“Che
paradiso!” Allargai le braccia in una mezza giravolta.
Quel
posto era assolutamente magnifico. Il tipico albergo con il tetto a falde
ripide e i terrazzini in legno, grondanti di fiori multicolori, gli aspri
picchi montani alle spalle, ancora chiazzati di neve, e il bosco intorno,
brillante di tutte le tonalità del verde, con i suoi profumi e il tappeto
sonoro degli abitanti.
Chiusi
gli occhi e respirai a pieni polmoni l’aria frizzante. Avevo fatto la scelta
giusta. Mollare tutto per andare in quel paesino dell’Alta Savoia a “schiarirmi
la testa”, parole del mio agente, era stata la prima decisione sensata da un
mese a quella parte.
“Signorina, mi deve pagare la corsa.” La voce
nasale del taxista mi risvegliò dalla mia trance idilliaca.
“Certo,
certo.” Frugai nella borsetta alla ricerca del portafogli.
Il
conducente aprì il baule della macchina e tirò fuori le mie valigie. “Ecco a
lei, mademoiselle.”
Gli
passai il denaro concordato all’aeroporto. “Merci, monsieur” risposi con, in
pratica, tutto il francese che conoscevo.
Tra
i folti baffoni grigi comparve un accenno di denti giallognoli “Pas de quoi.”
L’uomo si toccò il cappello con due dita. “Buone vacanze.”
“Grazie.”
feci un piccolo inchino.
Sganciai
il manico del mio trolley, afferrai il beauty e mi incamminai lungo il
lastricato verso l’ingresso dell’albergo.
Che
cos’era quello?
Respirai
a pieni polmoni. Pane fresco! Oddio, che voglia di pane fresco. Quando mai,
nella mia frenetica vita a Londra, potevo mangiare del pane fresco?
Che
fortuna aver trovato quel posto.
Feci
il mio ingresso nell’atrio silenzioso con i suoi bei mobili in stile rustico e
le pareti rivestite di listoni di legno.
La
ragazza alla reception sollevò lo sguardo e mi accolse con un sorriso.
“Bonjour, madame.”
Oddio!
Se non parlavano la mia lingua? Il pensiero non mi aveva neanche sfiorata nella
mia tipica arroganza britannica.
Arrivata
al bancone, vi appoggiai il foglio della prenotazione. “Parla inglese?” chiesi
subito.
“Certamente
signora.” rispose con un perfetto accento oxfordiano un po’ arrotondato.
Sorrisi
sollevata, che disastro sarebbe stato. “Salve, sono Margaret Burton. Ho
riservato una stanza per una settimana.”
La
ragazza bionda controllò nella schermata del computer. “Eccola qua.” rispose.
“Mi vuole dare i suoi documenti?”
Presi
il passaporto e la carta di credito e glieli allungai. È un posto davvero
magnifico. C’è una pace, una tranquillità.”
La
ragazza sollevò su di me gli occhi un po’ sgranati ma non ci feci troppo caso e
continuai a blaterare. “Vengo da un periodo difficile. Avevo proprio bisogno di
un luogo come questo: silenzio, paesaggio fantastico, alberi sotto cui leggere.
Un posto dove staccare completamente la spina.”
Il
sorrisino di circostanza fu un po’ stirato.
Forse
stavo esagerando ma ero davvero così contenta di essere lì. Quella vacanza
poteva essere la mia cura, doveva essere la mia cura: qui avrei ritrovato la
mia ispirazione, la mia benedetta musa.
Avevo
sempre voluto diventare una scrittrice, raccontare storie per far sognare le
donne di tutto il mondo. Ma la dura realtà era che nessuno voleva leggerle le
mie storie e avevo passato anni a inviare racconti e romanzi senza ricevere
neanche un “crepa” in risposta.
Poi
il miracolo: la trama adatta, i protagonisti giusti, un editore che aveva
creduto in me. Così ero diventata una scrittrice best seller.
I
miei romanzi erotici avevano venduto migliaia di copie. Non come la James,
anche se, segretamente, pensavo di scrivere meglio, ma la mia serie “Bodyguard”,
basata su un’agenzia di guardie del corpo molto “speciali”, aveva avuto un
grande successo.
Adesso
mi trovavo a un punto morto. Dopo averne pubblicati quattro, dovevo scrivere il
romanzo più importante, quello che tutti aspettavano, quello che tutti
chiedevano: Quentin, il mitico capo/fondatore/mentore del gruppo.
Un
personaggio travagliato, difficile, con una personalità elusiva e dominatrice e
un passato di cui non parlava mai. Le mie lettrici chiedevano a gran voce il
suo HEA e il mio editore aveva deciso
fosse arrivato il momento.
Peccato
che la mia mente fosse una tabula rasa. La storia di Quentin mi sfuggiva, come
la sua personalità: neanche un’idea intelligente, neanche una scena erotica,
neanche una co-protagonista adatta.
Ero
molto preoccupata, il mio agente era molto preoccupato. Avevamo già firmato il
contratto per i diritti ma io non riuscivo a scrivere una sola, singola parola.
Ecco
perché Les Carroz d'Arâches in Alta
Savoia ed ecco perché quella pace mi sarebbe servita come
l’ossigeno.
“Bene,
signorina Burton.” La ragazza mi passò una
tessera magnetica. “Camera 123, primo piano, corridoio a sinistra. La luce si
accende quando la inserisce nell’alloggiamento di fianco alla porta.”
Raccolsi
tutte le mie carte e la card. “Grazie mille.” sorrisi.
Abbassai
le dita sul manico del trolley ma rimasi folgorata sul posto.
Un
caos di voci maschili, grida, fischi e battimani mi ancorò al pavimento in
legno. La ragazza spalancò gli occhi, poi mi guardò e mi riservò un sorriso
rassicurante, un finto sorriso rassicurante, che sortì l’effetto opposto.
Con
un senso di malessere, mi girai verso la porta d’ingresso. Un’orda di ragazzoni
in abbigliamento sportivo superò la vetrata. Erano tanti, erano giovani, erano
grossi ed erano... rumorosi!
Li
guardai avanzare a bocca aperta, inorridita davanti alla prospettiva: le scarpe
da ginnastica cigolanti, le voci profonde da uomini ma con l’energia dei
giovanissimi e la tipica voglia di farsi sentire e farsi vedere.
I
ragazzi si avvicinarono al bancone, riservarono vari cenni di saluto alla
ragazza, adesso con un sorrisetto ebete incollato alla faccia, e proseguirono
verso le scale.
Alla
fine del branco comparve un uomo imponente, capelli brizzolati sulle tempie, un
accenno di barba non fatta su una mascella squadrata, zigomi alti e una bocca
larga dal labbro superiore arrotondato in modo molto sexy. I penetranti occhi
azzurri, un po’ infossati dietro le sopracciglia folte, vagarono su di noi con
un’espressione benevolmente neutra ma, un attimo dopo, si puntarono severi su
di me.
Cosa
stava succedendo?
Era
appena passata l’orda dei barbari e il loro comandante mi guardava anche male?
“Bonjour,
Marie.” salutò rigido e continuò a passo di marcia.
“Bonjour,
monsieur Dumont.” rispose piano la ragazza.
Seguii
l’avanzare dell’uomo con un certo interesse, soprattutto su per le scale, con
le lunghe gambe poderose e il didietro ben allenato.
Finito
lo spettacolo mi girai verso Marie. “Chi… sono questi?”
Lei
abbassò lo sguardo, conscia di essere in fallo, la pace della mia vacanza
calpestata da un branco di giovani tori guidati da un arcigno, se pur molto
piacente, mandriano brizzolato.
“Squadra
di rugby under 21 del Faucigny Mont Blanc di Cluses.” disse piano.
“E
rimangono qui?” Domanda retorica ma chissà, forse partivano quel pomeriggio.
“Sì,
ma non deve preoccuparsi.” Cercò di rimediare. “Sono molto bravi. Si allenano
tanto. Sono sempre in giro per i boschi e la notte sono troppo stanchi, non
fanno rumore.”
Mi
aveva preso per stupida? “Ma li ha guardati?” Ero certa lo avesse fatto,
l’espressione mezza sognante con cui li aveva seguiti era un chiaro segno. “Con
tutto quel testosterone si potrebbero far crescere i baffi all’intera
popolazione femminile dell’Inghilterra.”
Lei
si strinse nelle spalle ed io la fissai con una certa voglia di spargere del
sangue.
Dovevo
andarmene? Girare il sedere e perdere la caparra? Cosa ne avrei ricavato?
Quella vacanza mi serviva come l’aria, senza contare il mio agente: mi avrebbe
stracciato il contratto in faccia.
Sollevai
le spalle, non avevo molta scelta. Forse la receptionist non era stata troppo
ottimista...
“Va
bene.” Presi le mie valigie e mi diressi alla colonna dell’ascensore, seguita
da un rumoroso sospiro della ragazza.
Non
era possibile!
Guardai
di nuovo la sveglia: le due! Quei maledetti rugbisti, traboccanti di ormoni e
birra, stavano facendo un baccano del diavolo. Erano ore che fissavo le travi
del soffitto!
Avevo
trascorso il pomeriggio a sistemare le mie cose, riposarmi e a fare una piccola
passeggiata di acclimatazione. Alle sette, ora di cena, mi ero presentata nella
sala da pranzo dell’hotel e mi era stato assegnato un piccolo tavolo appartato.
Un piatto fumante era arrivato subito dopo.
Che
pace.
Il
calore del consommè, le chiacchiere sommesse degli altri clienti, il lieve
profumo di sapone di Marsiglia della biancheria. Cinque minuti di assoluto
benessere. Solo cinque minuti.
Poi
il gruppo di marcantoni aveva invaso il salone, urlato e fischiato alle cameriere,
strisciato e sbattuto una decina di sedie e si era accomodato attorno a un
lungo tavolo facendo di tutto per farmi rimpiangere la mia partenza da Gatwick.
Grida,
dialoghi a voce alta, scherzi, pugni, stridore di seggiole, tutto ciò che una
ventina di giovani esuberanti poteva fare.
E
come se non bastasse, il loro guardiano, l’atletico, brizzolato, muscoloso,
mascella volitiva monsieur Dumont, mi aveva lanciato delle occhiate feroci
senza motivo.
Avevo
mangiato il più in fretta possibile, scottandomi lingua e palato, e mi ero
precipitata fuori dall’hotel, nella speranza di trovare un po’ di consolazione
nell’aria fresca della sera e nei suoni sommessi del bosco.
Mi
ero seduta su una panchina lungo il sentiero ed ero rimasta a compiangermi per
una buona mezz’ora.
Potevo
essere più sfortunata? Due ore di aereo, un taxi costosissimo fino nel cuore
delle Alpi francesi per trovare pace e mi ritrovavo nel mezzo del ritiro di una
squadra sportiva giovanile? Qualcuno doveva avercela con me.
Era
stato un mese schifoso.
Finita
la sfacchinata promozionale per i miei romanzi, ogni giorno una città
differente, orari diversi, la folla delle fan e tutto quello che ne conseguiva,
tutto quello che avrei voluto era dormire una settimana e godermi un po’ di
pausa. Invece, al mio rientro a Londra, Norman, il mio fidanzato, se n’era
andato.
Stavamo
passando un momento difficile, continue discussioni, critiche immeritate,
pretese e ricatti, ma avevo sperato di sistemare tutto al mio ritorno, quando
avrei avuto il tempo di ragionare.
Norman
non era stato dello stesso parere. Lo avevo trovato con la valigia chiusa, la
giacca su un braccio e un “non mi ami abbastanza” pronto da sbattermi in
faccia, insieme alla porta di casa.
Norman
era stato un sogno diventato realtà. Incontrato in un gruppo di scrittori su
Facebook, era tutto ciò che avevo sempre desiderato: poetico, romantico, stesso
interesse per la scrittura e la lettura. Sarei rimasta ad ascoltarlo per ore
con il suo parlare colto, i suoi termini forbiti le
sue bellissime citazioni. Scriveva poesie e racconti ermetici e aveva un lungo
romanzo nel cassetto su una saga familiare, la sua, che iniziava nella Polonia
di fine Ottocento.
Aveva
quell’aria da intellettuale sognatore, gli spessi occhiali da miope, il fisico
asciutto leggermente curvo, una voluta trascuratezza nel vestire e nella cura
personale. Non era un adone, ma non m’importava. La sua anima riluceva negli
occhi scuri pieni di tormento e a me bastava.
Soffriva
molto per il ritardo nella pubblicazione del suo romanzo. Anche lui aveva
contattato decine e decine di editori ma nessuno aveva mostrato interesse.
Quando
avevo pubblicato il primo libro della mia serie, Daniel, era stato il mio
maggior sostenitore. Pubblicità, raid sui social, creazione del sito, Twitter,
Pinterest e tutto ciò che ci girava intorno. Con il secondo, Marcus,
l’entusiasmo era già diminuito. Aveva cominciato a trovare difetti nel mio
stile, nelle mie storie, a rendermi insicura su tutto.
Al
terzo romanzo, Rodriguez, aveva cominciato a essere più aspro. Mi rimproverava
per come mi vestivo, come mi truccavo. Mi aveva persino accusata di prendere
ispirazione altrove per i romanzi. Come se non mi vedesse perennemente seduta
al computer.
Micha,
il quarto, gli aveva fatto dire che amavo più i miei libri di lui e se n’era
andato.
La
separazione mi aveva devastata. Avevo creduto in lui, in noi. Avevo cercato di
sostenerlo, di incoraggiarlo, avevo persino fatto leggere il suo romanzo al mio
agente, ma non era stato sufficiente.
Come
se non fosse bastato, alla rottura si era aggiunta l’incalzante pressione del mio
agente e dell’editore per leggere le prime
pagine del mio Quentin. Il boss, invece, come lo chiamavano gli u omini della
sua squadra di guardie del corpo, aveva deciso di tacere, di abbandonarmi e di
sparire dalla circolazione.
L’allenatore
della squadra di rugby un po’ me lo ricordava: l’aria decisa, severa, lo
sguardo penetrante, il fisico da modello di Men’s
Health. Mancava solo la cicatrice sul lato della mascella e la fossetta,
molto sexy, sul mento.
Dovevo
ritrovare l’ispirazione e quella vacanza era la mia ultima speranza.
Dopo
essermi pianta un po’ addosso, avevo fatto una passeggiata nell’area attorno
all’albergo e mi ero ritirata in camera a leggere.
La
rumba era cominciata poco dopo e tuttora, alle due di notte, non si era ancora
fermata.
Un
forte colpo contro il muro divisorio mi fece sussultare, seguito da una
sguaiata risata generale.
La
rabbia e la frustrazione esplosero.
Adesso
basta! Dovevo fare qualcosa. Va bene essere giovani e pieni di vita ma anch’io
avevo qualche diritto.
Scalciai
via le coperte e scesi dal letto fumante dell’ira dei giusti. Infilai le mie
pantofole con un po’ di tacco e il ciuffetto di piume sopra e mi diressi
all’uscita. Sfilai la tessera dall’alloggiamento nel muro e pestai i piedi fino
alla stanza centoventicinque.
Bussai
una prima volta senza ottenere risposta, poi una seconda, una terza e alla fine
battei a palmi aperti con tutte e due le mani per farmi sentire.
Un
ragazzo molto alto e molto grosso, con una zazzera di capelli neri tutti
spettinati, spalancò la porta, mi scannerizzò da cima a fondo e poi fece
affiorare un lento sorriso malizioso.
A
me! Un sorriso malizioso!
“Bonsoir
madame.” Il ragazzo si appoggiò allo stipite. “Voulez-vous quelque chose?” Il
tono basso e pieno di sottintesi riuscì a farmi arrabbiare ancora di più.
“Sono
le due di notte!” dissi a denti stretti per evitare di svegliare l’albergo con
i miei urli. “Vorrei dormire.”
Lui
aggrottò le sopracciglia poi girò la testa all’indietro. “Benoit!” gridò. “Viens ici. Il y a une demoiselle que
parle anglais. ”
Un
altro marcantonio, questa volta biondo con due folte basette lunghe fino
all’angolo della mandibola comparve sull’uscio. Altra scannerizzazione, altro
sorrisino.
“Buona
sera signorina.” disse in un inglese con forte accento. “Ha bisogno di
qualcosa?”
“Sono
le due di notte!” Questa volta il tono basso andò a farsi friggere. “Voglio
dormire!”
“Qu'at-elle dit?” chiese
il primo ragazzo.
“Elle
veut coucher.” rispose il secondo.
Mi
soppesarono entrambi con lo sguardo. Qualcosa non andava, me lo sentivo. Se
solo avessi studiato il francese a scuola invece che quello stupido spagnolo.
Il
cigolio di una porta fece sollevare lo sguardo ai due ragazzi che si diedero
una gomitata, drizzarono la schiena e la loro espressione divenne di totale
innocenza.
“Qu’est-ce
qui passe ici?” Un’imperiosa voce baritonale mi fece sobbalzare.
Mi
girai di scatto e mi trovai davanti al severo e prestante allenatore, con una
t-shirt bianca mooolto aderente, sui pettorali mooolto ben sviluppati e un paio
di pantaloncini che lasciavano scoperte le gambe robuste e muscolose, coperte
da una leggera peluria castana su cui il mio
occhio indugiò qualche secondo. Se non fossi stata così furiosa, avrei potuto
trovarlo…moolto interessante.
Gli
occhi stretti a fessura fecero una veloce ricognizione del mio corpo e poi si
fissarono sui ragazzi. L’ultimo arrivato cominciò a parlare un velocissimo
francese e io rimasi a fissare il bel signor Dumont cambiare espressione da
mediamente infastidita a decisamente incavolata.
Abbaiò
qualcosa in francese, dal tono doveva per forza essere un ordine, i ragazzi
rientrarono in camera e chiusero la porta.
Subito
dopo il prestante allenatore puntò i suoi laser azzurri su di me, le folte
sopracciglia aggrottate in modo molto inquietante.
“Cosa
crede di fare?” mi disse in un inglese scivolato, dalle vocali strette e dalle
bellissime erre arrotate che mi provocarono una strana reazione.
Mi
persi un attimo in quello sguardo così simile al cielo sopra quelle montagne. Avrebbero
potuto volarci un po’ delle ali che mi frullavano nello stomaco.
“Allora!”
ribadì l’uomo, impaziente
I
suoi modi così poco cortesi mi riscossero dalla trance da “occhi blu”. “Volevo
dormire.” risposi, tornando a inalberarmi. “I suoi ragazzi stanno facendo un
gran baccano: risate, grida, sbattevano cose contro il muro.”
“E
le sembra questo il modo di presentarsi in una camera piena di giovanotti?”
continuò lui, la sua mano fece una panoramica della mia persona.
Mi
guardai e mi resi conto di essere nella mia camicia da notte corta di seta e le
ciabattine, tacco e piume, comprate per un weekend con Norman.
“Ero
a letto e stavo cercando di dormire.” gli
risposi acida. “Non ho pensato a rivestirmi.”
“Non
faccia la furba.” Avvicinò il viso al mio, scandendo bene le parole. “Quello
non è cibo per i suoi denti.”
Cibo
per i miei denti? Cosa voleva dire? Non voleva mica insinuare…
“Non
vuole mica insinuare…”
La
risposta nei suoi occhi fu molto eloquente.
Quel
maleducato, zotico, fighissimo francese pensava che io avessi trovato una scusa
per sedurre dei ragazzini poco più che maggiorenni?
“Lei
è pazzo.” esclamai. “Volevo solo dormire. Nella MIA stanza, nel MIO letto, DA
SOLA!”
“Allora
ci vada nel SUO letto.” Mano su un fianco, indice puntato verso la stanza 123.
“Non si azzardi mai più a presentarsi davanti a una stanza di ventenni vestita
come una sgualdrina.”
“Non
sono vestita come una sgualdrina!” strillai. “Ero a letto. Questa è la mia
camicia da notte.”
Qualche
porta si socchiuse, le teste di alcuni degli altri ragazzi sbucarono dagli
spiragli così come quelle di alcuni clienti più anziani.
Perfetto,
proprio perfetto.
“Non
faccia l’innocentina. La prossima volta che ha qualcosa da dire, bussi alla mia
porta invece di cercare di adescare i miei giocatori.” Girò su se stesso e si
avviò verso la sua camera.
“Come
osa!” sbraitai ancora più forte,alla sua schiena. “Lei è un gran cafone, non
capisce niente.” continuai.
L’allenatore
varcò la soglia e mi sbatté la porta in faccia.
Mi
lasciai andare a una bella crisi di nervi. Battei i piedi per terra, strinsi i
pugni verso l’uscio e mi uscì un verso inarticolato di rabbia. Le risatine
degli spettatori mi fecero girare verso di loro con uno sguardo omicida.
Le
porte si richiusero di colpo.
Mi
voltai per tornarmene in camera ancora più fumante di quando mi ero alzata.
Entrai
sbattendo le ciabattine, rinfilai la tessera nell’alloggiamento per la luce e a
passo di marcia me ne tornai a letto.
Un
assoluto silenzio regnava nella camera accanto ma mi ci volle comunque un bel
po’ prima di addormentarmi.
Non
punterò la sveglia, mi ero detta subito prima di partire.
Purtroppo
al mio galletto interiore non gliene fregava niente che fossi in vacanza o che
avessi litigato con un bello zoticone come il signor Dumont alle due di notte.
I
miei occhi si spalancarono sulle travi del soffitto alle sette e non ci fu più
modo di riaddormentarsi.
Rimasi
un po’ sdraiata a rimuginare sulle ingiustizie della vita e così potei
assistere al risveglio in sordina della squadra.
Lo
sciacquone nel bagno, le porte chiuse, lo scricchiolio delle scarpe sul legno,
i borbottii sussurrati. Mi consolai con il fatto che non ero l’unica a navigare
fra lo stato di zombie e il bradipo a quell’ora del mattino.
La
loro partenza mi diede la spinta per alzarmi. Andai nel bagno a fare tutto ciò
che era in mio potere per svegliarmi prima del caffè e poi mi fermai davanti
allo specchio.
Ero
proprio sbattuta. Le occhiaie nere, i capelli stanchi e opachi, il viso un po’
gonfio, il colorito giallognolo. Ero venuta lì per riposarmi e questo era il
risultato.
Dopo
un’indispensabile tazza di caffè, una coppia di toast con il formaggio e una crêpe
con la marmellata, le mie facoltà mentali entrarono in modalità start.
La
prima decisione della giornata fu: evitare a tutti i costi la squadra e quell’insopportabile,
maleducato del loro allenatore.
Un
fallimento su tutta la linea.
Iniziai
con il prendere il mio e-reader e
cercare un posto appartato e tranquillo dove fermarmi. La mia escursione del
pomeriggio precedente mi aveva fatto scoprire un grande albero, con larghe
foglie verde scuro e grosse radici ritorte in modo da formare una sorta di
sedile. Era un po’ discosto dal sentiero, senza essere troppo lontano, e
sembrava proprio il posto ideale.
Presi
in prestito qualche cuscino dall’albergo e uscii per dirigermi verso il bosco.
Il sole non era ancora riuscito a scaldare l’aria fresca del mattino, così mi
allacciai anche la felpa.
Dopo
una rapida camminata di una decina di minuti, arrivai sotto la chioma folta
dell’albero e mi sedetti per terra. Sui rami si sentivano gli uccellini
chiamarsi fra loro e la leggera brezza faceva muovere le foglie in un lento
sussurro.
I
residui di rabbia della sera prima si dissolsero.
Accesi
il mio lettore, ovviamente su un bell’erotico, e m’immersi nella storia di
sconosciuti e aeroporti, scritta da una delle mie autrici preferite.
Ero
alle prese con una scena davvero bollente, quando dei rumori mi fecero
sollevare lo sguardo verso il sentiero. Un filo lucente penzolava davanti ai
miei occhi e attaccato a esso c’era un… RAGNO.
Il
mio grido acuto bucò le foglie sovrastanti. Io odiavo i ragni!
Saltai
su come se le radici fossero diventate delle molle e mi buttai verso il
sentiero poco distante sbattendo le mani sulla felpa. “Dio che schifo. Dio che
schifo!” strillai. Avrei potuto trovare momento migliore? No! Dovevo scegliere
l’esatto istante in cui il distaccamento dei
rugbisti arrivava di corsa.
Io
finii dritta addosso a uno di loro, beccandomi, tra l’altro, una gomitata in
una costola. Lui, montagna umana, quasi non se ne accorse. Mi afferrò alla vita
per impedirmi di finire a terra e mi sorrise.
“Scusi,
grazie.” dissi viola per l’imbarazzo, la mano sul punto dove il suo braccio
doveva avermi incrinato qualcosa.
“Ça
va?” mi chiese, guardando il mio viso sofferente.
Io
annuii, intuendo la domanda, mentre gli altri ci sorpassavano. Riconobbi i due
ragazzi della sera prima che si girarono e quello biondo mi fece persino
l’occhiolino.
L’allenatore
chiudeva il gruppo. “Allons, Marcel, vas-y!” Con uno scappellotto incitò il
ragazzo a riprendere la corsa. Il suo sguardo azzurro mi trafisse con milioni
di dardi acuminati.
“Non
l’ho fatto apposta!” gli gridai dietro e gli vidi scrollare le spalle.
Mi
fermai qualche secondo. Vederlo correre era davvero un bello spettacolo.
Elegante, sciolto, la falcata delle lunghe gambe e l’ondeggiare in sintonia
delle braccia vigorose. Che sfortuna, tanta magnificenza con così tanta
antipatia.
Recuperai
le mie cose e decisi di andare altrove. Ma la mia odissea non era ancora
finita.
Dopo
fu la volta del bar del paese.
Mi
ero fermata a bere un Kir, un
cocktail di cui avevo tanto sentito parlare, e avevo trovato un magnifico
posticino nella veranda posteriore con vista spettacolare sulle montagne
circostanti.
C’erano
anche alcuni giochi: due tavoli da ping pong, un calciobalilla e due
macchinette per videogiochi. Non ci
diedi molto peso.
E
commisi un errore.
Il
mio bicchiere era ormai a metà e il sapore del cassis mi aveva indotto a
rimuginare su Norman, sul nostro rapporto e le vere ragioni per cui era andato
a rotoli, quando una gran confusione alle mie spalle mi fece congelare con il
bicchiere mezzo sollevato.
Qualcuno
doveva proprio avercela con me.
Un
gruppo di ragazzi entrò nella veranda, senza prestarmi la minima attenzione. Quattro
di loro si sfidarono a calcetto a suon di frulli, colpi con le aste ed
esclamazioni. Altri iniziarono una sorta di ping pong semi acrobatico in cui
correvano intorno al tavolo mentre colpivano la pallina.
E
io dovetti dire addio al mio momento idilliaco.
Il
loro guardiano entrò per ultimo, si sedette a un tavolino un po’ distante e,
con mia somma gioia, non mi notò.
Volevo
centellinare il mio cocktail, il mio rapporto con l’alcol non era dei migliori,
così mi feci un po’ indietro, giusto per mimetizzarmi meglio con l’ambiente, e
rimasi a osservarlo.
Era
un peccato fosse così arrabbiato con me, era proprio un uomo attraente, anche
da dietro. Il busto usciva di un bel pezzo fuori dallo schienale della sedia e
la polo blu conteneva a fatica le ampie spalle e i dorsali da manuale del
perfetto culturista. Ma in quanto a carattere…
Sorseggiai
ancora un po’ il mio Kir quando la
mia fortuna girò di nuovo bandiera. Uno dei ragazzi, ancora uno di quelli della
camera, mi notò e mi fece un gran sorriso.
Il
suo allenatore seguì subito la direzione del suo sguardo e mi beccò in
flagrante con il bicchiere mezzo sollevato. Aggrottò le sopracciglia in quel
suo modo spaventoso e scostò la sedia come per alzarsi.
Non
voleva mica venire lì? Non ero pronta a un altro confronto.
Ingollai
il mio cocktail di colpo e l’attimo dopo stavo quasi correndo fuori dal bar,
inseguita da un “Mademoiselle, aspetti.”
Certo!
I demoni si aspettano sempre.
Speravo
di aver finito con i brutti incontri ma purtroppo la mia “buona” stella aveva
ancora qualcosa in serbo per me.
L’albergo
era dotato di una piscina, una delle ragioni per cui l’avevo scelto. Non era
un’olimpionica ma i suoi onesti venticinque metri per quattro corsie la
rendevano ben più che adatta per una bella nuotata in santa pace. Era coperta
da una sorta di veranda a vetri, utile per le giornate fredde, dotata di porte
scorrevoli che davano su un terrazzo con lettini e ombrelloni. Il posto ideale
dove rifugiarmi, mi dissi.
Che
ingenua!
Mi
ero sdraiata da una decina di minuti su uno dei lettini. Il calore del sole
mitigato dall’aria fresca, la quiete dei pomeriggi in montagna, un bicchiere di
Schweppes al limone per combattere la sete. Cosa c’era di meglio? Niente.
Chi
altri poteva pensare la stessa cosa?
La
bibita frizzante mi andò di traverso quando l’orda al gran completo della
squadra under 21, di non so quale cittadina, invase la struttura.
Mi
sedetti di colpo per non soffocare. “Non ci posso credere.” sussurrai tra me.
L’area
coperta cominciò a rimbombare delle loro grida, dei loro giochi e dei loro
scherzi. Palline volavano da una parte all’altra, grandi spruzzi si sollevavano
dall’acqua quando qualcuno vi si buttava o veniva spinto dentro, persino un
frisbee giallo roteava nell’aria, avanti e indietro.
Non
potevo rimanere. La confusione era ai massimi livelli e c’era sempre la
questione di quel cecchino dell’allenatore.
L’uscita,
però, era all’interno della veranda, sarei stata costretta a passare tra loro
per raggiungere la salvezza. Avevo altra scelta?
Mi
alzai dal lettino, strinsi il nodo del pareo intorno ai fianchi e mi avviai,
testa bassa e passo deciso, verso la veranda.
Avevo
quasi oltrepassato il punto critico quando, in slow motion, vidi una pallina di gomma gialla passarmi davanti in volo,
uno di quei marcantoni, pelle scura e cresta nera con i capelli rasati ai lati,
saltare per afferrarla e ricadere esattamente contro di me.
Essere
travolti da un Tir non doveva essere molto diverso.
Mi
ritrovai catapultata in acqua insieme al ragazzo che, molto più agile di me,
riuscì a evitare di sbattermi sul fondo. Mi afferrò in qualche modo alla vita e
mi riportò in superficie insieme a lui e metà piscina nello stomaco.
Tornai
a galla tossendo e sputando come si conviene a chi è quasi annegato.
“Excusez-moi, Madame. Je suis désolé. Pardon.”
Il giovane si stava scusando a profusione, o almeno il tono sembrava suggerire
così. Dopo un controllo generale, capii di essere tutta intera, solo un bel po’
spaventata. Per fortuna avevo lasciato e-reader
e telefono in camera e il pareo si sarebbe asciugato in fretta.
L’efficiente
allenatore arrivò subito dopo per constatare il danno.
Al
suo giocatore, ovviamente.
L’uomo
cominciò ad abbaiare in quella lingua, in genere così dolce, ma che lui usava
come una mitraglietta.
Quelle
erre arrotate avrebbero potuto ferire qualcuno.
Il
ragazzo si avvicinò, mise due mani sul bordo e si issò fuori dalla piscina in
un solo fluido movimento. L’allenatore continuò a rimproverarlo e lui rimase a
occhi bassi a prendersi la sua dose.
Quasi
mi dispiacque per il ragazzone. “E’ stato un incidente.” cercai di difenderlo.
La
furia nello sguardo che mi rivolse bastò a farmi desistere.
Meglio
dileguarsi.
Con
quattro bracciate raggiunsi la scaletta, salii fretta e mi diressi a passo
veloce verso l’uscita.
A
cena, il fato decise di avere ancora un altro conto in sospeso con me.
L’arrivo
di nuovi clienti aveva costretto i padroni a ridisporre la sala ed io, essendo
sola, ero stata spostata proprio in fondo alla tavolata dei giovani atleti. Le
mie proteste non erano servite a molto. In un inglese stentato mi avevano fatto
capire che era l’unico posto disponibile.
Mi
ritrovai di nuovo a ingollare il pasto, un’incandescente Soupe à l'Oignon, tenendo lo
sguardo fisso sul piatto.
Solo
alla fine, incrociai gli occhi gelidi di monsieur Dumont che strinse le labbra
e scosse la testa.
Fossi
stata un altro tipo di donna avrei potuto mettermi a discutere, ma a che pro?
Era la pace quella che cercavo, non duellare verbalmente con un emerito cafone
davanti a tutti gli ospiti.
Alla
fine della cena non rimasi neanche in giro per la hall, anzi, decisi che quella
giornata meritava di essere affogata in una bottiglia di Vin de Savoye.
Salii
in camera mia, buttai via le scarpe, recuperai un bicchiere dalla dotazione
della camera e portai il tutto fuori sul terrazzino.
Seduta
con i piedi sulla balaustra, circondata dal profumo dolce delle petunie,
guardai il cielo stellato, un sorso dopo l’altro, nutrendo il mio senso di
inadeguatezza con pensieri sempre più neri.
Ero
davvero un impostore? La mia vena di scrittrice si era del tutto esaurita?
Perché nessuno mi capiva?
Quando
raggiunsi il giusto grado di stordimento, mi alzai traballante dalla sedia e mi
diressi sul mio letto.
Ero
nelle condizioni ideali per appoggiare la testa sul cuscino e sprofondare in un
lungo sonno ristoratore, cosa che avvenne per almeno due ore. Poi, i miei
deliziosi vicini, decisero di dare il via a un incontro di lotta libera.
Mi
svegliai di soprassalto per il rumore di qualcosa di pesante che cadeva a terra,
poi lo scricchiolio dei mobili spostati, i grugniti dei contendenti e le voci
degli spettatori che li incitavano.
L’alcol
ancora girava nel mio corpo e mi diede coraggio. Scalciai via le coperte e misi
i piedi giù dal letto. Il mondo ondeggiò con tale forza da costringermi a
prendere qualche respiro prima di rischiare ad alzarmi.
Infilai
le mie pantofoline con le piume, indossai anche la vestaglia e con passo
deciso, se pur barcollante, marciai verso la porta, fuori dalla camera.
Mi
fermai davanti all’uscio accanto, il pugno alzato, pronta a picchiare sul
legno, quando un’idea repentina mi fece abbassare il braccio. Mi voltai e andai
verso la porta del famigerato allenatore.
Bussai
una volta, niente.
Una
seconda, ancora niente.
Una
terza…
Stavo
per bussare la quarta quando la porta si aprì di scatto e l’allenatore mi
comparve davanti, i capelli scompigliati dal sonno, l’espressione, ancora
innocua, di chi è stato appena buttato giù dal letto.
Quella
sera aveva deciso che la t-shirt era di troppo. Le mie nocche erano arrivate a
pochi millimetri da un perfetto uscio di carne, una doppia anta suddivisa in
listoni di puro muscolo, corredata di passatoia centrale di peluria che si
perdeva sotto l’elastico dei calzoncini.
Fui
colta da un attimo di sbandamento e la gola secca mi costrinse a deglutire con
forza.
Alzai
lo sguardo e proseguii lungo i pettorali perfetti con il loro bottoncino rosa
scuro al centro, le spalle larghe, il collo velato di barba, il mento volitivo,
gli zigomi alti e, quando finii il mio giro panoramico, rimasi surgelata dai
due laghi ghiacciati che mi fissavano.
“Cosa
vuole ancora?” Il tono sgarbato non riuscì a far sembrare meno sexy
quell’accento.
“I
suoi ragazzi mi hanno svegliata un’altra volta.” risposi con la stessa voce
brusca, decisa a ignorare l’effetto di tutto quel ben di Dio su di me. “Stanno
giocando ai piccoli demolitori là dentro.” Indicai la camera con il pollice.
Lui
uscì dalla stanza a piedi scalzi e, incurante del suo abbigliamento, o per l’assenza
di esso, sbatté i piedi sulla moquette fino alla camera.
Si
fermò davanti all’uscio e allungò un orecchio. Dopo quattro secondi in cui
invidiai quei calzoncini così ben stretti attorno al suo lato B, si voltò verso
di me, in perfetta posa da asso di coppe. “I miei ragazzi sono silenziosi,
Madame. La prego di smetterla di mettersi in mostra. Sono troppo giovani e
siamo qui per allenarci.”
“Io
non mi sto mettendo in mostra.” Mi misi nella sua identica posizione. “Siete
voi che mi perseguitate. Io voglio solo stare tranquilla. Ho bisogno di pace,
di dormire.”
“E
allora vada in camera e faccia dei bei sogni.” rispose lui, ritornando verso la
sua porta.
“Non
ci riesco!” Alzai il tono della voce. “Siete dappertutto e fate sempre un sacco
di confusione. Devo riposare, devo concentrarmi.” Mi odiai quando la mia voce
si ruppe in un piagnucolio.
Lui
si fermò a pochi centimetri e rimase a fissarmi in silenzio.
La
mia bocca, invece, non ne volle sapere di rimanere chiusa. “Non riesco a
pensare, non riesco a scrivere. Il mio agente mi mollerà, il mio editore mi
citerà in giudizio, Quentin non avrà mai la sua storia e io sarò rovinata.
Rovinata!” Misi le mani davanti agli occhi e le cataratte si aprirono con
lunghi e intensi singhiozzi.
Attraverso
le dita, vidi i suoi piedi nudi avvicinarsi e un braccio mi cinse le spalle.
“Madame, si calmi.” quasi preoccupato.
Appoggiai
le mani che coprivano il viso al suo torace e continuai a piangere.
“Non
faccia così.” disse piano. Poi mi attirò nella sua stanza, chiuse la porta con
un piede e continuò a farmi retrocedere, fino a mettermi seduta su una
poltroncina.
Ci
sono diversi tipi di ubriacatura: chi la prende violenta, chi non riesce a
smettere di ridere e chi piange come un bambino.
Io
non potevo che essere dell’ultima categoria, la più imbarazzante, la più
stupida.
Avvertii
a malapena i suoi movimenti nella stanza mentre sfogavo la mia tensione,
frustrazione, rabbia, paura con un fiume
e mezzo di lacrime.
Non
so quanto tempo passò. A un certo punto avvertii una mano e dei piccoli
movimenti circolari sulla spalla.
Sollevai
il viso e lui mi porse un grande fazzoletto maschile che profumava di
detersivo. “Prenda.”
Un
sonoro “tloc” lo fece girare. Si avvicinò a un tavolino, staccò il bollitore
dalla base, aprì una bustina e ne versò il contenuto dentro una tazza, seguito
dall’acqua bollente.
Un
intenso aroma di camomilla si sparse nell’aria.
Mescolò
il liquido e poi me lo portò, tenendola per il manico. “Solubile.” Me la porse.
“Quello che ci vuole per calmarsi un po’.” Poi fece l’errore di sorridermi.
Non
mi aveva mai sorriso.
Rimasi
abbagliata da quella visione, dimenticando perché ero lì e lo spettacolo che avevo
appena dato di me stessa.
Spinse
la tazza fin sotto il mio naso e io mi riscosse dal mio incanto. La presi con
le mani ancora tremanti e ne bevetti un sorso.
Il
calore scacciò un po’ degli effetti dell’alcol e la mia figuraccia mi apparve
in tutta la sua mostruosità. Fantastico!
Dopo
essere passata per una seduttrice di ragazzini, ero riuscita ad apparire come
un’ubriacona piagnucolosa. Ben fatto Margaret, mi dissi.
“Mi
scusi. Io…” sussurrai, vergognandomi da morire. “Grazie.” Affondai il naso
nella tazza.
Lui
fece un gesto con la mano per minimizzare la cosa, si sedette sull’altra
poltroncina e si lasciò andare a braccia aperte contro lo schienale, lo sguardo
intenso su di me. Sembrava lo facesse apposta a sbattermi in faccia tutta la
sua maschile prestanza.
“Mi
sembra di capire che è una scrittrice.” Disse, questa volta in tono gentile.
“Sì.”
annuii e avvicinai ancora il bordo alla bocca. Avrei dovuto aggiungere “forse”
ma la parola mi morì in gola davanti a un altro dei suoi sorrisi.
“E
chi è Quentìn?”
“Il
capo della Cobra Security.”
“Cobra
Security? Qu’est que c’est?”
“Un’agenzia
di guardie del corpo… un po’ speciali.” Intuendo, dal tono interrogativo, cosa
mi avesse chiesto.
“Lei
ha bisogno di una guardia del corpo?” Le sopracciglia folte scattarono in alto.
“Allora è molto famosa.”
Che
scema! I personaggi giravano sempre nella mia testa e io ne parlavo come
persone vere.
“Non
è la mia guardia del corpo. È il personaggio della serie che sto scrivendo.”
“Aah!”
Lui annuì. “Quindi questo Quentìn non esiste.”
“Solo
nella mia testa. Ma nell’ultimo mese è sparito. Puff! La sua storia svanita.”
Mi si incrinò la voce. L’alcol non mi aveva ancora mollato.
“Che
cosa è successo in questo mese?”
“Niente
di particolare, a parte…” Mi ritrovai a raccontare tutto a un perfetto
sconosciuto, lo stesso che poco prima mi aveva accusato di mettermi in mostra
con dei ventenni.
L’ultimo
mese in cui Norman se n’era andato, il mio agente aveva incominciato a
pressarmi perché scrivessi la mia storia, l’editore mi aveva chiamato per i
primi capitoli, mia madre mi aveva tormentato perché non ero più con Norman e
il mio gatto era scappato da casa.
“Questo
Norman era geloso?” L’uomo intervenne solo alla fine del mio racconto.
“No!
Lui era troppo bravo. Mi ha detto che pensavo troppo alla mia carriera e non lo
amavo abbastanza.”
“Geloso,
senza dubbio.” affermò lui. “Cosa intende: non riesco a scrivere?”
“Mi
metto davanti alla pagina bianca e il mio cervello si svuota.” Girai un po’ il
liquido nella tazza per far sciogliere qualche granulo rimasto sul fondo e
bevetti l’ultimo sorso. “Di solito ci sono delle immagini nella mia testa. Ho
la scena davanti, sento le voci dei protagonisti, avverto gli odori, guardo
scorrere gli eventi, poi scrivo.” Sospirai a fondo. “In questo momento non c’è
nulla, a parte Norman e gli errori commessi con lui.”
“E
i suoi sbagli?”
Io
sollevai le spalle. “Non so.” dissi piano.
Lui
appoggiò il mento su due dita, il gomito sul bracciolo, e mi fissò qualche
secondo. “Quando è stata l’ultima volta che ha pensato davvero a se stessa?”
Che
strana domanda. “Ci penso sempre.”
Lui
scosse piano la testa. “Io vedo una bella donna davanti a me che ha smesso di
volersi bene. Si è convinta di non essere più “amabile” e si è lasciata
andare.”
Lo
guardai sconcertata. Chi era, Sigmund Freud?
Dovette
capire al volo perché sorrise indulgente. “Non potrei essere un buon allenatore
senza capire la base della psicologia umana e lei, ma chère mademoiselle,
si è arresa e la mente l’ha seguita.” Si allungò in avanti, i gomiti sulle
ginocchia. “Conosce il latino? C’è una frase che noi sportivi amiamo molto mens sana in corpore sano. Mia cara, lei
deve ritrovare la sanità del corpo per guarire la testa.”
Mi
era capitato anche l’allenatore filosofo.
Il
mio scetticismo era talmente palese che l’uomo rise. “Vedo che non mi crede.”
disse. “Vuole fare una scommessa?”
“Non
è una cosa su cui scherzare.” risposi, ora infastidita.
“Sono
serissimo. Preferisce rimuginare tutto il tempo e nascondersi nel bosco per
spiare i miei ragazzi allenarsi?”
“Io
non mi sono nascosta nel bosco.” mi alterai. “Siete voi che spuntate
dappertutto.”
“Le
è servito a qualcosa stare a pensare?”
Fui
costretta a scuotere la testa. Cosa avevo ottenuto in quella giornata? Un bel
niente. Anzi, da sola ero riuscita a fare pensieri ancora più neri.
“Proviamo
come dico io. Da domani, lei si allenerà con noi.”
“Ma
è matto!” Saltai sulla poltroncina. “Non ce la faccio.”
“Non
la farò correre con i tronchi sulla schiena o allenarsi a fare la mischia” La
faccia di chi pensava fossi un po’ stupida. “ Però il gruppo aiuta, sostiene,
carica.” Strinse il pugno per enfatizzare il concetto. “Se, alla fine della
settimana, non ha ottenuto risultati anche sulla sua mente, le darò cento
euro.”
“E
in caso contrario?” sospettosa.
“La
dedica nel libro di questo Quentìn.”
Rimasi
a fissare gli occhi azzurri decisi, le sopracciglia distese, il vago sorriso e
pensai fosse davvero un bel tipo. Ma poi tornai sul soggetto in questione.
Cosa
avevo da perdere? Volevo riposarmi ma da cosa? Più stavo sola a non far niente,
più mi flagellavo sul rapporto con Norman. Perché non provare?
“Affare
fatto?” L’allenatore allungò la mano con un sorriso di vittoria.
A
leggere le espressioni era davvero bravo.
“Affare
fatto.” risposi. La strinsi un po’ titubante.
“Non
so ancora il suo nome.” disse.
“Margaret.”
“Moi, je suis Étienne.” Si alzò dandomi
un’altra visione di quel torace perfettamente scolpito. Accidenti a lui, era
davvero un pezzo d’uomo. “Bien, Marguerite. Adesso, a letto.” Mi fece tirare su
dalla poltroncina. “Domattina sveglia alle sei, colazione e poi a correre nel
bosco.” aggiunse mentre andavamo alla porta.
Avrei
voluto correggerlo sul mio nome ma la mia attenzione fu catturata
dall’affermazione successiva. “Eh!” esclamai inorridita. “Alle sei?”
“Le
prime ore del mattino sono le migliori.”
“Ma
l’altra mattina non siete passati alle sei.”
“Ma
sono in vacanza.” tentai ancora una protesta.
“Abbiamo
un patto.” Non lo avrei smosso neanche di un millimetro.
Il
mio sospiro fece fremere le tendine alla finestra e risposi un “Ok.” davvero
riluttante. “Domattina alle sei.” aggiunsi.
Uscii
dalla camera dell’allenatore e mi avviai a passo strascicato alla mia camera.
Forse mi ero lasciata convincere troppo in fretta, forse non era la cosa giusta
da fare, forse dovevo solo stare ferma a guardare il soffitto, forse…
Mi
girai con la bocca aperta come per replicare.
Lui
era ancora sulla porta, con tutto quello splendore in bella vista, e mi
sorrise. “Alle sei.” ripeté.
E
io, completamente ipnotizzata da quel torace degno della copertina di uno dei
miei romanzi, non potei che annuire.
Lui
rientrò in camera ed io feci lo stesso.
Me
ne sarei pentita! Già lo sapevo.
Toc, toc.
“Mmm.”
mugugnai, senza svegliarmi.
Toc, toc.
“Mmm,
che c’è.” Sollevai la testa dolorante e aprii un occhio. Era ancora buio, chi
era a quell’ora della notte?
Bum,
bum. “Marguerite, sono le sei.” La voce dell’allenatore…
La
serata mi tornò in mente tutta in una volta, insieme alla promessa fatta a Étienne.
Gran bel nome, tra parentesi.
Con
un certo sforzo mi misi seduta e il dolore alla testa mi fece stringere gli
occhi. La scusa buona per ritornare a letto.
Bum,
bum. Più forte. “Va tutto bene?” La voce quasi preoccupata.
Mi
trascinai verso la porta e aprì uno spiraglio. “Buongiorno.” gracchiai. “Non me
la sento. Ho troppo mal di testa.”
Lui
era spettacolare. Maglietta seconda-pelle in lycra sopra quei muscoli
d’acciaio, pantaloncini aderenti sui fianchi da corridore e le gambe imponenti
pronte allo scatto. Mi sorrise. “Nessuna scusa, Marguerite. Vai a farti una
doccia. Le aspirine ti aspettano di fianco alla spremuta.”
“Ma…
davvero…”
“O
ci vai da sola o ti ci porto io sotto la doccia.” affermò.
Lo
fissai indecisa ma la risposta era scritta nei suoi occhi: lo avrebbe fatto.
“Ti
aspetto in sala da pranzo. Se entro dieci minuti non scendi, ti vengo a
prendere.” Si girò e si allontanò verso le scale.
Rimasi
qualche secondo ad ammirarlo fino a quando non si voltò di nuovo. “Sotto la
doccia. Vite!” Poi sparì dietro l’angolo.
Richiusi
piano la porta.
Étienne
Dumont sembrava proprio deciso. E le mie possibilità di fuga? Pari a zero. Chi
poteva combattere contro quel forzuto ammasso di muscoli?
Mi
trascinai a passo strascicato verso il bagno.
Dopo
una doccia, il mondo sembrava meno brutto. Mi infilai una maglietta e un paio
di fuseaux, messi in valigia per ogni evenienza, e scesi a far colazione.
Una
seggiola era stata aggiunta alla tavolata dei ragazzi, già tutti seduti.
Regnava un raro silenzio nel gruppo. All’apparenza neanche quei super Duracell
amavano le levatacce.
“Marguerite,
vieni qui.” Étienne indicò il posto. “Una buona colazione e poi a correre.”
Poi
si rivolse alla tavolata. “Aujourd'hui,
Mademoiselle Marguerite s’entrainerait avec nous. Soyez-sage.”
Troppo
stordita per lasciarmi impressionare dai loro sguardi analitici, mi lasciai
cadere sulla sedia.
I
ragazzi risposero con gesti della mano, “Bienvenue” ad alta voce e cenni con la testa.
Due
pastiglie bianche riposavano di fianco a un bicchierone di succo d’arancia.
Sulla tavola, invece di croissant o biscotti al burro, c’erano baguette con la
marmellata, uova e prosciutto e spremute di diversi tipi.
“Niente
caffè?” chiesi lamentosa.
L’allenatore
mi guardò severo. “Solo oggi perché ieri sera hai bevuto trop de vin.”
Un
santo me ne portò una tazza e con quella, le aspirine e un po’ di colazione
nello stomaco, mi sembrò di tornare quasi normale.
“Finite
di prepararvi. Tra dieci minuti fuori dall’albergo.”
Tornai
in camera, mi lavai i denti e mi guardai allo specchio.
Dovevo
ammetterlo: negli ultimi mesi mi ero lasciata un po’ andare. Avevo preso su
qualche chilo di troppo, non mi ero più curata dei miei capelli, adesso
disordinati e senza forma. La palestra era diventata un ricordo, ossessionata
dal pensiero di scrivere l’ultimo capitolo o trovare la verità su Quentin.
Avevo mangiato solo schifezze a tutte le ore, seduta davanti a quell’accidente di
schermo bianco o a piagnucolare sulla perdita di Norman.
Il
bell’allenatore aveva ragione. Ma ne avevo la forza?
Dopo
un’ultima occhiata, uscii dal bagno per
raggiungere il gruppo.
Mi
trovai con gli altri davanti all’albergo. Étienne fece un lungo discorso in
francese, di cui seguii solo il suono armonioso e il tono autoritario, poi si
rivolse a me.
“Prenderemo
il sentiero del bosco, dove ti sei scontrata con Marcel.” Qualcuno ridacchiò e
altri si diedero di gomito per sapere cosa stava dicendo.
Io
arrossii “Non è stata colpa mia.”
Étienne
fece un gesto come per dimenticare la cosa. “I miei ragazzi devono fare cinque
giri. Tu ne potrai fare solo due.”
Annuii
rassegnata.
“Allons,
vite, on y va.” disse rivolto a tutti. Il plotone partì con me al centro.
Cercai di tenere il passo con quelle lunghe gambe poderose ma fu assolutamente
inutile. Però non mi arresi e poco dopo mi ritrovai sul sentiero. A quell’ora
del mattino l’aria era piuttosto frizzante e gli uccellini cantavano a
squarciagola in attesa dell’uscita del sole da dietro le montagne, facendomi
compagnia insieme al profumo intenso della terra, le foglie decomposte, le erbe
pungenti del bosco.
Batticuore
e fiato corto non tardarono molto. Rallentai a metà del primo giro, decisa ad arrendermi.
“Non ti fermare.” Étienne mi doppiò. “Piuttosto continua una camminata veloce,
ma non fermarti.”
Mi
impegnai per rispondere alla sua richiesta/ordine.
Il
fiato si fece ancora più grosso, il cuore sembrò scoppiare ma, solo per
orgoglio, continuai imperterrita ad andare.
Uno
dei ragazzi mi doppiò e mi fece un segno con il pollice alto, un altro mi diede
una pacca sulla schiena.
“Vas-y,
cougar!” Un altro mi fece l’occhiolino. Stupidaggini che mi spronarono a non
mollare.
Riuscii
a prendere il ritmo giusto ma alla fine dei due giri ero pronta per tornare a
letto.
Invece
mi radunai con gli altri, i polmoni ancora in fiamme, e aspettai nuove
istruzioni.
Étienne
mi diede una pacca su una spalla. “Très bien. Bravissima. Adesso andiamo al
campo.”
A
fare cosa? Mi chiesi. Lo imparai anche troppo presto.
Percorremmo
parte del paesino a piedi, scendemmo giù per una stradina laterale e ci
ritrovammo in un’area adibita a giochi sportivi. C’era un grande campo da
calcio circondato da un anello in terra battuta, dove erano sistemati delle
attrezzature: un percorso con gomme da camion, una serie di ostacoli alti forse
una trentina di centimetri, delle barre molto basse, una piramide in legno e
una sbarra.
Étienne
dovette spiegarmi due volte cosa dovevo fare.
Si
doveva partire di corsa e continuare così tra una postazione e l’altra.
Prima
la serie di pneumatici, saltelli con un piede dentro ognuno di loro, poi la fila
di ostacoli e gli addominali, sdraiata a terra con i piedi sotto le barre più
basse. Étienne Dumont, credendo di essere nei Navy SEALs, aveva aggiunto l’arrampicata sulla piramide di legno,
una serie di burpees, un complicato
esercizio di rannicchiamenti, estensioni e flessioni, e una manciata di
sollevamenti con le mani appese alla sbarra. Alla fine si tornava alla partenza
e via, un altro giro di giostra.
“Tu
devi essere completamente matto.” gli dissi a occhi sbarrati, dopo la seconda
spiegazione. “Non ce la farò mai.”
“Vous
dites de bêtises! Farai meno ripetizioni ma puoi farcela.”
Poi
smise di prestarmi attenzione.
Un
lungo fischio. “Marcel, Armand, Benoit, vous serez les prémiers.”
I
ragazzoni si misero in fila e li guardai iniziare il percorso con un senso di
vuoto allo stomaco.
“Alors!
Sto aspettando.” Étienne mi fissava con i pugni sui fianchi, implacabile.
Lo
guardai per qualche secondo prima di decidermi. Avevo scommesso? Avrei provato.
Partii
di corsa e superai le gomme con una certa facilità, poi gli ostacoli e gli
addominali, dove il nono e il decimo mi fecero quasi arrendere. La piramide
aveva qualche appiglio e una rete dall’altro lato per scendere, ma non fu per
niente facile. Ai burpees, che non avevo capito, mi fermai a guardare i ragazzi
e li imitai con molta fatica e, al terzo sollevamento alla sbarra avrei pianto.
“Ancora
due.” sentii urlare da lontano ed ero certa fosse per me.
Dopo
aver ubbidito, rischiando di staccarmi entrambi i polsi, tornai alla partenza.
“Pas
mal.” Il suo aperto sorriso compensò in parte il fiatone e il dolore
generalizzato. “Al secondo giro voglio sette sollevamenti all’asta, quindici
addominali e sette burpees.”
“Tiranno!”
risposi, ma la sua approvazione mi aveva dato nuova energia.
Completai
il percorso con i numeri richiesti, anche se, per i sollevamenti, qualcuno mi
prese per la vita e mi aiutò a fare l’ultimo.
“Encore!”
Il sadico allenatore ordinò e dopo qualche minuto di riposo, ripartii.
Alla
piramide ero prosciugata, non riuscivo neanche a sollevare la gamba per
spingerla sul successivo appiglio. Una benedetta mano sotto il sedere m spinse
verso l’alto.
“Armand.”
Si sentì urlare dal fondo. “Gardes tes mains!”
Lui
mi fece l’occhiolino e si buttò dall’altra parte.
Alla
fine del percorso avevo perso tre chili di sudore, tre mesi di vita, tre pezzi
di unghia e tre lobi polmonari. Mi fermai con le braccia sulle cosce, piegata
in due a tentare di respirare.
“Sei
stata vraiment douée.” mi disse.
Sollevai
la testa di traverso e lo sorpresi a fissare qualcosa dentro la mia scollatura
con un sorriso d’interesse. Piantai una mano sulla maglia per nascondere la vista.
“Riposo
adesso.” Non sembrò preoccupato di essere stato colto in flagrante. “Doccia e
poi quello che vuoi. Dopo pranzo andremo a fare un'altra corsetta e nuoto in
piscina.”
“Sei
un despota.” gli dissi.
“Se
vuoi essere il migliore, non puoi essere pigro.”
Quando
il respiro tornò a un ritmo normale, m’incamminai verso l’albergo.
Ero
a pezzi ma, mi resi conto, anche contenta, leggera, come se tutto il sudore
avesse portato via anche un po’ delle “schifezze” che m’inquinavano il
cervello.
Arrivata
all’hotel, mi sedetti su uno sdraio nella veranda esterna a godermi l’aria
ancora fresca. Osservai un uccellino posarsi su un ramo e svolazzare di qua e
di là per catturare mosche da portare al nido, odorai il profumo delle rose
arrampicate su per un arco di ferro all’ingresso.
Quentin
era lì in mezzo, la sua stazza da ex marine stagliata contro il paesaggio, la
spazzola di capelli corti, il naso rotto, il mento squadrato con
quell’intrigante fossetta, spruzzato di barba non fatta. Mi fissò severo per
qualche secondo, poi sorrise e mi fece l’occhiolino.
Mi
tirai su di scatto dalla sedia e la visione svanì.
Accidenti!
Era lui. Voleva dirmi qualcosa? Ero sulla strada giusta?
Dopo
altri due giri di bosco e cinquecento metri in piscina, a cena ero uno zombie.
Mi faceva male tutto, persino i muscoli dei mignoli. Sollevare il cucchiaio
della zuppa di verdure fu un’impresa, ma mai quanto usare il coltello per
tagliare il pollo arrosto. Arrivai comunque in fondo al pasto, anche se mi fu
negato persino un bicchiere di vino.
“Pas
d’alcool.” decretò.
Non
mi sarei sottoposta al training di quella giornata neanche se me lo avesse
prescritto il dottore ma quando Étienne sorrideva, mi si riempiva qualcosa
sotto lo sterno e faceva le fusa contento. Mi avrebbe convinta a salire a
saltelli su per i picchi frastagliati alle spalle dell’albergo.
Strisciai
la sedia indietro e mi alzai con un lamento. “Vado a letto.” dissi quando la
cameriera mi tolse il piatto vuoto.
“Es
tu fatiguée?”
Lo
guardai interrogativo.
“Sei
stanca?” ripeté nella mia lingua.
“Sono
uno straccio usato e strizzato.” risposi.
“Stasera
dormi.” Mi fece l’occhiolino.
Accennai
a fargli una linguaccia ma uscì più come una smorfia di dolore.
Salire
le scale fu praticamente la tredicesima fatica di Ercole. Mi trascinai oltre la
porta della mia camera e mi diressi verso il bagno. Chi lo aveva spostato così
lontano?
Pulizia
del viso, abluzioni varie e cambio con la camicia da notte, accompagnato da
piagnucolio per il movimento delle braccia.
Alla
fine, barcollai verso il letto.
Ero
sul punto di lasciarmi crollare sopra la coperta a piccoli fiori celesti,
quando sentii bussare.
“Tu-es là Marguerite ?”
Era
il mio dispotico, intransigente, incontentabile, fighissimo allenatore. Chissà
se dovevo dirgli di chiamarmi Margaret?
Tornai
ad alzarmi in piedi e strisciai le ciabatte fino alla porta.
Lui
era bello come il sole, riposato come una rosa, un asciugamano su una spalla e
una boccetta tra le mani. Mi sorrise e fece un passo avanti. “Come va?” chiese.
“Come
prima. Mi fa male anche parlare.” Le parole stentarono a uscire.
Lui
mi mostrò il flacone. “Questo lo preparo io: olio con essenze aromatiche per i
dolori muscolari.”
Guardai
prima la boccetta marrone scuro, poi lui. “Cosa ci devo fare? Non ho la forza
di spalmarmelo.”
Lui
rise. “Ti faccio un massaggio.”
Mi
ci volle qualche secondo per realizzare. Io, lui, le sue mani su di me e tanto
olio sulla pelle.
Il
brivido fu inevitabile.
Non
potevo sopravvivere.
Rimasi
impalata a guardare prima lui, poi l’olio in una sorta di “non ci credo” e “sto
sognando”.
“Alors.”
disse impaziente, prendendo l’asciugamano con due dita. “Mi fai entrare?”
Mi
scostai in fretta, sentendo chiaramente quanti muscoli erano necessari per quel
semplice movimento. “Vieni.” Sì, decisi, potevo sopravvivere.
Étienne
mi allungò il telo. “Stendilo sul letto. Vado a lavarmi le mani.”
Non
me lo lasciai ripetere due volte.
Mi
ci vollero cinque minuti per metterlo in posizione con piccoli movimenti, ma
alla fine mi sedetti soddisfatta ad aspettare.
Lui
rientrò e mi guardò impaziente. “Stesa! Pancia sotto.”
Feci
l’atto di sdraiarmi.
“La
camicia da notte.” mi sgridò.
“Cosa?”
Lui
fece il gesto come per togliersela ed io realizzai il mio problema. Dovevo restare
in biancheria intima. Solo il pensiero mi spedii sull’orlo di un mini orgasmo.
Ovvio,
potevo fare un massaggio sulla stoffa?
Obbedii
a fatica e mi stesi sul letto. Per fortuna avevo indossato un coordinato quel
giorno.
Lui
si sedette di fianco, sentii il “plop” del sughero della bottiglietta e un
lieve profumo di rosmarino e limone si sparse nell’aria. “E’ un olio apposta
per i muscoli, la circolazione e le drainage
lymphatique.” Capii il senso solo perché era simile all’inglese.
Gli
sentii sfregarsi le mani fra loro, poi le appoggiò sui miei polpacci.
I
primi movimenti mi fecero mugolare, prima di riuscire a contenermi. Non volevo
sembrare una gatta in calore.
Iniziò
con un movimento d’impasto e di spremitura verso l’alto, poi passò alle cosce
dove si fermò a lungo nei punti dove mi strappava più lamenti.
Sulla
parte lombare lavorò a piene mani e poi con le dita, premendo e spingendo per
snodare i muscoli uno a uno. Risalì lungo la schiena sfregando sui muscoli
dorsali irrigiditi, i pollici pressati lungo la colonna vertebrale.
“Vraiment charmant.” sussurrò mentre
insisteva sui muscoli intercostali.
Mi
piacque il suono di quelle parole ma non avevo la forza di chiedergli la
traduzione.
A
un certo punto, fra la zona dorsale e le spalle, mi appisolai. Quando mi
risvegliai, ero da sola, coperta da un panno e c’era un biglietto sul cuscino
di fianco.
“Domani
gita ad Annecy. Pronta per le sei. Étienne.”
Sospirai
di sollievo. Niente massacro.
Poi
ci ripensai, quel diavolo avrebbe trovato il modo di farci allenare lo stesso.
Mi
rinfilai la camicia da notte, sentendo già i benefici del massaggio, e
sprofondai di nuovo nel sonno.
Sognai
Quentin. C’era una rossa davanti a lui, lo indicava con un dito e urlava. Il
mio ex marine, invece, rideva a gola aperta, la testa buttata indietro, sexy
come non mai.
Non
so perché ma pensai che ridesse per me… O di me.
Come
posto da vedere in Francia nella mia prima visita, e forse ultima, Annecy era
davvero perfetta.
Situata
sulla punta meridionale dell’omonimo lago, la cittadina era incantevole. Le
sorprendenti acque turchesi del lago, il paesaggio alpino circostante con le
sue foreste ancora selvagge, la città vecchia di origini medievali, formata da
un dedalo di viuzze, casette variopinte e negozietti d’artigianato. La parte
più suggestiva era però il fiume che si diramava nella città con numerosi
canali, attraversati da bellissimi ponti in pietra adornati di vasi di fiori e
solcati dalla grazia regale di una colonia di cigni.
Lasciato
il pullman in un parcheggio non molto distante dal lago, il nostro allenatore,
ormai lo consideravo anche mio, ci dispose in cerchio.
Incominciò
a spiegare qualcosa in francese, a cui seguirono diverse voci di protesta.
Diedi
una gomitata a Benoit, eletto mio traduttore ufficiale. “Cosa ha detto?”
“La
passeggiata intorno al lago è lunga quarantatre chilometri.”
“Non
la vorrà fare tutta!” esclamai inorridita.
“Zut!”
La voce forte di Étienne fece zittire tutti.
Io
avevo cominciato a sudare freddo.
Altra
spiegazione in francese, altra gomitata a Benoit. “Ne faremo solo un piccolo tratto di
corsa, circa dieci chilometri. Per chi ce la fa.” Mi guardò eloquente.
Io
no di certo.
Ancora
tante parole in francese.
“Dopo
visiteremo il castello che sovrasta la città, una cattedrale e poi saremo liberi
fino alle diciassette.” continuò a bisbigliare Benoit.
“Almeno
ha capito anche mademoiselle?” disse Étienne, la bocca stretta in una linea di
rimprovero.
“Tratto
di corsa intorno al lago. Io mi fermo da qualche parte mentre voi andate.
Visita al castello e cattedrale, poi gioco libero.”
L’allenatore
si mise a ridere. “Ottimo riassunto, a parte il fermarsi.” disse. “Voglio che
fai almeno il primo pezzo: tre chilometri.”
Mi
ero svegliata stranamente riposata. Il massaggio mi aveva fatto un sacco di
bene ma tre chilometri di corsa erano fuori discussione.
“In
nessun modo.” Scossi la testa.
Lui
strinse gli occhi. “Lâche!”
“Che
ha detto?” sussurrai a Benoit con la bocca storta.
“Ehm…”
esitò un attimo. “Ha detto: vigliacca.”
Drizzai
la schiena come una sbarra d’acciaio. “Non sono una vigliacca.” gli risposi a
voce alta.
“Provalo.”
Il sorrisetto di sufficienza mi fece venire voglia di schiaffeggiarlo.
“Va
bene.” dissi ancora più forte.
Capii
che si stava appena trattenendo dal ridere.
Che
scema: amo gettato, pesce abboccato.
Ormai
avevo deciso, ero determinata. Gli avrei provato… non so cosa ma qualcosa gli
avrei provato.
“Allez-y!”
ordinò.
Così,
tutti intruppati ci dirigemmo verso la promenade.
Era
il luogo ideale dove fare una corsa. La strada pedonale si stendeva lungo le
rive del lago, costeggiando capanni, bar, piccoli approdi e spiaggette. Sul
lato destro circolavano le biciclette e ancora più in là c’era la strada. Étienne
si affiancò a me, accordando la sua velocità alla mia, lasciando i ragazzi
andare al loro passo.
“E’
una cittadina bellissima.” mi disse. “Dopo andiamo nella parte vecchia.”
Io
ero troppo impegnata a respirare e gli risposi con un cenno affermativo della
testa e un rantolo. Costeggiamo il casinò Imperial e tutta la spiaggia
antistante e proseguimmo. Le gambe sembravano andare meglio ma dopo poco avevo
già voglia di buttarmi su uno di quei prati che ci scorrevano accanto.
Un’occhiata al profilo sereno di Étienne, neanche il respiro un po’ accelerato,
e la mia testardaggine mi diede uno scappellotto.
Dopo
circa quindici, infiniti minuti, raggiungemmo un punto, dove delle penisole si
allungavano sul lago. “Questo è il Pont des Amours” Étienne mi indicò un ponte,
sopra un canale, che collegava la promenade con una di queste. “Quelli dopo sono
Les Jardins d’Europe.”
Un
vero e proprio parco con alberi, panchine e chioschetti. Un’oasi.
Io
ero allo stremo, avevo consumato anche l’ostinazione. “Mi… fermo… qui.”
Lui
rimase a saltellare sul posto. “Tutto bene?”
Annuii,
troppa fatica parlare.
“Ok.
Io raggiungo i ragazzi. Aspettaci qui.”
Alzai
il pollice in risposta.
Lui
ripartì con la sua splendida falcata.
Nonostante
l’affanno e il cuore intento a scappare dalla sua gabbia, non mi persi la
visione e continuai a guardare il didietro marmoreo e le gambe nerborute
mangiarsi l’asfalto. Notai anche diverse donne girate ad ammirarne il
passaggio.
Diavolo!
Era
inutile facessi gli occhi languidi dietro a Étienne. Quando mai un uomo del
genere poteva interessarsi a me?
Un
altro gruppetto di persone arrivò e mi schivò di lato. Forse era il caso di
togliersi dal mezzo della passeggiata.
Cercai
una panchina e andai a buttarmici sopra.
L’atmosfera
estiva del lago era davvero bella, il “clic, cloc” delle ciabatte sul cemento,
la musica allegra della baracchina accanto, l’odore di cibo fritto. C’era
persino gente in costume stesa al sole.
Quentin
poteva averla incontrata in un posto così la sua rossa, un posto dove lui non
era nessuno e lei neanche.
Chissà.
Forse
era il principio di un grande amore o di una tremenda ossessione.
Quando
tornai a respirare normale, andai in cerca di qualche bottiglia d’acqua,
pagandola carissima, come sempre. I ragazzi avrebbero avuto sete. Mi sembrava
il minimo, visto che mi dovevano sopportare.
Dopo
un’ora di quiete, lo scompiglio mi avvertii del ritorno dei rugbisti.
E
come dargli torto?
Tutti
accaldati e sudati, le magliette appiccicate addosso su tutto quel po po’ di
muscoli che Étienne allenava con gran cura, i corpi poderosi, la bellezza della
gioventù. Più di una donna rimase a seguirli con occhi sognanti.
Benoit
fu il primo a vedermi e fece cenno con la mano nella mia direzione. Tutti e
ventuno deviarono e si buttarono sul prato intorno a me.
“C’è
dell’acqua qui.” Allungai loro le bottiglie. Qualcuno mi mandò un bacio con le
mani, qualcun altro esultò: “Vive l’Angleterre.”
L’ultimo
ad arrivare fu Étienne, con il suo passo regolare, come reduce da una piccola
passeggiata. Si sedette al mio fianco e gli porsi la mia bottiglietta.
“Merci,
ma chère.” E bevve una lunga sorsata.
Guardai
rapita quel pomo d’Adamo muoversi con la stessa grazia del resto del suo corpo
e decisi che la bottiglia sarebbe finita dentro una teca.
I
ragazzi stravaccati sull’erba erano un gran bello spettacolo e per un po’
furono la principale attrazione del luogo.
Poi,
il tiranno si alzò. “Allez-y! Al castello.”
Alla
fine della visita, tutti liberi.
I
ragazzi si addentrarono nelle viuzze e i ponti della città vecchia in cerca di
un panino e qualche regalino per le famiglie.
Mi
aspettavo di essere lasciata sola e invece Étienne aveva altre idee. “Dove vuoi
andare?”
Non
me lo feci ripetere due volte. “Mi piacerebbe vedere un po’ la città.” risposi
cercando di non mostrare la mia euforia. “E mangiare sull’acqua.”
Dopo
aver gironzolato per le stradine e i canali, fra negozi di specialità locali,
souvenir e anche maschere di carnevale, ci fermammo in un ristorante tipico, La
Bastille, con i tavoli sul lungo canale.
“Questa
città è davvero bellissima.” dissi mentre intingevo i miei pezzetti di baguette
dentro una deliziosa fonduta.
Étienne
sorrise. “Sono d’accordo. Perfetta per una vacanza romantica.”
“Già.”
risposi di malumore all’improvviso. Non ero certo lì per quello, avrei voluto
aggiungere.
Esclamazioni
di meraviglia e gente che si sporgeva dalla balaustra ci fecero girare verso
l’acqua. Un bellissimo cigno, con il collo teso e le ali ben chiuse, scivolava
sul canale, seguito da quattro piccoli batuffoli grigi.
“Che
animale stupendo.” commentai.
“Mi
ricorda te.” Se ne uscì Étienne. “Elegante, sinuoso, regale.”
“Que-dites vous?” Si girò di scatto,
serio.
Scossi
la testa.
“Cosa
hai detto?” ripeté.
“Che
sembro il brutto anatroccolo.” risposi. Era diventato sordo?
“Cosa
te lo fa pensare?” L’espressione di Étienne era stranamente minacciosa.
“Lo
specchio, me lo fa pensare.”
“Vous dites de bêtises! Hai
un problema di vista.”
“Non
è vero. Guardami.” Percorsi con una mano il mio corpo.” Non sono riuscita a
tenermi uno scrittore intellettuale con gli occhiali spessi e qualche problema
con il sapone.” Non riuscii a trattenermi. “Figurati un tipo come te.”
“Cosa
ne sai?”
“Abbastanza.
Di certo non mi chiederesti mai un appuntamento.”
“Vuoi
sapere la verità, mademoiselle je-sais-tout?” Étienne avvicinò il viso. “Ti
porterei fuori molto volentieri e con me, almeno tre quarti dei miei ragazzi.”
“Non
dire cavolate.”
“Quando
ti ho vista alla reception, ho pensato: finalmente qualcosa di interessante.
Poi avevi quella faccia…” Fece una pessima imitazione con gli occhi sbarrati e
la bocca aperta. “Ho pensato fosse per i ragazzi. Mi ha dato fastidio.” Mi
informò. “E ne vuoi sapere un’altra?
Dopo la tua sortita con quella camicina da notte trasparente, i miei giocatori
hanno continuato a parlare e fantasticare su di te. Ti chiamano ‘la belle
cougar’. E sono sempre dietro a osservarti quando corri o quando fai gli
esercizi.”
Lo
ascoltavo ma scuotevo la testa. “Non parli sul serio.”
“Assolutamente.
Quando diventano volgari, intervengo.”
“Piantala.”
Étienne
ignorò il mio commento. “Sarei più che felice di chiederti un appuntamento.
Anche adesso.”
“Certo.
Un uomo come te, uno che schiocca le dita e le donne corrono, usciresti proprio
con una come me. L’hai detto tu che mi sono lasciata andare.”
“Ricordo
di aver detto anche, una bella donna. O sbaglio?”
Era
vero ma io, nella mia visione distorta, lo avevo rimosso.
“Va
bene, lo hai detto. Ma non vuole dire niente.” risposi testarda, impaurita di
lasciare la melma in cui mi ero ficcata.
“Va
bene.” Si allungò a prendermi una mano. “Vuoi uscire con me giovedì sera?”
“Smettila
di prendermi in giro.” Cercai di ritrarre la mano ma lui strinse di più.
“Connard.”
borbottò tra i denti. Poi continuò nei suoi vaneggiamenti. “Veniamo ad Annecy o
dove diavolo vuoi andare. Ceniamo, balliamo, quello che fanno le persone a un
appuntamento.”
Era
così serio. “Lo vuoi davvero?” dissi tra lo speranzoso e il disperato. “Non lo
fai per pietà?”
“Pietà
di chi? Tua? Ti sembro il tipo compassionevole?”
In
effetti…
Étienne
continuava a fissarmi e quei due laser azzurri stavano sciogliendo il cemento
sotto i miei piedi. “La tua risposta?” mi spronò.
“D’accordo.”
buttai fuori.
Mi
sarei fatta del male, lo sapevo. Più passavo il tempo con lui e più mi piaceva.
Rischiavo di rientrare a Londra con una tartare
al posto del cuore.
Alla
fine, il molto atteso e altrettanto temuto giovedì, era arrivato,.
Avevo
cercato di non pensarci, né il giorno prima, quando Étienne con gusto sadico,
mi aveva forzata a superare i miei limiti fisici e di sopportazione, né quello
dove avevo faticato come un mulo su per un sentiero alpino, regalino
pre-appuntamento.
Ma
dopo la doccia calda e un giro di crema per il corpo, ero così eccitata,
agitata, impaurita per la serata da non sentire più la stanchezza.
Avevo
sognato di nuovo Quentin la notte prima. Era con la sua rossa in cima a una
collina, la macchina sportiva aperta, la radio accesa. Ballavano un lento,
abbracciati sullo sfondo delle luci della città sottostante.
Era
stato come ritrovare un amico perduto.
Forse
era merito di Étienne o forse sarebbe dovuto tornare lo stesso. Fatto sta che
ero al settimo cielo.
Decidere
cosa mettermi era stato durissimo.
Mi
ero portata qualche abitino carino, meglio essere preparata a tutto, così avevo
tre possibilità: un tubino nero, fascia di pizzo sullo scollo e l’orlo
sollevato da una ripresa in vita con un’increspatura a cascata; un abito grigio
perla, gonna a campana, due strisce lunghe fino in vita, allacciate dietro e
tenute insieme davanti da un nastro intrecciato; un altro vestito bluette,
parte superiore lunga fino ai seni in tulle e paillette, stesso motivo in
diagonale sulla gonna a corolla con alcune riprese in vita.
Me
li ero messi e tolti una decina di volte ciascuno.
Alla
fine aveva vinto quello bluette, soprattutto per come si adattava alla mia vita
stretta e fianchi generosi.
Sandali
dorati, tacco dieci, tre strisce da entrambi i lati che confluivano sul collo
del piede e una che si chiudeva sulla caviglia. I capelli li avevo lasciati
sciolti, le ciocche anteriori raccolte dietro in un piccolo concio, raccolto in
una retina dorata, e mi ero truccata con moderazione.
Ero
perfetta, mi dissi, anche se la sensazione nel mio stomaco diceva il contrario.
Non ero stata così agitata neanche il giorno della mia laurea o quello del
ballo con il mio primo ragazzo.
Étienne
era un sogno. Era così che dovevo vivere quella serata. Nulla più. Un bel
cavolo di fantastico sogno.
Uscii
dalla camera e m’incamminai per le scale
Mi
stavo guardando i piedi per non arrivare nella hall a mo’ di pelle d’orso,
quando una serie di fischi, urla e battimani mi fecero alzare la testa di
colpo.
Un
nutrito drappello di ragazzi era svaccato sui divani in attesa servissero la
cena. Erano tutti girati a guardarmi.
“Vive,
Marguerite!” urlò qualcuno.
“Marguerite, tu es un canon!” rispose un
altro.
“Je t’aime, Marguerite. Sors avec moi ce soir!”
Rimasi
pietrificata sulle scale mentre altri ragazzi si univano all’allegra compagnia
e, in qualche secondo, tutta la squadra era radunata ad acclamarmi come una
diva.
Ero
indecisa se proseguire sul successivo gradino oppure girarmi, correre nella mia
stanza e nascondermi sotto il letto. Ma ci pensai un secondo di troppo.
“Ce quoi cet bruit?” Una voce forte,
maschile, inconfondibile perché la sentivamo urlarci contro tutto il giorno, si
sollevò sul baccano.
Il
branco di ragazzi si aprì.
Étienne comparve in tutta la sua gloria:
pantaloni color ruggine, camicia blu notte con due bottoni aperti e giacca blue
navy più chiara.
Uno
spettacolo.
Si
era tirato indietro i capelli con il gel e scoperto i lineamenti decisi e quei
due fanali blu, ombreggiati dalle folte sopracciglia. Li fissò su di me e un
attimo dopo, saltarono fuori come palline da ping pong.
Agitai
le dita in un imbarazzato saluto mentre arrivavano altri clienti attirati dalla
confusione.
Étienne
avanzò nell’ala di ragazzi, gli occhi incollati su di me, l’ombra di un sorriso
compiaciuto sulla bocca. Si fermò in fondo alle scale, allungò la mano.
“Madmoiselle Bùrton, permettez-moi?”
Il
tremito nelle gambe e il tacco dieci mi frenarono da tentare una discesa da
star. Così feci gli ultimi gradini con cautela e gli diedi la mia.
Lui
se la portò alle labbra e la baciò. “Vous êtes ravissante.” Dal
tono immaginai fosse un complimento e lo sguardo sotto le sopracciglia
prometteva una serata da non dimenticare.
Si
mise la mia mano sotto il braccio e si voltò verso il pubblico. Parlò ai suoi
ragazzi fermi ai lati della passatoia verso l’uscita.
Tutto
ciò che capii fu il mio nome, ristorante e il nome di Armand.
Passammo
tra i battimani di tutti, io probabilmente più rossa di un double-decker
londinese, e uscimmo all’aperto.
“Cosa
hai detto?” chiesi.
“Che
stasera ti portavo al ristorante e dovevano comportarsi bene. Armand è il più
anziano ed è responsabile.”
“Per
questo oggi li hai allenati fino allo sfinimento.” Aveva avuto pietà solo di me
ed ero stata congedata prima.
O
forse aveva avuto pietà di sé. Non sarei stata di buona compagnia a cena: occhi
chiusi, guancia nel piatto e un lieve ronfare all’arrivo del secondo.
“Buon
metodo per farli andare a dormire.” rispose.
Una
Citroen C4 a noleggio color melanzana ci aspettava nel parcheggio dell’albergo.
Étienne mi accompagnò sino al mio lato, aprì lo sportello e con un inchino mi
aiutò a salire.
“Monsieur
Dumont, lei è un perfetto gentiluomo.” Lo presi in giro.
“Mademoiselle
Bùrton, voi siete très charmante.”
“Usi
il francese per non farmi capire cosa dici?”
“Il
cuore parla una sola lingua. In inglese non sarebbe la stessa cosa.”
Adesso
ero ancora più curiosa. “Quindi?”
“Ho
detto che sei molto bella. Stasera dovrò combattere contro una folla di
rivali.”
“Non
dire scemenze.”
“Solo
la verità, nient’altro che la verità.” Si fece una croce sul cuore. “Lo giuro.”
Scossi
la testa mentre mi sedevo ed Étienne chiudeva lo sportello.
Dopo
aver fatto il giro ed essersi seduto a sua volta, si girò verso di me.
“Pronta?”
“Pronta.”
Accese
il motore, ingranò la marcia e uscì dal parcheggio, destinazione ignota.
“Una
sorpresa.” aveva detto, giusto per farmi soffrire un altro po’.
“Sei
sicuro fosse tonno quella cosa deliziosa?” chiesi, faticando sul tappeto
d’ingresso dell’albergo.
Non
ero ubriaca, proprio per niente. Diciamo che mi sentivo leggera e felice e il
tacco dieci non aiutava con tutto quel panno.
La
serata era stata una favola, proprio come me la aspettavo.
Scelta
del locale, perfetta.
“Lo
so che sembra straniero.” mi aveva detto davanti all’insegna. In effetti il
nome, Au Chardon d’Ecosse, significava il cardo di Scozia. “Ma in
realtà fanno cucina francese e hanno sempre musica dal vivo.” aveva aggiunto.
L’impatto
era stato magnifico. Le pareti rivestite di pannelli di legno scuro, ognuno
decorato con un ritratto o il dipinto di un luogo famoso in Scozia e i faretti,
posti sopra le opere e incastonati nel grande specchio sul soffitto, che
creavano un’atmosfera calda e intima.
Il
bancone del bar era al centro, con delle isole poco distanti, corredate di
sgabelli alti. Diversi tavoli erano sparsi per la grande sala, alcuni con sedie
di legno, altri con divanetti in stile Chesterfield.
Su
un lato c’era il palco e quella sera si sarebbero esibiti un musicista e una
cantante.
Il
nostro tavolo era in un angolo, sotto le immagini di un castello mezzo
diroccato e un suonatore di cornamusa. Una grossa candela dentro una coppa di
vetro e due calici dallo stelo sottile avevano conferito un’ulteriore nota
romantica.
Anche
il cibo era stato delizioso, sebbene, in quanto inglese, non potevo essere
considerata il giudice migliore per la buona cucina. Antipasto a base di
formaggi, tonno in crosta di sesamo con verdure miste, cotte e crude, e
spaghetti saltati con cipolla. Infine, proprio la ciliegina sulla torta, un Parfait
au chocolat con croccante alle mandorle sbriciolato
sopra. Il tutto accompagnato da un Roussette della zona.
Davanti
al dolce ormai ridevo di qualsiasi cosa raccontasse Étienne.
Aveva
trentacinque anni, non era sposato, né fidanzato, ringraziando Dio. La sua
storia più lunga era finita circa un anno prima. Era stato messo davanti a un
ultimatum, o mollava il rugby e s’impegnava di più nella sua carriera in banca
o lei se ne sarebbe andata.
Ovviamente
si erano lasciati ma non perché lui amasse di più lo sport. “Non aveva capito
niente di me, né di come sono fatto, dopo cinque anni di fidanzamento.” mi
aveva detto con una punta di tristezza. “Se Dio vuole è finita prima che fosse
troppo tardi.”
Da
allora, basta relazioni a lungo termine, anche se non si era certo convertito
al monachesimo.
Io
gli avevo raccontato del mio sogno di diventare una scrittrice, di come alla
fine c’ero riuscita e delle mie ansie di non essere più in grado di farlo; del
mio rapporto con Norman; dei miei genitori molto esigenti e sempre pronti a
ficcare il naso nei miei affari e di Lancelot, il mio gatto nero, scomparso
poco dopo l’uscita di Norman dalla mia vita.
Dopo
un ultimo bicchiere di whiskey torbato, di cui avevano una vasta scelta in
onore al loro nome, era iniziata la musica.
Tastierista
e cantante avevano suonato un po’ di tutto, dalla disco anni ottanta a pezzi
moderni, da ballate di gruppi rock famosi a canzoni francesi a me sconosciute.
Avevamo
scoperto, così, di avere diversi gusti musicali in comune. Il rock era la prima
scelta, ma ascoltavamo volentieri anche la disco e il pop inglese. Non
condividevo la sua passione per il jazz come lui non capiva un’acca di musica
classica, che io amavo molto.
Nessuno
dei due aveva avuto una gran voglia di scatenarsi in pista ma quando le note di
una famosissima ballata degli Aerosmith si erano diffuse nell’aria, avevo
sussultato. Era uno dei miei pezzi preferiti, così romantico da farmi frullare
lo stomaco ogni volta che lo sentivo.
Étienne
si era alzato in piedi e mi aveva invitata. Un altro sogno realizzato: ballare
abbracciata a un uomo super affascinante, sulle note di “I don’t want to miss a
thing.”
Non
avevo potuto evitare di canticchiarla e mentre le parole mi scivolavano dalla
bocca, mi ero resa conto di quanto fossero adatte a quel momento.
“I don't wanna miss one smile,
I don't wanna miss one kiss. I just wanna be with you, Right here with you just
like this”
Diane
Warren doveva aver pensato a me quando l’aveva scritta.
Mi
ero stretta al corpo di Étienne e per quei meravigliosi, brevissimi quattro
minuti, avevo fatto finta fosse mio.
La
canzone era finita troppo presto, ma la sensazione d’intimità era rimasta
avvolta attorno a noi.
“Andiamo.”
Aveva detto Étienne e io avevo annuito. Si era creata una magia tra noi e io
avrei voluto rimanervi aggrappata con tutto quello che avevo. Ma dubitavo fosse
possibile.
Ed
eravamo arrivati a ora.
Blateravo
da un po’, dicendo cose senza senso per superare l’agitazione che mi si era
stretta allo stomaco come un cilicio di ferro.
Stavo
per perdere la testa. Dovevo arrivare in camera, subito, dove avrei potuto
lasciarmi andare, rifornimento del frigo bar permettendo.
Dopo
una serata così, un'unica serata irripetibile, ci voleva un bel super alcolico
per affogare la tristezza. Forse Quentin sarebbe venuto a farmi compagnia.
“Ti
assicuro che era tonno.” rispose Étienne con il sorriso nella voce. Era davvero
un fuoriclasse, non era ancora stufo delle mie stupidaggini.
Nel
salire le scale sbattei il piede contro uno dei fermi metallici della
passatoia. “Shh.” Feci con l’indice sul naso. “I ragazzi dormono.”
“Non
ti preoccupare.” Étienne mise la mano sotto a un mio gomito. “Neanche la
fanfara degli Emerson, Lake and Palmer li potrebbe svegliare.”
Davanti
alla mia porta cercai di infilare la chiave nella serratura. “Perché non sta
ferma?” brontolai.
Étienne
me la prese dalle mani e aprì.
“Allora…
Buonanotte…” Il sospiro rischiò di farmi saltare qualche cucitura nel vestito.
Étienne
mi guardò, un mezzo sorriso sulle labbra, e mi prese il mento con due dita.
Il
cuore sobbalzò così forte da far rumore contro la cassa toracica.
Avvicinò
il viso ed io, nel delirio euforico, strinsi gli occhi e sporsi le labbra in
attesa.
Lo
sentii ridacchiare prima che la sua bocca sfiorasse la mia.
Cos’era
quello? Un bacio? Se pensava di cavarsela così…
Quando
si allontanò, lo seguii.
Étienne
mi baciò con più decisione, le mani strette questa volta sulle braccia per
avvicinarmi. Io socchiusi le labbra e lui accettò l’invito. Il bacio divenne
più profondo e intenso, cosa che i francesi, scoprì, sapevano fare molto bene.
Dio,
quella bocca. Ancora un lieve sentore torbato e un calore da fondere il
metallo. O le ossa, visto che le gambe mi cedettero e dovetti aggrapparmi al
suo collo.
Il
bacio divenne focoso, così rovente da far scattare l’allarme antincendio
dell’albergo.
Quando
ci staccammo, nessuno dei due riusciva a respirare.
“Vous êtes
magnifique, Marguerite.” sussurrò. “Non voglio
approfittare…”
“Approfittare?”
Lo tirai per il bavero della giacca e lo baciai quasi con violenza. “Sono
brilla ma, fidati, non sarò pentita domani mattina.” gli sussurrai.
L’ex
campione di rugby non se lo fece ripetere due volte. Mi afferrò per la vita e
mi sollevò. L’abito era abbastanza largo e io allacciai le gambe ai suoi
fianchi. Étienne incollò di nuovo le labbra sulle mie e mi trasportò nella
stanza. La porta si chiuse con un sonoro “tud” e continuammo ad avanzare fino
in prossimità del letto. Qui si fermò, sganciò le mani da sotto il mio sedere e
mi lasciò scivolare lungo il suo corpo potente e duro dove serviva.
Non
fui la sola a mugolare estasiata al contatto.
Mi
prese il viso fra le mani. “Sei sicura?” chiese dopo avermi fissato con gli occhi
diventati blu cobalto.
“Puoi
giurarci, mio caro.”
Un
secondo dopo il vestito era ai miei piedi.
Il
mio allenatore si allontanò un momento per fissare con sguardo infuocato il mio
completino nero e i sandali dorati. “Sei la cosa più bella che mi sia capitata
da anni.” La voce ridotta a un roco, sensuale sussurro che colpì dritto,
preciso al centro del mio corpo.
E
dopo fu il suo corpo a parlare, le sue mani, le sue labbra, le sue carezze, i
suoi baci. E io lo seguii senza esitare. Volevo memorizzare ogni centimetro,
ogni grammo di lui, al tatto, alla vista, al gusto, all’olfatto. Volevo
fissarlo, inciderlo nel mio cervello, marchiarlo a fuoco sul mio corpo per
ritrovarlo ogni volta avessi avuto bisogno.
“Don’t want to close my eyes,
I don’t want to fall asleep, ‘Cause I miss you baby and I don’t want to miss a
thing”.
Domenica
mattina, ultimo giorno insieme, le parole degli Aerosmith nella mia testa.
Già
sentivo la sua mancanza.
La
vacanza era finita, stasera il mio volo partiva per Londra e la squadra under
21 del Faucigny Mont Blanc di Cluses
sarebbe
tornata a casa, insieme al suo meraviglioso allenatore.
Erano
stati i giorni più belli di cui avevo ricordo.
Fiero,
intransigente allenatore di giorno; passionale e fantasioso amante di notte. Il
connubio perfetto per la mia vacanza terapeutica.
Adesso
Quentin lo vedevo dappertutto e la sua storia con la rossa che ballava il
tango, incominciava a svilupparsi.
La
sua cura era stata la più efficace. Aveva avuto ragione su tutto e il diventare
amanti aveva solo reso la guarigione più completa.
Non
avrei più smesso di volermi bene, non avrei più pensato di non valere nulla.
Sapevo di aver la forza di rialzarmi a ogni caduta e andare avanti. Mi sarebbe
bastato pensare al mio trainer e avrei trovato la via.
E
il mio cuore? Forse si sarebbe spezzato, ma sarebbe guarito anche lui.
La
mano di Étienne si alzò per accarezzarmi il viso. “Già sveglia?”
Io
sorrisi e girai la faccia per baciargli il palmo. “Non ho dormito molto
stanotte.”
Lui
abbozzò un movimento con le labbra, forse con la stessa malinconia. “È stato
magnifico. “ mi sussurrò. “Oltre ogni mia aspettativa.”
“Anche
per me.”
“E
Quentìn?”
“Presente
e loquace.” Si era ricordato anche di lui.
“E
Marguerite?”
“Margaret.”
Era diventato un gioco tra noi. Quel nome sarebbe rimasto nel mio cuore per
sempre, come tutto ciò che riguardava quella vacanza. “Sta bene. Grazie a un
dispotico e testardo allenatore che l’ha spinta fuori dalla melma.”
“Non
smetterai mai più di volerti bene?” mi chiese.
“Mai
più.” mormorai.
Mi
attirò a sé con una mano sulla nuca per un lungo, malinconico bacio. L’ultimo.
Poi
la mattina prese a correre.
I
ragazzi dovevano partire alle otto ed Étienne doveva essere certo fosse tutto
pronto.
Quando
furono tutti sul pullman, ebbi salutato i giocatori uno a uno, Étienne si fermò
sulla scaletta.
“Allora
addio, mia Marguerite.”
“Addio
coach Étienne.” Dio mio! Avrei resistito a non piangere?
“Voglio
che ti ricordi una cosa. Puoi fare tutto quello che vuoi. Sei in gradi di
farlo.” Mi sfiorò la guancia con una carezza. “Non dimenticarlo mai.”
“Non
lo dimenticherò, Monsieur Dumont.”
Étienne
fermò la mano sul mio viso, fissandomi come se volesse imprimermi nella
memoria. Poi si girò e salì sul pullman.
La
porta si chiuse con un sospiro d’addio.
Io
rimasi impalata a guardarlo allontanarsi e allontanarsi, fino a quando non
sparì. E anche di più.
Il
buco rimasto nel mio petto era profondo, ci sarebbe voluto del tempo prima che
smettesse di farmi male.
“Bene,
signore. La nostra autrice deve andare. Ringraziamo tutte per la partecipazione
e vi invitiamo a prendere i programmi dei prossimi eventi sul tavolo in fondo.”
Waterstone,
Londra, presentazione del best seller “Quentin, the boss”.
Mi
alzai dalla sedia in cui ero rimasta incollata due ore e salutai le ultime
lettrici che si allontanavano.
“È
stato un grande successo.” L’organizzatrice della libreria si era avvicinata.
“Davvero.”
risposi con un sorriso stanco. “Non mi aspettavo così tanta gente.”
“Nell’ultima
settimana abbiamo venduto decine e decine di copie. Era un libro molto atteso.
Credo abbia centrato in pieno l’obiettivo. Brava.”
“Grazie
mille.” Le feci un piccolo inchino con la testa.
“So
che verrà tradotto in diverse lingue.”
“Certamente.”
S’intromise la mia agente che, non so come, era rimasta zitta fino a quel
momento. “Vogliamo entrare nella lista dei best sellers del New York Times.”
“Ah,
davvero.” Le due donne si misero a parlare tra loro dimenticandosi della mia
esistenza.
Io
mi guardai attorno.
Il
poster di Quentin a grandezza naturale, la pila di libri disposti ad arte, le
sedie sparse in disordine, chi lo avrebbe mai detto sarei arrivata a quel
punto? Eppure, nonostante la felicità, svanito il rush di adrenalina, rimaneva
solo la fatica.
Quelle
presentazioni mi sfinivano. Avevo girato la provincia inglese in lungo e in
largo, presentando il mio libro in piccole librerie di paese o in grandi
biblioteche di contea e avevo sempre fatto il pienone. Quentin era stato un
grande successo ma adesso avevo proprio bisogno di riposo.
Feci
girare lo sguardo sulla sala e incrociai quello di Jeff: un metro e novanta per
novantotto chili di puro muscolo e, soprattutto, venticinque anni di età.
Una
scrittrice di romanzi erotici doveva trattarsi bene.
Lui
si riscosse dalla sua posa annoiata e si erse in tutta la sua magnificenza.
“Puoi
fare tutto quello che vuoi.” mi aveva detto un certo allenatore. Io lo avevo
preso in parola.
Jeff
accolse il mio segno di “via libera” con un visibile sollievo.
“Vi
saluto.” dissi alle due donne che stavano ancora chiacchierando. “Vado a casa.”
La
mia agente si girò verso di me. “Non dimenticarti i primi capitoli della nuova
serie sugli ex legionari.”
“Nora,
ti ho detto dopo le ferie.” le dissi con impazienza.
“Certo,
cara. Dopo le ferie.” Si avvicinò e mi abbracciò. “Riposati e goditi questo
grandioso successo. Rimango io a tenere il forte.”
Ricambiai
l’abbraccio e me ne andai.
Io
e Jeff raggiungemmo l’uscita della libreria e ci dirigemmo verso il parcheggio
di Leicester Square, dove avevamo parcheggiato l’Audi.
“Una
bella folla di donne.” mi disse mentre camminavamo affiancati lungo King
Street.
“A
Londra ci vive un sacco di gente.”
“Qualcuna
ha cercato di toccarmi il sedere.” Mi informò, le labbra sporte in un broncio.
Io
mi misi a ridere. “È comprensibile. Hai un bel sedere.”
“Ma
dove sono finite le buone maniere? Potevano almeno chiedere il permesso.”
“Hai
ragione.” Lo presi sottobraccio ancora ridendo. “La prossima volta ti mettiamo
un cartello: prima di toccare, chiedere il permesso.”
Al
parcheggio, Jeff fece scattare lo “yuk yuk” dell’apertura e salimmo in
macchina.
“Voglio
dormire una settimana.” Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi.
“Spero
avrai di meglio da fare che dormire.” mi rispose, dandomi una stretta al
ginocchio.
“Puoi
contarci.”
Jeff
ingranò la marcia e uscì dal parcheggio.
In
Willoughby Road, quartiere Hampstead, Jeff fermò la macchina in un posteggio e
ci dirigemmo verso la mia nuova casa al numero cinque: tre piani di mattoni
rossi, bow window e mansarda inclusa.
Aprii
la porta e un profumino di aglio ci accolse. Nel soggiorno a sinistra erano
visibili due valige ancora aperte e la sacca delle scarpe contro il divano.
“Allora,
com’è andata la presentazione.” Étienne uscì dalla cucina e salì i tre scalini
per l’atrio.
“Marveilleux.”
risposi io. Il mio francese era molto migliorato.
“Oh,
capo.” intervenne Jeff. “Mi devi un doppio giro in pizzeria. Quelle
presentazioni sono una palla disumana.”
“Pensa
che hanno anche cercato di toccargli il sedere.” dissi facendogli l’occhiolino.
Étienne
buttò indietro la testa e rise. Poi si avvicinò per battere il cinque con il
suo giocatore. “Promesso Jeff. Le prossime due uscite sono a mie spese.”
Io
mi avvicinai per essere salutata a mia volta e fui rapita in un abbraccio che
terminò con un bacio al fulmicotone. “Pronta, mon amour?” mi chiese sottovoce.
“Cosa
si mangia di buono?” La voce di Jeff ci arrivò dalla cucina.
Due
settimane alle Seychelles? Noi due soli? “Prontissima.”
Qualcuno
aveva detto che potevo fare tutto quello che volevo?
E
io volevo lui, Étienne Dumont, il mio allenatore del cuore.
Non
c’era voluto molto perché tornassimo a cercarci. Quella vacanza era stata una
rivelazione per me ma anche Étienne aveva subito la sua révolution.
Dopo
un periodo frustrante di amore a distanza, ero riuscita a fare l’inimmaginabile.
I
Leicester Tigers cercavano personale. Basta lavoro in banca e rugby nel tempo
libero.
Avevo
spinto, pregato, scritto curriculum, inviato suppliche all’Arcivescovo e alla
fine avevo vinto io. Dopo un colloquio e un periodo di prova, lo avevano
assunto.
Adesso
era ancora il numero zero, ma ben presto anche loro si sarebbero accorti di
quanto magnifico fosse Étienne Dumont.
“Non
infilare le dita nella pentola.” disse forte Étienne, sempre tenendomi tra le
braccia.
“Ma
capo.” si lamentò Jeff. “Ho fame.”
“Allora
prendi i piatti e apparecchia la tavola.”
Il
borbottio del giovane fu seguito dall’acciottolio della ceramica.
Étienne
mi lasciò andare. “Stasera Gratin Dauphinois e domani, mojito in riva
all’oceano.”
Lo
guardai tornare verso la cucina con quel fisico pieno di maestosi muscoli e il
mio cuore si riempì di farfalle.
Ma
non erano nello stomaco?
Erano
diventate troppe, qualcuna era dovuta migrare.
Stare
insieme era quello che volevamo ed io non avevo smesso di volermi bene. E di
amare lui.
FINE
CHI E' L'AUTRICE
MARIA CRISTINA ROBB è nata a Bologna e vive a Castel Maggiore, con la sua famiglia: un marito e una figlia. Fa l’infermiera da oltre ventanni nel dipartimento di chirurgia di un grosso ospedale universitario in cui si occupa anche di ricerca. Si definisce una lettrice compulsiva e ha sempre desiderato poter scrivere qualcosa che desse agli altri le stesse emozioni che prova lei quando tiene un libro tra le mani. Per questo ha frequentato alcuni corsi di Scrittura Creativa e Collettiva che le hanno fornito validi elementi per affinare il suo stile. Il suo debutto è stato il concorso sul blog “La Mia Biblioteca Romantica”, dove il suo racconto “Mr. Talbot” è risultato vincitore di una rassegna di Romance Erotico. Da allora ha continuato a scrivere, pubblicare su blog e partecipare a contest dove è risultata tra i finalisti in diverse occasioni. Di recente, con lo pseudonimo di Sissi Drake ha iniziato a pubblicare racconti appassionanti ed erotici per Youfeel (Rizzoli).
PUOI TROVARE ALCUNI SUOI ULTIMI LIBRI QUI
*****
VI E' PIACIUTO " COACH DEL MIO CUORE"? LASCIATE I VOSTRI COMMENTI E DITECI COSA NE PENSATE. A FINE RASSEGNA SARANNO ESTRATTI LIBRI IN REGALO FRA CHI AVRA' COMMENTATO I RACCONTI.
APPUNTAMENTO AL PROSSIMO RACCONTO...VI ASPETTIAMO!
Il racconto è veramente carino, purtroppo oscurato da diversi errori grammaticali, i più frequenti dei quali riguardanti la coniugazione dei verbi al passato remoto. C'è almeno un termine dialettale ed errori (di cui uno enorme ed è l'imperativo di aller) sulle parti in francese. Peccato, perché oltre ad apparire abbastanza curato sotto l'aspetto lessicale è anche abbastanza curato sotto l'aspetto della punteggiatura (mera leggenda metropolitana per molte persone che si autoproclamano scrittori) per cui consiglio all'autrice un po' più d'attenzione in fase di rilettura. Di nuovo complimenti
RispondiEliminaGrazie del commento. I tuoi appunti mettono in evidenza quanto sia importante la revisione post scrittura, soprattutto sarebbe utile farla fare a un'altra persona in grado di notare quegli errori che, purtroppo, sfuggono, soprattutto quando ti destreggi con tempi verbali che si usano poco. Spero di fare meglio la prossima volta. :)
RispondiEliminaSono sicurissima che farai meglio Maria Cristina. E ancora complimenti, il racconto mi è piaciuto veramente tanto. Mi piacerebbe sapere cos'altro hai scritto sotto pseudonimo perché, a parte qualche errore, hai molto curato tutti gli aspetti del racconto e, quando vedo impegno e creatività, lo apprezzo davvero. Specie se lo metto a confronto con produzioni in cui chi ha scritto non si è preso la briga di sfogliare un vocabolario, cercare un sinonimo o mettere le virgole al posto giusto.
RispondiEliminaApprezzo anche chi sa recepire le critiche con il giusto spirito, cioè essere spronato a fare meglio.
Grazie a te.
Il mio pseudonimo è Sissi Drake, puoi trovare i miei libri su i maggiori siti di e-book. Sono degli erotici, però, non so se sono il tuo genere. Grazie per il complimenti, sono contenta ti sia piaciuto nonostante le "scivolate" :)
EliminaMaledetti refusi! sui maggiori e i complimenti, ovviamente.
EliminaAllora ti ho letto!!! Ti ho pure recensita😃
EliminaIn un blog, intendo
EliminaQuale?
EliminaIl blog che aveva Valentina Selmin, chiuso perché lei non poteva gestirlo più causa mancanza tempo. Era The essence of books.
EliminaBello questo racconto; delicato, ma anche divertente. Chi è senza errori scagli la prima pietra. Io tengo le mani in tasca e la testa bassa. Certi errori sfuggono dispettosi all'occhio dell'autore, per questo è utile una revisione da parte di terze persone. Sono curiosa di leggere altro di questa autrice.
RispondiEliminaGrazie mille!!!
EliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaCare lettrici, la mia cara amica Francy mi ha trovata una buona maestra e abbiamo "ripulito" qualche erroruccio nel francese. Far rileggere a un altro il testo sarebbe una cosa davvero importante ma, purtroppo, non sempre è possibile. Grazie a tutte coloro che lo hanno letto e apprezzato e grazie per le puntualizzazioni, sempre utili per gli autori. :)
RispondiElimina😃😃😃
RispondiEliminaio adoro le storie romantiche quando sono così allegre e divertenti e lo stile di Maria Cristina mi piace davvero moltissimo.
RispondiEliminai suoi racconti mi lasciano sempre un sorriso sulle labbra. mi sono piaciuti molto anche i suoi romanzi, che però, a causa delle limitazioni imposte dalle CE, forse sono eccessivamente brevi, almeno per i miei gusti personali, ma questo esula dalla sua capacità di scrittura.
Grazie!! :*
EliminaCarino e divertente! Mi è piaciuto molto..
RispondiEliminaGrazie!!
Eliminaio non sono una scrittrice, ma chissà perchè penso che sarebbe mooolto stimolante se un eventuale "blocco dello scrittore" potesse essere superato grazie ad un tipo come il nostro allenatore, rigido, severo, sarcastico e terribilmente sexy!
RispondiEliminaun racconto davvero gradevole, simpatici i giovanissimi sportivi che fanno da contorno all'attrazione tra i protagonisti.
Piacevole e a tratti divertente anche se scade un po' in alcuni momenti come i commenti di lei sull'allenatore. Non mi è piaciuta la parte conclusiva, troppo frettolosa
RispondiEliminaÈ stata una lettura veramente piacevole. Un racconto romantico ed ironico, fresco.
RispondiEliminaGrazie mille a tutti!!
RispondiElimina