante cesto che pesa una quintalata – ma che ci avrà messo zia Agnese? – e forse sto facendo scena muta da un po’ troppo tempo per non apparire in catalessi.
“Chris, è arrivata finalmente”.
Oddio, ha detto il suo nome.
Suo fratello è qui.
È davvero lui.
Se alzo gli occhi, se trovo il coraggio di mettere fuori il naso da questi fiocchi, se mi ritorna l’uso della parola, se mi ricordo come si fa a mettere in fila due frasi di senso logico, allora è possibile che io lo riveda.
“Ciao”.
Lui.
In tutto il suo quasi metro e novanta, gambe lunghe e toniche da buon sportivo, spalle ampie, braccia robuste, mascella ingombra di barba rada e incolta, bocca piena aperta in un sorriso un po’ sghembo, naso dritto e proporzionato, capelli striati di biondo, leggermente mossi e un po’ lunghi sul colletto, e gli occhi. Di un celeste indefinito, a metà tra il turchese e il pervinca.
Chris è qui di fronte a me, camicia immacolata, pullover azzurro e jeans. Con gentilezza mi libera dal cesto. Io lo guardo con la stessa espressione intelligente di una tartaruga che rumina una foglia di insalata.
“Ciao” la mia voce ha gracchiato solo un momento. Ma ci sta, posso far finta di avere un momentaneo raffreddore. Sono le sei di sera del ventitré di dicembre e ci sono sette gradi. Pioviggina e sono zuppa. I miei capelli sono in ordine come se un paio di galline ci avessero appena covato le uova e indosso una giacca a vento giallo papera, in tinta con i miei stivali.
Mi manca solo il bassotto della Petix.
“Tutto bene?”
Stavo meglio prima, quando mi crogiolavo nel mio dolore perfetto, guardandoti in fotografia, e rileggevo il tuo sms striminzito, che non ho avuto cuore di cancellare dal mio cellulare. Tu invece, oddio. Forse sei ancora più bello di come ti ricordavo. E mi stai sorridendo in una maniera così speciale, che il mio piano di dimenticarti sta già andando a farsi benedire.
Scrollo leggermente il capo, tirandomi indietro un paio di ciocche umide dietro le orecchie. 
“Terra chiama Ronny” borbotta Erika al mio fianco.
Okay è deciso. Dopo cena l’ammazzo.
“Bene, sì… Allora, quanto ti fermi?”
“Tre giorni appena. Sono atterrato a Pisa stamattina”. Chris ha il mio cesto fra le mani, e su di lui fa un effetto eccezionale, come se fossero appena usciti da qualche spot pubblicitario. Se avessi la mia reflex farei uno scatto. Con la luce dell’applique dell’ingresso che gli accarezza il profilo, creando un morbido controluce sui suoi capelli. Mi prudono le mani dalla voglia di accarezzarli e le caccio in tasca di botto, per paura di fare qualche stupidaggine. Sono fuori da ogni controllo. Cioè Chris mi fa sentire così.
Lui è il mio primo abbraccio, il mio primo ballo, il mio desiderio a una stella cadente.
Lui mi ha riaccompagnata a casa dopo una festa, promettendomi che ci saremmo rivisti il giorno dopo e che poi è partito improvvisamente all’alba, lasciandomi solo un sms di scuse.
Sono proprio patetica.
A pensarci bene, così a mente fredda, dopo tutto questo tempo, non so nemmeno perché ci sono rimasta male. Avremmo dovuto vederci solo perché si era offerto di darmi ripetizioni per recuperare le materie in cui ero stata rimandata. Come fa un buon amico. Come avrebbe fatto con Erika.
Perché io per lui sono come una sorellina.
Nulla di più.
Mentre per me lui è tutto.
Nulla di meno.
“Allora rimani a cena?” mi chiede osservando il mio viso, come se stesse riscoprendo qualcosa che non ricordava.
Forse ho dimenticato di depilarmi quei quattro peli che uniscono le mie sopracciglia.
“C’è molto lavoro in negozio” protesto passandomi due dita all’attaccatura del naso, così per controllare.
Erika batte un tacco dieci a terra – da quando i suoi le lasciano portare delle scarpe così assurde? - le braccia conserte “I tuoi zii mi hanno assicurato che ti avrebbero dato la serata libera. È la nostra cena tradizionale prima del Natale. Sono dieci anni che la passiamo assieme, Ronny”.
E ogni anno mi sono seduta lontana da Chris, osservandolo come si fa con il proprio cantante preferito, con l’attore dei tuoi sogni, il calciatore della tua squadra del cuore. Insomma, in delirante adorazione. Se fosse una rockstar è sicuro che andrei in giro con la sua foto spiaccicata su una decina di magliette.
Sospiro piano, perché forse mi sono pure dimenticata di respirare negli ultimi cinque minuti.
“Allora è tutto a posto” conclude Chris e dà un’occhiata al cesto “Lo sistemo da qualche parte, prima che mamma lo veda. È una sorpresa”.
Annuisco e sbircio Erika. Forse dovrei darle il beneficio del dubbio. E forse non è proprio una trappola.
D’accordo, l’ammazzo domani.
“Andiamo, Cenerentola” commenta lei e mi prende sottobraccio trascinandomi verso le scale.
Sfioro la spalla di Chris, involontariamente.
E il tempo si ferma.
Il suo viso si china sul mio che si alza, così come un girasole, verso l’astro da cui dipende.
“Sono felice di rivederti”.
Il suo sorriso mi arriva dentro, al centro del petto, dove il cuore, quel farabutto, schizza come se fosse stato rianimato col defibrillatore.
“Sì, anche io”.
Che altro potrei dire? È la pura verità.

 “Che vuoi fare, Erika?”
“Voglio dare una spinta al destino”.
            Tanta spudorata inaspettata incredibile sincerità mi lascia muta per un minuto buono.
Pensavo di doverle spiegare chissà quale straordinario teorema e lei mi spiazza con una frase del genere.
Poi mi passa un asciugamano, così morbido che ci tuffo il naso dentro e accidenti, vorrei rimanerci nascosta almeno per un’altra mezz’ora. O forse tutta la sera.
Allora realizzo ciò che mi ha appena detto. Ed esco fuori dalla spugna, con i capelli arruffati che mi si appiccicano agli occhi.
“Quale destino?”
“Lascia fare a me, intesi?”
Scosto i capelli dal viso e mi fa segno di togliermi l’impermeabile e gli stivali.
“Voglio andarmene a casa” borbotto rabbrividendo “Non mi sento bene”.
“Le solite balle” agita una mano, dandomi le spalle e apre le ante dell’armadio “Starai meglio dopo che ti sarai tolta quella roba zuppa di dosso”.
Siamo nella sua camera da letto, che è un incanto, un sacco di malva e tanto tulle, il letto a baldacchino e ogni dettaglio uscito da una rivista di arredamento. L’armadio occupa una parete e dentro c’è un’intera collezione autunno inverno di FruFru e MiaoMiao. Io gli stilisti non li conosco, non so se si è capito.
“Ecco, penso che questo e questo andranno benone” e tira fuori un abitino e forse un golf, o chissà come si chiamano in gergo, e me li sistema davanti, fissandomi con occhio critico.
Questa scena l’ho già vista.
Qualcuno che tenta di trasformarmi in Cenerentola. Con vestiti che non indosserei mai, tacchi, trucco parrucco e tutto il resto. E siccome questa fiaba è la mia e non quella di Cenerentola che rimorchia il principe con una scarpetta di cristallo, è sicuro che andrà a finire esattamente come la prima volta. Con una me che non sono io. E un principe che sparisce all’alba a bordo di un aereo.
Anche se non so come potrei mai avere una chance con Chris – la sola idea mi fa attorcigliare le budella - vorrei averla con i miei stivali giallo papera.
Insomma stiamo parlando per ipotesi.
In quale vita potrei mai sperare che lui la smetta di vedermi come Lentiggini l’imbranata, la distratta, la goffa amica della sua sorellina? Lui è Chris. Ed è solare, attento, atletico, prestante, intelligente, generoso e bellissimo. E io sono solo Ronny.
Per di più sto ancora guarendo dall’ultima volta che gli sono stata troppo vicina, vestita da principessa. E ho pensato che potesse avermi vista davvero.
In realtà mi sono solo scottata. E sento ancora il dolore delle bruciature. 
“Non se ne parla” commento a voce alta, scuotendo il capo “Accetterò un paio di scarpe, possibilmente non troppo strette e senza tacco, e asciugherò questi jeans e il maglioncino, che vanno benissimo”.
Erika fissa me e i miei indumenti come un insetticida con una fila di formiche.
“Ronny, così non aiuti il destino”.
“Al destino dovrei interessare io. Non quello che indosso”.
“Conciata così, il condizionale è d’obbligo”.
“Ma l’hai letta davvero la mia mail?”
Erika butta sulla poltroncina, accanto alla finestra, il mio look perfetto. “Sei volte” e si china sotto il letto alla ricerca di qualcosa. “L’ho praticamente imparata a memoria”.
“E non ne hai fatto parola con nessuno, vero?” mi informo tentando di usare un tono tranquillo “Cioè l’hai cancellata, eliminata, distrutta dopo la sesta volta, di modo che nessuno, all’infuori di te… Sì, insomma, lo sa… ”
“Eccole qua, sono il tuo regalo di Natale”, esce fuori con un paio di ballerine color bronzo e me le porge “E comunque, lo sapevo anche senza quella mail”.
“Grazie, sono bellissime”. Afferro le scarpe e me le tengo strette al petto e rimango così, come se lei mi avesse appena lanciato una scialuppa di salvataggio.
Erika fa su e giù per la stanza, apre un paio di cassetti, afferra una spazzola e un phon e torna verso di me. Che sono ancora qui, in piedi, fradicia e incredula. Una papera in mezzo a tutto questo tulle color malva.
“Lo so da un sacco di tempo” e si stringe nelle spalle sorridendomi “Ti asciugo i capelli, siediti dai”. E mi indica il letto, dove mi lascio cadere, un po’ rintronata.
“E se ti fa sentire meglio, sì, l’ho cancellata”.
Faccio un sospiro di sollievo.
La lascio armeggiare con i miei capelli, che asciuga, scalda, tira, piega. Non mi ribello perché non ne ho le forze. Perché Erika mi conosce anche meglio di quanto io conosca me stessa. Ed è per questo che è la mia migliore amica. Non ha bisogno di confessioni, di dichiarazioni, di chiarimenti, di parole superflue. Lei sa semplicemente chi sono. Me e i miei segreti. E gli vado bene anche così.
Sarà meglio non dirlo a Floppy o mi terrà il muso per una settimana. 
“È tardi, non asciugheremo mai i tuoi vestiti in tempo” e spegne il phon “Ti presto un paio di jeggings e un maglione asciutti, ti va?”
“Da quando lo sai?”
Mi spazzola i capelli e penso che non indovinerà mai.
“Lo adori da quando ti sei sbucciata le ginocchia, cadendo dal triciclo al parco giochi”.
Adesso vorrei sprofondare in mezzo al tulle.
Erika si siede vicino a me sul letto, mi mette sulle ginocchia un paio di jeans puliti e incurva la bocca in un bel sorriso. “Lui è straordinario. E non solo perché è mio fratello. Ed è impossibile non volergli bene”.
“Sono come tutte quelle sciocche ragazzine che gli correvano dietro a scuola” mi nascondo la faccia tra le mani “Ma ci ho provato, giuro che ci ho provato, a togliermelo dalla testa”. Apro un paio di dita e sbatto le palpebre lì in mezzo “Tu mi credi, vero? Lo sai che nonostante tutti i miei sforzi, nonostante io sappia che è una follia, che ne verrò fuori con le ossa rotte, che prima o poi troverà la sua persona e dovrò affrontare la realtà e magari andare a vendere gelati a Zanzibar per dimenticarlo” e prendo fiato “Non l’ho fatto apposta. A farlo entrare qui dentro?”
Mi porto una mano sul cuore, come se fossi davanti a un giudice, a un prete, a un boia.
Sto giurando. Che il mio cuore ha scelto per me. E lo ha fatto senza chiedere il mio permesso. Potrei mettermi in lista per un trapianto. Ma sono faccende lunghe, e certo ci sono casi più gravi del mio. 
“Ronny, non siamo più delle ragazzine” Erika mi sistema i capelli, mi appunta un paio di forcine sopra l’orecchio destro “Credo che anche lui se ne sia accorto, finalmente”.
“Che vuoi dire?”
“Solo che deve lasciarci sbagliare. E capire da sole ciò che vogliamo. Anche senza il suo aiuto”.
Questa cosa l’ho già sentita. E comunque, chissà che mi ero immaginata.
“Sei arrabbiata con me?”
“Per cosa?”
“Per non avertelo detto prima”.
“Oh, me l’hai detto” e china un poco il viso verso il mio “Praticamente tutti i giorni”.
“Quindi hai organizzato questo Natale a Forte dei Marmi, per me?” Indago, scalciando via i jeans bagnati e togliendomi il maglioncino umido.
“Cosa vuoi che ti dica?” Erika mi passa un maglioncino di un bel celeste, con lo scollo a V e quei cosi che ha chiamato con quel nome strano “Io e Chris siamo più simili di quel che pensi”.
Indosso le ballerine e sono pronta. “Dannatamente perfetti, come i vampiri Cullen?”
Lei scoppia a ridere. L’abbraccio forte. E mi sento a casa.
Poi mi scosto un attimo per fissarla in volto “Che cosa hai detto?”
“Che ho convinto i miei e Chris a passare il Natale qui, perché qui c’è Ronny. Perché Ronny è un pezzo della nostra famiglia”.
“Mi odieranno”.
Mi spinge via bonariamente “Ti vogliamo bene, invece”.
Annuisco e le prendo le mani “Sì, anche io a voi”.
“Mi sta colando il miele dalle orecchie” mi tiene per mano e mi trascina verso la porta. “Vedremo quanto mi vorrai bene, alla fine di questa serata”. 

            Le cene prenatalizie a casa dei Pitti sono assolutamente strepitose. Candele dorate, in tinta con le posate, piccoli calici che fungono da segnaposto, pieni di ghiaccioli che fluttuano nell’acqua insieme a bacche rosse, tovaglia dorata e uno scampolo di organza rossa che attraversa il tavolo da pranzo e che brilla sotto la magia delle luci del maestoso albero di Natale, piazzato accanto al camino. Ci sono perfino le calze attaccate alla mensola, addobbata con rami di pino e stelle rosse, e si sente profumo di neve e mele caramellate.
Il signor Pitti è un avvocato penalista, la signora Pitti si occupa di marketing per l’editoria. Sono una bella coppia, brillante e molto affiatata. E soprattutto evitano di chiedermi perché accidenti mi sia trasferita qui in Toscana. Ci sono un paio di loro amici, ospiti qui con una figlia che ha appena iniziato l’Università, tale Silvia, mora alta e carina, che è seduta di fronte a Chris e che pende praticamente dalle sue labbra.
Vorrei tanto infilarle un paio di ghiaccioli in un occhio. Magari anche più di un paio. Si vede lontano un chilometro che non gliene frega un accidente degli ultimi posti che Chris ha visitato per lavoro - visto che fa il pilota per una piccola compagnia aerea - e continua ad emettere strani monosillabi, infarciti da risatine idiote, da almeno un’ora buona. Cioè da quando ci siamo messi a tavola. Per di più ha un vestitino con uno scollo esagerato dove farei volentieri canestro con le bacche rosse. Così giusto per movimentare la serata.
Erika, di fronte a me, ogni tanto le fa il verso e io devo camuffare una risata nascondendomi dietro il tovagliolo.
C’è di buono che la mia sedia è a circa quindici centimetri da quella di Chris. Che mi versa l’acqua, mi passa il pane, i vassoi, e mi sorride nel fare tutte queste cose. E ad ogni sorriso mi sento come le lucine di Natale sull’albero. Mi illumino ad intermittenza.
Sarà meglio staccare la spina o finirò per andare in cortocircuito.
Così non aspetto più di cinque minuti dopo il caffè per ringraziare, salutare, abbracciare i Pitti, dare una stretta di mano anziché un pugno in un occhio a Silvia, e farmi accompagnare da Erika alla porta. 
“Grazie per l’ottima cena” le dico mentre lei mi passa il mio impermeabile giallo, perfettamente asciutto e gli stivali.
“Non vorrai tornare a casa in scooter con questo tempo?” mi domanda con un sorrisetto furbo.
“Certo che sì” mi vesto così in fretta che ho già la testa fuori dalla porta “Ci sentiamo domani?”
“Contaci”.
Sono già sul vialetto, sotto la pioggia. Dannata lei. E mi copro la testa con il cappuccio, guardandomi in giro in cerca del mio scooter. Che è sparito.
Andiamo, che scherzo cretino!
Erika ha già chiuso la porta di casa. Sto per suonare di nuovo il campanello, quando un paio di fari escono dal garage sotterraneo alla mia sinistra.
Compare una BMW X5 nera. Il finestrino del lato passeggero si abbassa. Chris è al volante. Il suo sorriso sghembo mi scuote dentro insieme al suono della sua voce, con tutti i suoi bassi così musicali. 
“Lentiggini, ti accompagno io”.
Mi volto appena e con la coda dell’occhio vedo Erika che mi saluta con la manina dalla finestra. 
Forse è questa la sua idea di dare una spinta al destino.
E allora chi sono io per oppormi? 

            Appena richiudo la portiera, bisticcio con la cintura per inserirla e Chris viene in mio soccorso.
“Lascia fare a me”.
Annuisco, perché le sue dita sfiorano le mie e il brivido che mi attraversa il braccio mi ha semplicemente tolto l’uso momentaneo della parola. E anche quel brillio incredibile di coraggio che mi ha spinto ad accettare il suo passaggio fino a casa degli zii.
Il viaggio durerà al massimo dodici minuti.
Ma non credo che sopravvivrò.
Siamo da soli. Io e lui. Nella sua auto. Sento il profumo della sua colonia, che sa un po’ di mare e un po’ di limone, e non posso fare a meno di ripensare alle sue braccia che mi avvolgono mentre balliamo al chiaro di luna sulla spiaggia. La sensazione del suo corpo caldo che stringe il mio è così viva nella mia testa che deglutisco a vuoto, aggrappandomi al sedile. È come se le mie mani, al ricordo, tentassero di raggiungerlo per conto proprio. Sono così concentrata nel tentativo di tenerle a bada che quasi non mi accorgo che Chris mi sta parlando.
“Tutto bene?”
“Sì” e aggiungo “Non dovevi disturbarti”.
“Per me è un piacere” scala la marcia fermandosi ad un semaforo “Inoltre devo ancora farmi perdonare per l’ultima volta che ci siamo visti”.
Faccio la conta dei semafori rossi da qui al negozio degli zii. Perché sto tentando di non pensare proprio a quell’ultima volta.
“Insomma. Ti avevo fatto una promessa e non l’ho mantenuta”. Riparte, inserendosi nuovamente nel traffico, piuttosto sostenuto, nonostante l’ora. La gente è in vacanza. I negozi sono aperti. C’è un tripudio di luci e alberi di Natale che scintillano ad ogni angolo. Nonostante la pioggia. Che sembra diminuita.
“È il tuo lavoro” e azzardo un’occhiata al suo incredibile profilo “Non hai nulla da farti perdonare”.
“Ma sei arrabbiata con me”.
Che stai dicendo? Come potrei essere arrabbiata con te? Mai e poi mai. Nemmeno se non ti rendi conto di ciò che sei per me e da quanto tempo lo sei.
“No davvero”.
“Allora perché non hai risposto al mio messaggio?”
Uno scambio di sms? Ma sei pazzo? Avrei iniziato a balbettare anche per iscritto.
“Non credevo fosse necessario” infilo le mani sotto le ginocchia “E comunque me la sono cavata. Sono stata promossa. Anche senza il tuo prezioso aiuto. E ora il liceo qui va meglio. Direi”.
Sì, beh, a parte il fatto che la vita sociale è sempre a zero, esco di rado e parlo solo ai clienti degli zii, almeno i voti sono migliorati.
“Ecco, a proposito. Perché ti sei trasferita?”
Ah, ma allora, che cos’è, l’Inquisizione?
“Mi trovo bene dagli zii” e non è poi una bugia.
Ecco siamo arrivati. Qui inizia il tratto pedonale. E non c’è parcheggio. Quindi devo per forza scendere e concludere questa imbarazzante conversazione.
Ma Chris mi pare sia intenzionato a trovare un posto dove lasciare l’auto. Forse ha qualche commissione da fare.
“Stai fuggendo da qualcosa, Ronny?”
Da te. Da quella stupida serata insieme. Da Erika. Dalla tua famiglia. Dalla possibilità di incontrarti ancora. Perché sei come una droga, qualcosa di cui non posso fare a meno. Perché sei come uno dei miei respiri, ti sento dentro come un battito del cuore, così forte che a volte mi fa persino male ascoltarlo. E vorrei se ne stesse zitto. Almeno per un secondo. Anche se significherebbe non sentire più nulla.
Scuoto il capo. “No, che dici?”
“È accaduto qualcosa a Milano? Qualcuno ti ha dato fastidio? Se vuoi parlarne io sono qui” e si infila in una stradina secondaria, dove trova finalmente un posto per parcheggiare l’auto.
“No, te lo assicuro. Niente del genere”.
“Me lo diresti?”
“Chris, volevo solo rimanere qui. Non c’è altro” mi volto appena a guardarlo da sopra una spalla, mentre sgancio la cintura di sicurezza “Grazie. So che ti preoccupi per me. Ma anche se non te ne sei accorto, sono piuttosto cresciuta e in grado di cavarmela da sola”.
“Lo so bene” e aggiunge piano “Me ne sono accorto”.
“Allora, grazie” ho un piede fuori dall’auto “E buon viaggio se non ci vediamo più”.
Ma lui scende a sua volta, apre l’ombrello, chiude lo sportello e mi raggiunge.
“Perché ho l’impressione che tu stia cercando di congedarmi?”
Ma se sogno costantemente di abbracciarti e non lasciarti andare mai più?
“Credevo volessi tornare dai tuoi ospiti”.
“Se la caveranno benissimo anche senza di me” e mi strizza l’occhio “Facciamo due passi, ti va?” 

            Insieme, al riparo sotto l’intimità di un ombrello, in uno spazio talmente ristretto che la possibilità di non stargli appiccicata è nulla. Mi butto il cappuccio dell’impermeabile sulla testa e infilo le mani nelle tasche.  
Sto iperventilando. E inciampo in qualcosa. Forse nei miei stessi piedi.
La mia mano nemmeno chiede il permesso al cervello e cerca il sostegno del suo braccio. Le mie dita percepiscono solidi muscoli, sotto lo spessore della giacca di lana cotta che indossa, e ne ricordo il calore attorno alla vita, quando mi hanno cinta durante il nostro ballo al chiaro di luna. Il suo corpo vicino al mio è come se provocasse un milione di scintille a tutti i settori del mio sistema nervoso centrale.
E anche se sono mesi che mi ripeto che devo smetterla con questa follia, non c’è un solo posto al mondo dove vorrei essere, se non qui, con lui, che è finalmente accanto a me, in questa serata che di colpo ha smesso di essere gelida.
“Tutto okay?” mormora chinandosi un poco verso di me.
Il suo volto riempie il mio campo visivo. Non sento più nemmeno i rumori attorno a noi. Il mondo ha smesso di girare credo. Forse per un nano secondo. Fisso la sua bocca che si muove come se non riuscissi a comprendere quello che mi sta dicendo.
Deglutisco a vuoto, e sono direi abbastanza in preda al panico. Perché giuro che vorrei baciarlo. Qui adesso subito.
“Sì”. Lascio il suo braccio, come se mi fossi scottata. “Cioè no. Sono in ritardo. Gli zii saranno in pensiero. Devo andare. Scusa”.
Non aspetto nemmeno che mi risponda. Perché potrei commettere una sciocchezza. Una follia. Qualcosa di cui mi pentirei sicuramente. Qualcosa che potrebbe far finire per sempre la nostra bella amicizia. Questo legame che comunque ci unisce. Non come vorrei. Ma per la miseria, dovrei solo imparare ad accontentarmi e smetterla di sognare l’impossibile.
Sono così presa dallo slalom in mezzo a questo mare di persone, che non sembra avere un solo problema al mondo, da non rendermi conto nemmeno di dove sto andando.
Ci sono bancarelle di ogni tipo, al riparo sotto tendoni illuminati da file di luci intermittenti e multicolori. La gente sorride, si muove, chiacchiera, si ferma a parlare in ogni angolo, e le vie sono inondate da canti natalizi in filodiffusione. 
Io so soltanto che voglio mettere tra me e Chris un sacco di distanza. E rifugiarmi il prima possibile al sicuro nella mia soffitta. E vuotare il sacco con Floppy.
La bici mi prende in pieno. Forse nel mezzo di questi pensieri. O di un pezzo di quelli di prima. Non saprei dirlo con certezza perché finisco lunga distesa a terra, sull’asfalto bagnato, come una balena spiaggiata.
Il gomito destro mi brucia parecchio, insieme forse ad un ginocchio, ai miei palmi e al mio ego. Riapro gli occhi mettendo a fuoco il riverbero delle luci sulla pozzanghera ad un soffio dal mio naso e un paio di scarponcini da uomo. Insieme ad un paio di persone che si sono voltate per vedere che sta succedendo.
“Ronny!”
Chris è chino su di me. Il suo bellissimo volto è così preoccupato che l’impresa di non scoppiare a piangere come una fontana, si rivela più dura del previsto.
Devo deglutire a vuoto un paio di volte. Magari qualcuna in più. Il magone è così prepotente, così attaccato alla mia gola da non riuscire a scacciarlo via.
Sta piovigginando. Di nuovo.
“Sto bene” assicuro e la voce non mi appartiene.
“Non direi proprio”.
Il tizio che mi ha speronata si offre di aiutarmi, ma Chris lo tiene lontano con una mano “Lasciala, ci penso io. Mi pare che tu abbia già fatto abbastanza”.
“È lei che è spuntata in mezzo alla strada” si difende il ciclista.
“Non farmelo ripetere due volte” e la minaccia implicita, così sottile, riesce a scuotere anche me.
“Ha ragione, è colpa mia. Non ho guardato prima di attraversare” ammetto, per quietare gli animi.
“Ecco, hai sentito la tua ragazza?”
“Sali sulla tua cazzo di bicicletta e pedala!” Chris è davvero infuriato. La mandibola è serrata così forte che ho come l’impressione sia tentato di prendere a pugni il tale. Non credo di averlo mai visto così. Di solito lui è quello dai toni moderati e io quella che attacca briga. Si vede che oggi gli astri girano al contrario.
Il nostro piccolo pubblico sta intanto insultando il ciclista, prendendo le mie difese. Anche perché a Natale siamo tutti più buoni. E il tale decide bene di andarsene, borbottando qualcosa di incomprensibile. Forse un paio di epiteti al nostro indirizzo. Ho un moto di compassione per lui, solo per il fatto che mi ha definita la ragazza di Chris.
“Ronny, ti porto al Pronto Soccorso”. Con mani gentili, Chris mi circonda le braccia, aiutandomi a mettermi seduta. Gli occhi scandagliano ogni centimetro dei miei palmi sbucciati, lo strappo al ginocchio dei pantaloni, da cui si intravede un’altra escoriazione.
“Non serve, sono un paio di lividi” abbozzo un sorriso, “basterà un po’ di disinfettante e un cerotto”. La sua testa bionda è china su di me, così vicina che potrei accarezzargli i capelli e sentire, per la frazione di un secondo, se sono morbidi come penso.
Ho in mente questa stessa immagine di noi due. Un milione di anni fa. Un mare di verde intorno a noi, punteggiato dai bottoni gialli di una manciata di margherite, il mio triciclo con le zampe all’aria, la musica di una banda entusiasta di cicale, il celeste di un cielo dipinto con i miei pastelli a cera.
E gli occhi di Chris, incredibili come quel cielo. Il bagliore del suo sorriso, le sue parole gentili e le sue braccia attorno a me, salde a tal punto da sostenere il mio peso contro il suo petto.
Così me ne sono innamorata.
Per sempre.
La pioggia mi picchietta sul viso e il sole torna ad essere un lampione, in un lago di asfalto, inondato da file di luci intermittenti del colore dell’arcobaleno.
E siamo ancora noi due. Seppur cresciuti. Ed io lo amo esattamente come quel giorno. Come se fosse un principe delle fiabe, Peter Pan, l’Uomo Ragno, Batman o Superman. E accidenti vorrei ancora diventare la sua Aurora, Wendy, MJ, CatWoman o Lois Lane.
“Ce la fai ad alzarti?” e mi sfiora una guancia, forse per liberarmi da uno sbuffo di fango “O devo portarti in braccio come quando avevi quattro anni?”

            Sbatto le palpebre un paio di volte. Okay, forse qualcuna di più. Mi ha letta nel pensiero?
“Cosa?” forse non ho capito bene. O forse lui è un supereroe.
“Te ne sei dimenticata?”
“Di che?”
Chris sorride. E mi fa saltare il cuore in gola.
“Facciamo così” propone, infilando un braccio sotto le mie ginocchia e uno attorno alla mia schiena “Te lo racconto strada facendo”. E mi solleva, come se fossi poco più che un mucchietto di panni zuppi, e mi stringe contro il suo petto.
Il nostro piccolo pubblico accenna addirittura un applauso. Nemmeno mi avesse baciata. E questa sì che sarebbe stata una magnifica idea. Di sicuro sarei guarita all’istante.
Comunque non oso protestare. Nemmeno fiato. Ho persino paura che tutto questo sia un qualche bidone di sogno che sto facendo e che fra poco si spegnerà, come uno degli alberi di Natale che incontriamo lungo una via laterale, fuori dal centro, che porta alla gelateria degli zii.
“Dunque, io all’epoca avevo circa nove anni” attacca Chris con la sua voce che mi rimbomba sotto l’orecchio, con le sue note dolci e basse che disegnano una scia di scintille sul mio cuore. “Stavo giocando a calcio con i miei amici, e ti ho vista ruzzolare sulla ghiaia, insieme al tuo triciclo”.
Se lo ricorda. Chris se lo ricorda. Condividiamo lo stesso identico ricordo di quel giorno!
Non è uno dei miei soliti sogni perché le ginocchia mi fanno un male dell’inferno e il gomito mi brucia peggio di prima. E i miei palmi? Me li sbircio, abbandonati in grembo e sono messi malissimo. Che gioia, sono sveglia!
E sono fra le braccia di Chris. E mi sento a casa.
“Pensavo ti saresti messa a piangere, ma eri lì a terra, e ti guardavi le ginocchia sanguinanti con un’espressione così tranquilla, come se fossi pronta a rimetterti in piedi, a riacciuffare il tuo triciclo e a continuare a giocare, che non ho potuto fare a meno di raggiungerti”.
Sollevo il volto appena un pochino, così scorgo il suo sorriso e lo accarezzo mentalmente.
“Eri vestita di giallo, con il viso delizioso girato di profilo, e un mare di onde ramate sulle spalle, accarezzate da quel sole estivo che sembra non voler tramontare mai” fa una breve pausa, come se stesse rivivendo quel momento “E ricordo i tuoi occhi grigi enormi e l’espressione incuriosita che hai a volte, quando vedi qualcosa che vorresti assolutamente fotografare”.
Siamo già davanti la porta sul retro della gelateria. Gli zii saranno in laboratorio, alle prese con le ultime preparazioni. Frugo alla ricerca delle chiavi in tasca e Chris ha smesso di raccontare, come se fosse preso da qualche importante pensiero, meditazione, particolare o affini.
“Chris” lo chiamo a malincuore, perché vorrei rimanere qui, tra le sue braccia, possibilmente tutta la notte. In mezzo alla pioggia e alle intemperie, sotto questa lampada notturna che illumina lo zerbino a forma di mucca della zia.
“Mmmh?”
“Grazie. Adesso posso fare anche da sola”.
“I tuoi zii?” mi chiede e mi fa scivolare a terra, ancora sostenendomi in vita.
Tento di infilare la chiave nella toppa, ma i palmi mi bruciano da morire. Chris se ne accorge e mi aiuta ad aprire.
“Stanno ancora lavorando”.
“Allora vediamo se hai qualcosa per sistemare quei tagli, così gli evitiamo un inutile spavento”.
Ad una retorica così limpida non saprei che rispondere. Così annuisco ed entriamo.
Accendo la luce del corridoio e imbocchiamo insieme le scale che conducono al piano superiore. L’appartamento degli zii è sopra la gelateria, in questo piccolo edificio di tre piani, rosso incandescente. Saliamo al rallentatore, con me che zoppico un pochino perché non riesco a piegare bene le ginocchia, e come un automa mi fermo soltanto quando abbiamo raggiunto la mia stanza in soffitta. Chris mi sostiene e apre la porta.
La luce della lampada da terra illumina il mio piccolo rifugio disordinato. Una scrivania ingombra di libri, un armadio con un’anta aperta dove spunta la tracolla della mia reflex e qualche maglione, uno specchio nascosto da un lenzuolo, una poltroncina - che zia Agnese ha fatto sistemare da poco con una stoffa turchese - e un fantastico letto a una piazza e mezza. Ancora da rifare.
Sul pavimento ci sono il mio accappatoio, il mio pigiama e il mio reggiseno.
Dio che vergogna.
“Scusa il disordine” mi stringo un po’ nelle spalle e di sicuro sono fucsia come le mie pantofole a forma di maialino, abbandonate sul pigiama.
Perfetto. Davvero perfetto. Il ragazzo dei miei sogni è qui, nella mia stanza, e sembra che attorno a noi sia esplosa una bomba.
“Dove hai il kit del pronto soccorso?” mi domanda Chris e non mi sembra affatto turbato da ciò che ho lasciato in giro. Cioè chissà quanti reggiseno avrà visto nella sua vita. E tolti. Sento che mi sta salendo la temperatura.
Invece lui è impegnato ad osservare la parete di fronte a noi, piena delle mie foto. C’è di tutto, cieli stellati, panorami toscani colmi di girasoli, barche di pescatori, piazze piene di gente, ritratti in bianco e nero di sorrisi rubati, gatti randagi, clochard, artisti di strada, i mosaici con i colori delle foglie d’autunno, la spiaggia d’inverno, conchiglie e bimbi che costruiscono piste per le biglie e un sacco di altre emozioni dentro qualche cornice colorata.  
“Nel mobile del bagno. Prima anta a destra” lo interrompo e lui mi studia un momento, con un’espressione che mi sembra addirittura ammirata.
Mi aiuta a sfilarmi l’impermeabile che appende poi all’attaccapanni accanto alla porta e io mi siedo sulla poltrona, in zona franca. In disordine o no, il letto mi sembra ad un tratto assolutamente pericoloso. Distolgo lo sguardo e forse arrossisco. Sto pensando intensamente a Chris e me, sdraiati lì sopra. Avvinghiati per la verità. E molto, ma molto impegnati.
Chris è andato a recuperare il necessario per la medicazione e io mi libero dagli stivali e dalle calze come posso. Guardo i tagli ai comesichiamano – di Erika, per la miseria, e se sono firmati come penso, dovrò lavorare un’intera estate per ripagarglieli - dove grumi di sangue e asfalto nascondono le escoriazioni e sollevo un po’ la manica del maglioncino, per controllare il mio gomito dolorante.
“Allora, fa male?”
Chris è già di ritorno e si piega su un ginocchio per osservare, da vicino e alla luce, il disastro che ho combinato da sola. Ha portato il kit per medicarmi e un paio di asciugamani puliti.
“Sono proprio una stupida” brontolo e soffio sul gomito “Devo togliermi questo maglioncino griffato o mi toccherà aggiungerlo ai debiti da pagare a tua sorella”.
Lo sfilo piano dalla vita, un pezzetto per volta, con una difficoltà moltiplicata dal movimento del braccio che mi fa digrignare i denti.
Le mani di Chris mi vengono in aiuto, sollevano l’indumento con delicatezza, prima il braccio buono, poi oltre la testa, infine lentamente, liberano il gomito dal pizzicore della lana sull’abrasione. Il livido è già evidente, gonfio, violaceo, striato di sangue tutt’attorno.
“Stavi scappando da me” gli sento dire “È mia la colpa”.
Sollevo il viso. E sono ad un soffio dal suo. E mi rendo conto dell’intimità che abbiamo appena condiviso. Delle sue mani che ancora stringono il maglione che mi ha tolto.
Il sangue mi romba nelle orecchie come se mi fosse scoppiato un tuono dentro. Chris ha negli occhi quel calore speciale che mi fa sentire il cuore come la pallina di un flipper impazzito.
E mi sento esposta, seppure con questa pudica canotta gialla e i jeans.
Tuttavia devo cancellargli dal viso la ruga preoccupata che gli solca la fronte.
Scuoto il capo e trovo il coraggio di parlare “Sono imbranata da sempre. Dovresti saperlo”.
La tensione, quella specie di filo magico che ci ha uniti fino ad un istante prima, entrambi si dissolvono repentini.
Non so se dispiacermi o rallegrarmi.
La bocca di Chris si apre in una gradevole risata. Si arma di salviettine disinfettanti e si prende cura del mio gomito.
“I tuoi zii si sono tirati in casa una catastrofe a catena”.
“Sì, è probabile” concordo senza rancore “Mi spiace solo per le ultime consegne di domani, conciata così, non so quanto riuscirò ad essergli utile”.
“Potrei aiutarti io”.
“Che?”
L’ultima volta che ha detto una frase del genere è partito dopo nemmeno sei ore, a bordo di un aereo. Ed è sparito per tre mesi.
Chris si ferma, come se avesse percepito, sentito i miei pensieri.
Cerca i miei occhi. Così vicino mi fa mancare il fiato.
Se l’amore fosse visibile, potrebbe smascherarmi senza fatica in questo stesso istante, solo con questo scambio di sguardi. Senza nemmeno scavare in profondità. Perché ogni cosa, tutto ciò che sento per lui è salito in superficie ed è come una bandiera mossa dal vento, in un mare cristallino.
Sono stanca di mentire a me stessa. Di mentire anche a lui. Stanca di nascondermi. Di far finta che il mio cuore non mi stia gridando il suo nome a gran voce, come un pazzo furioso, qui nel petto, mosso da una forza che stento a controllare.
“Non me ne andrò all’alba, stavolta”.
Accidenti ma allora ha davvero dei super poteri.
“Promesse da marinaio” lo canzono inarcando un sopracciglio.
Lui mi prende una mano, palmo lacerato all’insù e sorride, mentre pulisce con cautela la ferita “Sono un pilota e un quasi ingegnere aerospaziale”.
“D’accordo. Promesse da pilotaquasiingegnere”.
Lui ridacchia, applica un cerotto al mio palmo sinistro e prende in cura l’altro “Sto preparando la tesi, Lentiggini”.
“Sono impressionata”.
Il suo sorriso si fa più ampio. “Dovresti esserlo. Spedirò in orbita qualche satellite e mi intervisteranno alla BBC”.
“Potresti anche andarci tu in orbita. Probabilmente saresti l’astronauta più bello, nella storia delle missioni spaziali, con indosso la tuta da marziano”.
La sua bocca si incurva in un sorriso piuttosto compiaciuto e io mi rendo conto di avergli appena fatto un palese complimento.
“EMU” aggiunge e applica un cerotto al mio palmo destro “È il nome della tuta”.
“Davvero originale”.
“Adesso le ginocchia” mi esorta divertito.
“Dovrei togliermi i jeans davanti a te?” mi sento chiedere, rossa per la vergogna. Sbirciando il letto, è più che ovvio che il mio corpo traditore e bugiardo, lo farebbe senza nemmeno porsi la domanda.
“Lentiggini, è come se fossi mia sorella”. Con garbo si alza e si volta, facendo qualche passo verso l’abbaino “Comunque per domani, voglio aiutarti sul serio”.
E non sa, non può immaginare, che vuoto dentro, che polverone ghiacciato ha provocato in fondo al mio petto, con queste sei parole. Che colpo al cuore mi ha appena dato, così con il più micidiale dei pugni.
Mi sento stordita. Come se mi fossi appena svegliata col mal di testa dopo una sbronza. E io non bevo. Ma giuro, in questo momento vorrei esserne capace. Perché mi sono di nuovo avvicinata troppo. E mi sono scottata. Ancora.
Mi alzo, tolgo i jeans quasi con furia, e il dolore alle mani si accentua e mi concentro proprio su questo, afferro l’accappatoio, lo infilo in fretta e lo annodo ben stretto. “Chris, non ce n’è bisogno. Troverò una soluzione”. Il mio tono ha perso ogni tipo di sfumatura. “E posso fare da sola anche qui, adesso”.
Lui mi fissa oltre una spalla, le mani incrociate al petto. Forse c’è qualcosa sul mio viso, lo vede. Corruga appena la fronte in cerca di risposte. O forse è solo la mia impressione.
Si volta, copre la distanza che ci separa, poca cosa, tre passi appena “Scusa, ti ho messa in imbarazzo?”
“Niente affatto. Hai ragione, siamo come fratelli. Ci conosciamo da tutta la vita. Non arrossisco certo perché sono praticamente in mutande, nella mia camera da letto, da sola con te”.
Inaspettatamente i suoi occhi mi percorrono da capo a piedi. Così come se stesse verificando la veridicità delle mie parole, rendendosi conto ad un tratto che è semplicemente la realtà dei fatti. Il colore dei suoi occhi si fa di colpo più intenso, più scuro, si passa una mano fra i capelli e poi l’allunga verso di me. Mi accarezza una guancia, allargando il palmo aperto sulla mia pelle, e non so davvero che cosa stia pensando perché il suo volto non lascia trasparire nulla.
Infine si china su di me, quanto basta per farmi schizzare il cuore contro la gola. E posa la sua bocca sulla mia guancia. In un saluto tenero e fraterno al tempo stesso.
“Buona notte, Lentiggini”.
Quando si volta perforo la sua schiena con occhi lividi di rabbia, così nera che mi viene da tirargli dietro qualcosa. Afferro un cuscino e lo spedisco contro la porta chiusa. “Buona notte un corno”.

             Al mattino sono ancora arrabbiata. Brutto segno. Io mi sveglio sempre col sorriso, perché sogno Chris.
Stanotte invece non ho sognato nulla che ricordo, sicché lui non era presente. Meglio. Non credo di volerci avere a che fare almeno per altri tre mesi. Magari è ripartito, come al suo solito, per qualche rotta di piacere, a bordo di un piccolo aereo con gente danarosa, belle donne che viaggiano e quasi certamente gli sbavano dietro come quella Silvia di ieri sera. Senza contare tutte le altre che ho avuto la sfortuna di intravedere nel corso degli anni.
Che stupida agonia.
Chris è semplicemente irraggiungibile, come i satelliti che vorrebbe mandare in orbita. E io passerò tutta la vita a cercarlo con un occhio schiacciato contro un telescopio.
E accidenti è anche la Vigilia di Natale. E sono piuttosto ammaccata, fuori e dentro e mi tiro su a fatica dal letto. In qualche maniera mi do una sistemata, lavata alla meglio, mi vesto zampettando per la stanza, acciuffo il mio impermeabile e i miei stivali e scendo in cucina.
Non c’è nessuno. Gli zii devono già essere in negozio. C’è Floppy però nella sua gabbietta, al calduccio in mezzo a un sacco di paglia. Il suo musetto nero vibra divertito facendomi una specie di sorriso. Almeno lui mi vuole bene. Anche se credo si tratti solo di convenienza, visto che gli sto mettendo viveri di prima necessità negli appositi contenitori.
 “Non fare l’offeso, non è successo niente. Stasera se riesco ti racconto” gli dico e gli sventolo mezza carota sotto i baffetti furbi “Hai scritto a Babbo Natale?” lui storce il musino, gli occhi neri mi fissano attenti “Avresti dovuto farlo, perché io mi sono dimenticata di prenderti un regalo”.
Per tutta risposta si gira di schiena e agita il codino.
“Maleducato” lo apostrofo e scendo in negozio.
Sento la zia che canticchia e faccio capolino oltre la porta del laboratorio. È intenta a confezionare altri pacchi. I riccioli ramati sono ingarbugliati in uno chignon elaborato sulla testa – e posticcio, conoscendola, durerà più o meno venti minuti - e i suoi occhi grigi, appena mi vedono, si illuminano.
“Veronica, ben alzata, come ti senti?”
Non ho avuto modo di spiegarle nulla. E non ho intenzione di farlo. In qualche modo me la caverò.
“Bene. Ho lasciato lo scooter da Erika perché pioveva. Se lo zio ha delle consegne in zona, vado a recuperarlo”.
“Il tuo scooter è sotto la tettoia, al suo posto” mi informa la zia “E piove ancora, quindi abbiamo organizzato il giro diversamente”.
“Chi l’ha riportato?” domando sospettosa “E diversamente come?”
Non fa in tempo a rispondermi.
La porta del negozio si apre, con un trillo di campanelli appesi sopra un rametto di vischio. Sulla soglia compare zio Andrea e un tizio alto praticamente quanto lui.
“Ronny, come stai?” mi chiede lo zio, affascinante come sempre. Gli occhi chiari mi scrutano un momento e mi regala uno dei suoi sorrisi attira clienti, quelli del chilo di gelato in più, delle paste doppie, delle consegne a domicilio. Non so come faccia zia Agnese a sopportare le neanche celate allusioni delle sue fan. Forse è proprio vero che l’amore rende ciechi e sordi. Oppure lei si fida davvero di lui. Di loro. Di ciò che hanno, che nessuno potrà mai togliergli.
“Tutto okay”.
“Davvero te la senti di lavorare?” piega un po’ il capo e alza il pollice facendo un cenno dietro di sé “Allora oggi abbiamo un volontario che ti aiuterà nelle consegne”.
“Ciao Lentiggini” Chris spunta da dietro, scrollandosi un poco l’impermeabile giallo, che su di lui sembra un capo da passerella, e si toglie il berretto con il logo del negozio “Va meglio stamattina?”
Ecco perché gli zii mi hanno chiesto se mi sento bene ed ecco perché il mio scooter è sotto la tettoia. Guardo l’orologio sopra la parete di fronte a me. Non sono nemmeno le otto. A che ora si sarà alzato per riportarlo indietro?
Ah, no, sono stramaledettamente arrabbiata con lui. Quindi non mi addolcirà con un paio di premure. E quel suo favoloso sorriso.
“Meglio. Ma non c’è bisogno che ti disturbi ancora”.
“Lingua affilata, pessimo umore, espressione feroce” commenta zio Andrea “Magari manda avanti Chris, oggi” e consegna al mio temporaneo collega di lavoro, la lista con gli indirizzi per le consegne “Meglio lasciare Ronny al caldo in macchina ed evitare di… farle prendere freddo”.
Lui e Chris se la ridono divertiti, come se io non fossi presente.
Li fulmino entrambi con lo sguardo.
“Ronny, puoi rimanere con me in negozio se non ti senti” viene in mio soccorso zia Agnese, porgendomi il cappellino identico a quello di Chris.
“Nemmeno per sogno” attacca lo zio “Farà scappare tutti i clienti”.
“Sono pronta” borbotto, infilandomi l’impermeabile e indossando il cappellino “Andiamo”.
E siamo fuori. Il furgoncino giallo della gelateria è parcheggiato dall’altra parte della strada.
“È già carico, abbiamo parecchio lavoro e gente con un sacco di fretta da accontentare”.
“Okay”.
Mi apre la portiera, galante come sempre o forse sta cercando di ammorbidirmi “Fatto colazione?”
“No ho fame”.
“Sicura di stare bene?”
“Sì”.
Lo vedo che trattiene un sorriso mentre gira dall’altra parte per sedersi al posto del guidatore.
Partiamo spediti, quanto il traffico ci permette, e ci dirigiamo verso la zona delle ville sul mare. La radio è sintonizzata su Virgin e c’è tutta un’ovvia programmazione con vecchi successi natalizi e una serie di gruppi anni ottanta di cui gli zii vanno matti. Oltre a tutte le novità del momento. Cose che canticchierei, se fossi dell’umore, si intende. Me ne sto invece osticamente in silenzio, rispondendo a monosillabi e solo se necessario. Da vera e perfetta maleducata.
Io non tengo il muso, mai. E non vorrei tenerlo a Chris. E forse è anche per questo che sono a dir poco infuriata. Ho spergiurato col pensiero che non sarei mai e poi mai stata arrabbiata con lui. Ed è riuscito a mandarmi in bestia un’ora dopo aver fatto questa disarmante dichiarazione di non belligeranza.
A metà mattinata siamo già a buon punto sulla tabella di marcia. Chris è preciso, conosce le strade, mi lascia sul furgone, se non troviamo parcheggio, e quasi non mi permette di sollevare niente, con la scusa che devo riposare. Io comunque, dopo le prime sei clienti che gli hanno lasciato una cospicua mancia e forse anche un paio di numeri di telefono, mi sono rintanata sul mio sedile a meditare allegri e soddisfacenti piani di vendetta.
Lui fa questo effetto sull’altro sesso, e quasi non se ne rende conto. Dovrei esserci abituata. E di certo non ho alcun diritto, nessuna replica che potrei fare, nulla che possa giustificare questa gelosia che mi corrode il fegato e che mi fa prudere le mani. Vorrei tirare un pugno ad ognuna delle stupide oche che lo hanno sfiorato un po’ più di due minuti anche solo con uno sguardo.
Nell’abitacolo risuona Sei dei Negramaro, con tutti i suoi bassi cadenzati, talmente potenti da arrivarmi sotto pelle. Ogni parola della canzone mi procura un brivido che mi fa venir voglia di scendere dal furgone e starmene per conto mio a sbollire il mio cattivo umore. Questa Vigilia di Natale è una pena.
Ehi, vuoi ascoltarmi? Ho ancora altre facce da indossare, tu chi sei? Sei. Quello che vedo. Sei. Un riflesso che non mi appartiene. Un riflesso che non riconosco…
Mi fisso i cerotti sui palmi. È stato Chris a curarmi. E vorrei un cerotto anche per la ferita che ho sopra il cuore. Ma questa ferita l’ha procurata proprio lui. Involontariamente. Perché lui non sa. Non può sapere. E di certo non vorrà mai sapere, se mi ostino a comportarmi da acida zitella incazzata.
Questa non sono io. Non mi riconosco.
“Focaccia di patate appena sfornata” Chris sale a bordo e mi porge un sacchetto di carta, caldo e fumante a contatto con l’aria fredda che entra dallo sportello aperto.
“È la tua mancia?” gli chiedo sbirciando dentro “Il profumo è fantastico”.
“È per te, la padrona di casa dice di rimetterti presto” e mi fa segno di salutarla oltre il finestrino chiuso.
“Che gli hai detto?” e agito una manina al vetro appannato.
“Che ti sei rotolata nel fango con un ciclista cieco”.
Scoppio a ridere, mentre lui mette in moto e inserisce la retro, uscendo dal vialetto di questa bella villetta dei primi del novecento, un po’ fuori città.
“Allora dividiamo”.
“Vuoi dividere il bottino con il nemico?”
“Tu sei tutto, tranne che mio nemico”.
“Potresti definire tutto?”
Tutto.
“Fammici pensare”. Spezzo la focaccia e gliela porgo.
Chris apre la bocca e l’addenta. E un’onda di emozioni mi investe. Credo sia la cosa più intima che ho mai fatto con qualcuno. A parte Floppy, è ovvio. Cioè sto imboccando Chris, nel senso che gli sto dando da mangiare. Lo sto nutrendo. Sto condividendo il mio cibo con lui. Con le mie mani.
Chris fa un verso compiaciuto, masticando di gusto.
Le sue labbra sfiorano le mie dita mentre finisce il pezzo di focaccia che ho spezzato per lui.
Devo ricordarmi come si fa a immettere aria nei polmoni.
Quando do da mangiare a Floppy lui al massimo fa tremare i baffi. Mentre a tremare qui sono io. Il mio cuore sta facendo un sacco di capriole.
“Buona, assaggia, dai” mi esorta Chris e mi indica la focaccia con il mento, scalando una marcia e svoltando a destra.
Io eseguo prontamente. La focaccia è squisita. Ne mangiamo ancora un pezzo ciascuno e mi torna il buon umore, così come se fosse spuntato un pezzo di azzurro sopra le nostre teste, al chiuso del nostro furgone giallo.
Gli domando del suo lavoro, dei suoi viaggi, della sua tesi e di un sacco di altro cose. Perché ho deciso che non voglio sprecare questo nostro tempo insieme. Nemmeno un secondo. Inoltre, se mi tengo impegnata, eviterò di guardarmi le dita come se mi avesse fatto una specie di incantesimo.

            Il cellulare di Chris suona nella sua tasca. Le sue interlocutrici sono per lo più donne e un paio di colleghi di lavoro. Ovviamente è molto popolare, con tanti amici che lo cercano, avrà di sicuro una pagina ufficiale su Facebook o su Twitter, con milioni di MIPIACE sotto il suo viso e tanti commenti cretini sulle sue foto. E io su FB non ci sono nemmeno e la mia vita sociale è pari a quella di uno Yeti.  
Stamattina ho persino dimenticato di caricare il mio smartfossile, così non ho ancora potuto chiamare la mia amica, che starà aspettando con ansia, ragguagli su ieri sera.
In realtà non è che abbia poi chissà cosa da raccontarle. E la parte in cui lui mi sfila il maglione e mi consiglia di togliermi i jeans, per ora preferisco tenerla per me.
“È per te” mi dice Chris porgendomi a sorpresa il suo cellulare “Erika” e scende poi dal furgoncino per prendere il pacco da consegnare.
“Allora, ti pare che puoi farmi aspettare mezzogiorno per ragguagliarmi su ieri sera?” La mia amica è piuttosto seccata.
“Stavo giusto pensando a te. Ho il cellulare scarico”.
“Sempre la solita. Chiedi a Babbo Natale un IPhone”.
“Sì, certo” e inarco un sopracciglio controllando i movimenti di Chris qui fuori. “Chris ha una pagina ufficiale su Facebook?”
“Che?”
“Lascia perdere”.
Lei nemmeno mi ascolta. Come al solito. “Ti sei anche fatta investire. Brava. Io non ci avevo pensato. Cioè non sarei arrivata a tanto, ma tu sei geniale”.
“Non l’ho mica fatto apposta!”, protesto “non riesco nemmeno a piegare le ginocchia”.
“Sì, Chris ce l’ha raccontato. Silvia l’ha presa malissimo. Oggi doveva accompagnarla a fare shopping. Ma lui ha detto semplicemente che sarebbe venuto in negozio ad aiutarti”.
“Davvero?” L’idea che Silvia l’abbia presa malissimo mi piace parecchio. D’accordo, è Natale. La smetto.
“Comunque, giocati bene questa Vigilia di Natale, perché è un’occasione che non si ripeterà” e aggiunge “Per di più Chris aveva un’aria così strana, stamattina a colazione. Almeno è quello che mi ha detto la mamma. Io dormivo, è ovvio. Lo sai che si è svegliato all’alba per riportarti lo scooter? È un vero tesoro”.
“Strana come?” corrugo la fronte e mi mordicchio un’unghia.
“Non lo so. Sembrava come se stesse pensando a qualcosa di importante. Era distratto. Molto distratto”.
“Insomma, che dovrei fare?” sospiro forte, stringendo il cellulare fra le dita “Mi ha detto chiaro e tondo che sono come una sorella per lui… Capisci?”
“Fallo ingelosire”.
“Che razza di consiglio è?”
“Che ne so, funziona sempre”.
“Oddio, che fine ha fatto la mia migliore amica?”
“Sono qui, scema”.
Chris apre la portiera e mi sorride sedendosi.
“Ci sentiamo più tardi”.
“Passami Chris”.
Gli passo il cellulare e Chris lo incastra tra la spalla e il mento, sistemandosi la cintura di sicurezza.
“Davvero?” chiede alla sorella e mi sbircia di sottecchi, con un’espressione prima incredula, poi vagamente seccata. Ma è solo un momento. O me lo sono immaginata. Lui chiude la comunicazione e mette in moto, il volto di nuovo tranquillo, il cellulare al sicuro nella tasca dell’impermeabile.
“Non mi hai detto che cosa hai chiesto a Babbo Natale” mi domanda a sorpresa, depennando dalla lista il penultimo nome in elenco.
“Niente” rispondo e bevo un sorso d’acqua dalla bottiglia al mio fianco, inserita nel vano portaoggetti della portiera. Che potrei dirgli? Che quello che chiedo a Babbo Natale è uguale tutti gli anni? Che non è una cosa che può essere messa in un pacchetto, con un bel fiocco e un biglietto d’auguri? Che non si può imballare, racchiudere, consegnare?
“Davvero non c’è niente che vorresti? Che ne so, magari un nuovo obiettivo per la tua reflex, un filtro, una borsa, un cavalletto, oppure un nuovo corpo macchina?”
“Ti sei documentato” sorrido e scuoto il capo “No, ho tutto ciò che mi serve. La mia piccola, il mio cuore e la mia testa. In tre bastiamo a noi stessi”.
Lui annuisce e mi rivolge uno sguardo complice. “Dimenticavo che è il fotografo che fa buone foto, non il contrario”.
“Come l’aereo è il mezzo. Puoi anche inserire il pilota automatico, ma gli automatismi hanno pur sempre dei limiti”.
“Inoltre ti perdi un sacco di divertimento”.
Sorridiamo e siamo perfettamente sintonizzati.
“E tu, che cosa hai chiesto a Babbo Natale?” gli domando, piena di curiosità.
“Quel che viene”.
“E se non fosse quel che desideri?” corrugo la fronte togliendomi il cappellino che ha iniziato a darmi fastidio. Infilo le dita in mezzo alle ciocche, districando un paio di nodi.
“Se è il destino a decidere, sarà quel che doveva essere”.
“Tua sorella, al destino, preferisce dare comunque una spinta” sono impazzita, ma che sto dicendo?
Chris ride “Erika cerca solo di realizzare ciò che desidera davvero. E di questo devo darle atto. Lei non si ferma fino a quando non ha ottenuto ciò che vuole”.
“Sì, la perseveranza è il suo miglior pregio”.
“O difetto. Bisogna vedere da che parte guardi la cosa”.
“Alle volte comunque, la perseveranza non basta” incurvo la bocca in una smorfia, persa nei miei ingranaggi mentali “Anche se hai un desiderio in cui credi con tutta te stessa, da così tanto tempo che pensi di essere nata per lui, e daresti qualsiasi cosa pur di vederlo realizzato, spesso ti rendi conto che semplicemente non puoi averlo”.
Sospiro piano scrollando le spalle. Fisso la strada davanti a me, il prossimo indirizzo è dietro l’angolo. L’ultima consegna e poi questo tempo speciale, mio con Chris, sarà finito.
“Allora credici più forte, lotta con più coraggio, mettiti in gioco, rischia se ne necessario, esci allo scoperto se serve. Ma provaci” mi suggerisce Chris, raggiungendo la nostra destinazione “Almeno avrai tentato. Perché senza un ragionevole margine di rischio, la maggior parte delle cose non ci appartiene mai completamente”.
Mi volto a guardarlo, soppesando ogni singola parola che mi ha appena detto. Tutto, un pezzetto alla volta, un passaggio alla volta, una virgola dopo l’altra. È così vero che mi sento un groppo in gola. Come se le parole volessero liberarsi da sole. Come se ciò che provo, tutto quello che ho dentro, stesse battendo forte i pugni, da qualche parte, in prossimità del petto.
“Ci vuole parecchio coraggio” mormoro cercando i suoi occhi che sono già appuntati dentro i miei, così con molte cose taciute o forse solo sospese, in questo abitacolo che sa di panettoni, zucchero a velo e cannella. E del suo indimenticabile profumo.
“Sì, lo stesso che hai avuto nel decidere di trasferirti in un posto nuovo, senza la tua famiglia, senza Erika, senza i tuoi punti saldi, le abitudini di tutta una vita, per ricominciare altrove”.
“Non è coraggio” mi stringo nelle spalle “È sopravvivenza”.
“E non è la stessa cosa?”
La sua mano si posa sulla mia guancia. Le sue dita si aprono a ventaglio, sfiorandomi lo zigomo, infilandosi alla base della nuca, accarezzandomi il collo e la radice dei capelli.
“Erika mi ha detto che c’è un ragazzo e che avete discusso” e cerca conferma in fondo ai miei occhi “Se è importante, forse dovresti trovare la maniera di sistemare le cose con lui”.
Che cosa gli ha detto Erika? Con chi è che dovrei sistemare le cose? Non sarà forse il suo stupido piano di farlo ingelosire? Perché non mi pare che stia funzionando affatto. Anzi. Mi sembra che sia proprio un completo disastro!
“Non è così… “ d’istinto copro il dorso della sua mano.
La radio trasmette You will never know di Imany.
E qualche idiota suona il clacson alle nostre spalle, facendoci sobbalzare e allontanare come due ladri colti sul fatto.
Se non è questo un segno del destino. Che altro può essere?

             Manca meno di mezz’ora a mezzanotte e io ho passato buona parte del pomeriggio e della cena con gli zii, in un silenzio agghiacciante. Tanto che lo zio, onde evitare di veder intristire anche il resto della città durante la Messa di Mezzanotte, mi ha consigliato di rimanermene tranquilla a casa a riposare. Loro sono andati via per tempo, ed io sono nella mia soffitta con Floppy che rosicchia una carota nella sua gabbietta. Me ne sto in piedi davanti allo specchio.
“Quindi che dovrei fare?” gli domando a braccia conserte, alzando il mento ad osservare il cielo oltre il vetro dell’abbaino. Floppy non è in vena di confidenze stasera. Forse si sente un po’ trascurato e non prova nemmeno a darmi retta. Oppure, visto che l’argomento è sempre il solito, è stufo anche lui di sentirmi fare gli stessi discorsi e magari anche di vedermi così infelice.
Chris mi ha riaccompagnata dritta in negozio, dopo aver consegnato l’ultimo pacco. Abbiamo scambiato ancora qualche parola, ma l’atmosfera era così tesa che ad un certo punto me la sono svignata in laboratorio, lasciandolo a chiacchierare con gli zii. Non si è trattenuto molto, comunque. Ho monopolizzato la sua Vigilia di Natale, il poco tempo da passare con i suoi, magari facendogli anche saltare il rendez vous con Silvia. Quest’ultima cosa non mi dispiace affatto.
Ed è stato fin troppo gentile e disponibile. Ha fatto qualcosa di buono per me, come sempre del resto. Ed io?
Io sono qui che non riesco nemmeno a decidermi a togliere questo stupido lenzuolo dallo specchio. E ad accettarmi per quella che sono. Me e tutto il casino che ho dentro.
Le sue parole mi tornano in mente a tratti, come se le avessi immagazzinate dentro un messaggio vocale e di tanto in tanto qualcuno schiacciasse il play per farmelo riascoltare.
“Allora credici più forte, lotta con più coraggio, mettiti in gioco, rischia se ne necessario, esci allo scoperto se serve. Ma provaci”…“Almeno avrai tentato. Perché senza un ragionevole margine di rischio, la maggior parte delle cose non ci appartiene mai completamente”.
Lui ha dannatamente ragione.
Forse io non ci credo abbastanza. Non ho abbastanza coraggio. Soprattutto non riesco a risolvermi ad uscire allo scoperto. A rischiare, anche un rifiuto. Perché so che mi farebbe male. Quel genere di male da cui uscirei molto più che pesta. Però. Ecco, se non accetto questo ragionevole margine di rischio, devo ammettere con me stessa che ciò che provo non è qualcosa di assoluto ed essenziale, qualcosa di cui non posso fare a meno nemmeno volendo.
Il mio cuore si lamenta. Lui sa. Lui c’è. Lui è Chris.
E se rifiuto ciò che tenta di dirmi. Rifiuto Chris. Rifiuto ciò che provo da quasi tutta una vita. Che è la mia ragione, da così tanto tempo che pensare di non averla, di smarrirla, di sprecarla, equivale a non vivere affatto.
Allungo una mano e strappo con decisione il lenzuolo, fino a scoprire lo specchio.
Sono io questa. Lunghe onde ramate, occhi grandi e grigi, lentiggini abbondanti, bocca atteggiata ad una smorfia triste.
Beh, per la miseria, io amo Chris. Non ho bisogno di altro, se non questo tipo di coraggio. Quello di una ragazza innamorata.
“Fammi gli auguri, Floppy”. Afferro il cappotto, la sciarpa, gli stivali, mi infilo la cuffia sui capelli sciolti e agito due dita nella sua direzione. Lui smette per un momento di rosicchiare la carota e annusa l’aria, con i baffetti che vibrano.
Faccio gli scalini a due a due, nonostante le ginocchia doloranti, e sono già sulla porta di casa e poi fuori in mezzo a tanto di quel freddo che potrei anche congelare. Se non stessi praticamente correndo, con il cuore che mi fa da satellitare, fra una via e l’altra, e in mente un solo posto, dove le mie gambe finalmente si arrestano da sole.
  
            Non ho fiato quando arrivo davanti al cancello dei Pitti. C’è un’unica luce accesa, al piano di sopra. Frugo nelle tasche alla ricerca del mio cellulare. Digito il nome di Erika e rimango in attesa, ballando sul posto per riuscire a scaldarmi. Dopo non so quanti squilli, scatta finalmente il bip della risposta.
“Sono io” attacco precipitosa.
“Lentiggini?”
“Chris???” e osservo il numero sul display “Dov’è Erika?”
“In chiesa con gli altri, ha dimenticato il cellulare. Tu, dove sei?”
“Fuori da casa vostra”.
“Qui fuori?”
Non sento più nulla. Dopo nemmeno mezzo minuto, il clic del cancellino che viene aperto a distanza. La luce della scala si accende in casa, e io supero di corsa il vialetto, e poi salgo i gradini davanti la porta di ingresso. Che si spalanca.
“Ronny, è successo qualcosa?”
Chris, camicia bianca, cravatta slacciata, pantaloni blu scuro. I capelli in disordine come se ci avesse passato le dita dentro un sacco di volte. Oppure no.
“Scusami. No, non è accaduto nulla. O per lo meno non ancora” riaggancio il cellulare che anche lui tiene ancora in mano “Stavi dormendo?”
“No. Vieni dentro, qui fuori si gela” e si tira indietro per farmi passare “Che significa non ancora?”
La porta si richiude dietro di noi e siamo in piedi uno di fronte all’altra, nel silenzio della casa, rotto solo dal tic tac di un orologio, appeso da qualche parte, e da uno stereo acceso.
Io devo ancora riprendere fiato. O forse è Chris a farmi questo effetto. Mi sfilo con cautela la cuffia dalla testa, la tuffo dentro le tasche del cappotto insieme al cellulare. Cincischio con i guanti e poi sollevo il mento.
“Succederà qualcosa quando riuscirò a dire quello che devo dire e motivo per il quale, sono venuta fino a qui a quest’ora”.
Lui inarca un sopracciglio con aria divertita “Vuoi una tazza di tè?”
“Sì, aiuterebbe”.
“Dammi il cappotto” e mi dà una mano a sfilarlo “È pronto, ci metto un attimo. Mi aspetti in sala da pranzo? Così ti scaldi davanti al fuoco?”
“D’accordo. Ma fa presto” prima che mi passi il coraggio.
“Promesso”.
Mi sono appena avvicinata al camino, allungando le mani per togliermi di dosso un po’ di gelo che lui è già di ritorno. Arriva con un vassoio, due tazze e una teiera, una buona scelta di tè e lo zucchero. E io non ho praticamente saliva.
“Cosa preferisci?” mi elenca un paio di nomi.
“Quello che prendi tu”.
Lo stereo è sintonizzato su una stazione locale. Musica adatta al momento, visto che mancano dieci minuti a mezzanotte. E fra dieci minuti la mia vita sarà cambiata per sempre. O quasi.
“Non vuoi sederti?” e mette il tè in infusione “Lo sai è stato divertente oggi. E siamo stati anche piuttosto bravi”.
“Più o meno” mi sento dire e lui corruga la fronte voltandosi a guardarmi da sopra una spalla.
“È con me che devi parlare, Ronny?”
“Sì” ammetto.
“Quanto zucchero?”
“Quello che vuoi”.
Lui ha un’aria perplessa.
Accidenti così non andiamo da nessuna parte. E io non so se ce la faccio. Dov’è finito il mio coraggio? Eppure ce l’avevo fino a pochi istanti fa.
“Hai parlato con il tuo ragazzo?” se ne esce “Avete fatto pace?”
“Chi?”
E mi porge la tazza di tè che afferro meccanicamente.
“Avevate discusso. È per questo che eri triste oggi, no?”
Osservo la mia immagine riflessa nel liquido scuro, rischiarato dalle luci dell’albero di Natale. Sono smarrita. Perduta e smarrita.
“No” scuoto il capo “Non ero triste. Ero arrabbiata. Furiosa direi. E sei stato tu a farmi arrabbiare. Perché io non voglio essere arrabbiata con te. Mai”.
Sembro fuori di testa. Forse lo sono. Ma che ci sto a fare qui?
Chris mi guarda senza comprendere, scandagliando la mia espressione, alla ricerca di qualche sintomo di follia, magari.
“Perché ti ho fatto arrabbiare?”
“Perché sei stato sincero, immagino” mi viene fuori e poso la tazza di tè sul tavolo, prima di versarmela addosso “Non dovevo prendermela”.
“A proposito di cosa?”
“Mi hai detto esattamente quello che sono per te”. Sollevo il mento, quanto basta per fissarlo bene in volto e quasi mi viene da ridere nel vedere lo sconcerto che gli corruga la fronte. “Il fatto è che non è la stessa cosa per me”.
Lui rimane in silenzio. Forse di proposito.
“Lo so, va bene? Lo so come mi vedi. Sono una mocciosa con un sacco di casini, uno dentro l’altro, come una matriosca che quando si apre anche l’ultimo pezzo, sei sicuro di trovarci qualche guaio” mi fisso la punta degli stivali “Insomma, vivo in un mondo a parte, non so nemmeno che cosa sia un tacco alto, e il più delle volte viaggio con la testa per aria anziché guardare dove metto i piedi. E poi c’è quella cosa fastidiosa che ti fa credere che io sia ancora una bimba di quattro anni che ha bisogno di qualcuno che l’aiuti”.
“Lo so che sei cresciuta” mormora lui “Lo vedo”.
“Non come vorrei” e torno a guardarlo “Mi hai chiesto di definire quel tutto” scosto una ciocca di capelli dietro un orecchio “Ecco, ci ho pensato”.
“Ti ascolto”.
“Tutto” mi stringo nelle spalle “Tu sei tutto. Ecco che cosa sei. Nemmeno una briciola in meno. E lo sei da così tanto tempo, che voglio correre questo ragionevole rischio” e mi porto una mano sul cuore, per quietarlo forse, perché sta addirittura ruggendo ed è lui che mi spinge a proseguire “Sei qui dentro. E io ho cercato di mandarti via un sacco di volte. Ma non ci riesco. Perché è come pensare senza pensieri. È come respirare senza respiri. Semplicemente non è possibile”.
“Ronny” sussurra il mio nome, forse vorrebbe fermarmi. Ma io alzo appena le mani, perché a questo punto non ho più nulla da perdere.
“Dovevo dirtelo. Sono venuta fino qui per questo” e sento di essermi tolta un milione di pesi dal cuore, così solo con queste semplici e forse sconclusionate parole “Dovevo dirti che ricordo perfettamente quel pomeriggio al parco. Ed è sicuro che lo ricorderò per tutta la vita. Che non ho chiesto nulla a Babbo Natale se non l’unica cosa che conta per me. Che gli chiedo più o meno da quando avevo quattro anni”.
Il suono di un clacson irrompe nel soggiorno, ripetuto, inopportuno e maleducato.
Chris tace. Non accenna nemmeno un fiato. È in piedi a meno di quattro passi da me e mi sta guardando come se mi vedesse per la prima volta. E mi sembra così combattuto.
Il pendolo batte la mezzanotte. Il fuoco scoppietta allegro nel camino. E l’albero di Natale brilla in tutta la sua maestosa ricchezza.
E se non me ne vado da qui, dopo tutto questo, è sicuro che scoppierò a piangere da un momento all’altro. Non c’è altro che possa dire. Nulla che possa provocare in lui una replica. Magari è solo in un tremendo imbarazzo.
Mi mordo il labbro, sospiro, chiudo appena gli occhi, e con tutta la dignità di cui sono capace, faccio per superarlo. Ho la sensazione che il buio sia fuori da questa stanza luminosa. E che mi stia aspettando.
Chris non si muove. Non accenna nemmeno a fermarmi. E sono già in corridoio, lontana da lui. Da tutto ciò che gli ho confessato. Da tutto ciò che gli ho lasciato di me. Di quel noi che ho immaginato per così tanto tempo, che non so nemmeno io adesso, come riuscirò a sopravvivere.
Afferro il mio cappotto alla cieca e ho già aperto la porta.
“Lentiggini”. Chris mi ha raggiunta. La sua mano mi afferra, salda eppure dolce, all’altezza del braccio.
Osservo le sue dita attorno al mio braccio. “Lasciami andare”.
Lui sospira piano, fa scivolare la destra fino a sfiorarmi il polso, a racchiudere nel suo palmo il mio palmo. Il suo calore raggiunge ogni centimetro della mia pelle, e mi procura una sorta di scossa, un brivido che mi scuote dentro.
“Non posso” mormora intrecciando le sue dita alle mie “Non ancora”.
“Allora metti fine a tutto questo. Adesso” gli suggerisco con un residuo sorprendente di coraggio “Non lasciarmi alcun tipo di speranza. Fai a pezzi i miei sogni. Distruggi quello che ho dentro. Non essere gentile con me. Perché non è la tua gentilezza che voglio. Men che meno la tua compassione”.
Adesso i suoi occhi mi stanno accarezzando. Il celeste si è fatto più scuro, più brillante, denso come se volesse avvolgermi, prendermi con sé, attirarmi dentro quel calore speciale capace di toccarmi il cuore.
“Parto fra due ore” e mi sfiora il viso con la sinistra, palmo aperto, le dita scottano a contatto con la mia pelle “Stamattina uno dei miei colleghi mi ha chiamato per chiedermi il cambio con il suo volo e io ho accettato”.
“Te ne vai?” Fuori in strada intravedo la sagoma gialla di un taxi. Che borbotta ancora con due colpi di clacson. Sta aspettando lui. Ecco perché Chris è così elegante, indossa la sua divisa da pilota. 
Richiude la porta con un gomito. E siamo di nuovo nel tepore quieto del corridoio.
“Sì” cerca i miei occhi “Non è gentilezza la mia, e nemmeno compassione. Ho deciso di andarmene, perché ho percepito tutto quello che mi hai detto stasera. Molto prima che facessi squillare il cellulare di Erika”.
“Vuoi andartene?” Corrugo la fronte, perché non ci sto capendo un accidente. Sento solo il cuore, abbattuto e scoraggiato e non so come potrò consolarlo. Chris se ne va. Ancora una volta. “Quindi che stai cercando di dirmi? Che sapevi tutto e che hai preferito farmi parlare, rendendomi anche un po’ ridicola, anziché zittirmi subito?”
Inaspettatamente mi attira contro di sé “Sta’ zitta adesso” e mi abbraccia stretta “E ascolta me”.
Annuisco e comunque dove potrei andare, schiacciata come sono contro di lui? Mi farei spellare viva piuttosto che staccare anche solo mezzo millimetro delle mie ossa dal suo corpo caldo e perfetto.
“Sei un libro aperto. Tutto quello che senti, ogni cosa, buona o cattiva, meravigliosa, triste o divertente, è così evidente che è impossibile non finirci dentro, non esserne travolti, come una specie di uragano che ti investe”.
“È questa la tua idea di farmi a pezzi?”
Lui sorride. Ed è un sorriso che mi toglie il respiro. La facoltà di ragionare, di mettere in fila due parole di senso compiuto una dopo l’altra.
“Ronny, io non voglio farti a pezzi, né te né i tuoi sogni. E voglio lasciarti tutta la speranza che hai dentro, la stessa che ti ha portata qui stasera” il suo sorriso si accentua “Da me”.
“Non vuoi?”
Scuote il capo “Non posso. Ci provo da quest’estate a fare il contrario. Ma non sei la sola a non esserci riuscita”.
“Non credo di aver capito”.
“Allora provo a spiegartelo così”.
Le sue braccia mi sciolgono dal calore del suo abbraccio, le sue mani mi circondano il viso, cerca i miei occhi e li tiene incatenati ai suoi chinandosi su di me. Fino a sfiorare le mie labbra con le sue, in una carezza lenta e piena di tenerezza, in un tormento così delicato e dolce che mi sfugge un gemito soffocato. Tanto che lui si scosta un attimo. Apre gli occhi, li tuffa nei miei e ho come l’impressione che sia incredulo quanto me, addirittura disorientato. Sorride e le sue braccia mi circondano, strette, solide, calde, forti, quasi ad assicurarsi che io non possa sfuggirgli. La sua bocca reclama la mia, in un lento, determinato, incredibile saccheggio che mi fa schiudere le labbra, e cedere le ginocchia. I miei palmi sono contro il suo petto, il suo cuore è ad un soffio dalle mie mani. Lo sento battere impazzito, all’unisono col mio che urla di gioia, perché finalmente ha trovato la sua metà.
Chris sa di mare, di limone, di sogni, di nuvole e panna montata, di gelsomini e cannella.
E ogni pezzo di me si disintegra in un tripudio di fuochi d’artificio, di scie luminose e cori di alleluia.
“Buon Natale, Lentiggini” mi sussurra sulle labbra e non so dove finiscono le parole e ricominciano i baci.
La radio trasmette Someone like you.
E siamo di nuovo sulla spiaggia, al chiaro di luna, con le stelle che fluttuano come bagliori argentati, su una sciarpa di velluto blu. Solo lui e io, così vicini e stretti in un meraviglioso paio di minuti, che sembrano sfiorare l’eternità.
E la clessidra del tempo non è altro che polvere di stelle, dentro un taxi giallo che ancora aspetta il suo passeggero.

FINE

CHI E' L'AUTRICE
Virginia Parisi nasce nella suggestiva Piazza Armerina e vive da oltre un trentennio tra le belle colline del Monferrato. Sposata, madre di una bimba di due anni, si divide tra la famiglia, il lavoro di fotografa e la sua passione per la scrittura.  

Come scrittrice ha esordito nel 2003 con il romance storico "Animi Fortitudo”, cui hanno fatto seguito nel 2004 il romanzo storico "La Fiamma della Speranza" e nel 2007 il giallo storico "L'Ottava Pergamena", nel 2009 la commedia sentimentale “Al centro del dipinto”. Nel 2011 ha pubblicato con la Spinnaker il romanzo fantasy "La leggenda di Ghelbes Tal" ( vedi qui). Sul blog La Mia Biblioteca Romantica è stato anche pubblicato il suo racconto breve "Un incontro perfetto"(leggilo qui).





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13 commenti:

  1. bellissimo! non c'è la promessa d'amore, ma forse è meglio così, sarebbe stato fin troppo ovvio se lui le avesse detto apertamente che l'amava. Invece, così, c'è la possibilità di avere un'altra continuazione, di sapere cos'altro succede tra i due... lo sai vero che resterò in trepida attesa?? :)

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  2. .... ma quanto mi è piaciuto!
    brava, molto, molto coinvolgente e pieno d'attesa quest'ultimo abbraccio!

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  3. Davvero molto carino! Tra tutti è quello che mi ha coinvolta di più, e adesso aspetto anch'io una terza parte ;)
    Complimenti!
    Cassie

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  4. Grazie di cuore a voi x aver letto! Che piacere immenso sapere che Ronny e Ctris vi hanno emozionato...e che qualcuna aspetta una terza puntata.
    .E grazie a Francy ancora una volta x l'opportunità e le chiacchiere e la lettura in bozza.... E sì penso proprio che un seguito ci starebbe bene...Un abbraccio a tutte

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  5. Tenerissimo! Un amore adolescenziale in evoluzione. Molto bello. complimenti. Mi aspetto anch'io un epilogo meraviglioso! Dolce e passionale insieme! Brava

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  6. Carino ma, come era già successo con Stelle di mezzanotte, il finale mi ha lasciata un po' così. Non capisco perché Chris voglia andarsene, lui dice che è perché ha compreso i sentimenti di Ronny ma, visto che li ricambia, non avrebbe più senso rimanere?
    Se ci sarà un seguito lo leggerò volentieri :)

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  7. Tenero e dolce, una malinconia stemperata dal lieto fine che fa respirare romanticismo. Una storia perfetta per il Natale.

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  8. bello,a mio parere e come se tu vedessi un fim le emozioni descritte molto bene le provi anche tu mentre lo leggi lo adoro!!aspetto con ansia il prossimo!

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  9. Avevo letto la prima parte d'un fiato e speravo in una seconda; ho letto la seconda già assaporando... una terza: perchè la storia continua vero Virginia? Mentre si legge, le immagini scorrono nitide davanti agi occhi e quella frase "parto tra due ore per lavoro", ci lascia ancora sospesi, nonostante il bellissimo lieto fine. Insomma, "me sabe a poco"...direbbero in Spagna, mi è volato, è finito troppo presto.
    Mi è piaciuto molto.. davvero, perché la freschezza che trapela da queste righe fa scordare per qualche minuto tutto ciò che di complicato ci si presenta ogni giorno nella vita reale...
    Hasta la proxima.. Ronny

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  10. Questi vostri commenti sono come regali di Natale inattesi e perfetti. Mi regalano un'emozione impossibile da descrivere a parole... Grazie di cuore.
    Quando ho iniziato a scrivere di Chris e Ronny, pensavo, ripescando nella mia memoria di sedicenne, che mi sarebbe piaciuto raccontare una storia alle mie nipotine che crescono e che si avvicinano piano piano a quell'età in cui il cuore comincia a fare un po' di testa sua e ragiona per suo conto. Si ribella, ascolta, sgroppa, si butta a capofitto, si inalbera e sgomita per farsi largo in mezzo a valangate di emozioni sconosciute che sanno di primi amori. Quelli che non si scordano mai. Quelli che saranno per sempre. E oltre. Questi due racconti sono dedicati a loro. E come spesso mi capita, siccome non sono io a decidere la storia, ma i miei personaggi - e questi vostri post così cari mi sostengono nell'impresa - proseguo in questi giorni ad ascoltare i loro vaneggiamenti.... E Ronny è una tipa strampalata, ma quando vuole, anche parecchio insistente... Un bacione.

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  11. È piaciuto moltissimo anche a me. Con questo racconto sei riuscita ad emozionarmi profondamente. Complimenti, davvero!

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  12. grazie Laura per aver letto! un abbraccio!

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  13. È proprio vero che ci si pente di quello che nn si fa, mai di ciò che si fa o, almeno, si tenta. Mi ha fatta tornare indietro a tempi remoti e sensazioni praticamente dimenticate. Molto brava.

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