Il Racconto di San Valentino: ANCORA UN MOMENTO di Virginia Parisi



Ama, ama follemente, ama più che puoi,
e se ti dicono che è peccato,
ama il tuo peccato e sarai innocente.
Anonimo
(attribuito a William Shakespeare)

        
            La baita è un gioiellino di architettura incastonata sulla fiancata della montagna, senza nessun’altra via di accesso se non questa pista battuta a strapiombo sulla valle o un passaggio in elicottero. E io che adoro le sfide, ho abbandonato la mia Jeep in paese e con il favore del primo sole del mattino, sono arrivata fino a qui con le mie racchette da neve. E la milza mi fa un male dell’Inferno. Non sono ciò che si dice una tipa in forma. Puntualmente mi iscrivo in palestra, solo per dimostrare a me stessa che posso farcela, e la mia borsa rimane intatta in fondo al letto per tutta la durata dei corsi.
Mi siedo un momento, per togliermi le ciaspole, riprendere fiato, schiarirmi la mente e riordinare i troppi pensieri accumulati dall’eccesso di ossigeno.
Il mio capo mi ha inviato in missione speciale. A suo dire, sono la sua migliore Wedding Planner – e di solito lo dice solo quando ci sono delle grane all’orizzonte - e il mio compito è organizzare ogni dettaglio del matrimonio più importante dell’anno: quello di suo figlio. Il suo unico figlio. Che non conosco e non ho mai visto. E siccome il mio capo è una donna e una madre single con la mania del controllo, temo che abbia affidato a me questo incarico ingrato, per molte moltissime buone ragioni. E ho paura che le scoprirò tutte insieme, proprio nel corso di questo incontro.
“In perfetto orario”.
La voce si intrufola nei miei ingranaggi mentali e li scombina come una pallina bianca, dritta contro le altre, su un tavolo da biliardo.
Mi volto tirandomi in piedi, già pronta ad incurvare la bocca in un sorriso amichevole, allungando la mano verso quella dell’uomo che mi è comparso di spalle, nonostante mi abbia praticamente fatto venire un colpo.
Un ottimo inizio, non c’è che dire.
“Signor White, buongiorno”. Il mio sorriso si allarga da solo e la mia mano si ritrova stretta nel palmo enorme caldo e asciutto di un uomo in tenuta da sci. Alto, castano, occhi chiari, bocca piena e sensuale. Così dannatamente attraente che ho una specie di sussulto dentro, come un timer, un trillo, come l’ago di una bussola che segna il Nord dopo aver galleggiato un po’ a vuoto.
“Signora Landi, buongiorno”. William White incurva appena il capo “Sono due ore di camminata in mezzo alla neve”. Lo dice senza una particolare sfumatura, ma a me sembra quasi ci sia una nota di approvazione in fondo ai suoi occhi.
Sono vagamente spiazzata. E non mi capita spesso. Gli imprevisti fanno parte del mio mestiere e sono variabili che devo saper gestire o possono mettere a rischio la buona riuscita di mesi e mesi di complessa organizzazione.
Tuttavia il mio lavoro mi piace. Anche se ogni volta commetto l’errore di lasciarmi coinvolgere un po’ troppo dalla coppia che ho davanti. Ascolto, prendo appunti, lascio che siano loro a parlare, a raccontarmi e a raccontarsi. Ogni sfumatura mi suggerisce un elemento, qualcosa da studiare, da sviscerare, qualcosa da tramutare in materia, in profumi, in colori. Qualcosa che rappresenti la loro storia, loro due come coppia, come comunione di intenti, di desideri, di passato e presente. Desidero per loro che un unico giorno sia l’essenza stessa di un futuro che andranno a costruirsi insieme, un passo dopo l’altro.
“Mi chiami Matilda” lascio la sua stretta decisa, percepisco un sentore di sigari di buona qualità, segno che era qui fuori a fumare, e aggiungo “Due ore e trentacinque minuti scarsi, per la precisione”.
Incurva la bocca piena in un sorriso un po’ sghembo “Con lo snowboard, ho battuto il record dei sessantacinque minuti”.
“Su quella pista? Ci sono tratti così complessi che si fa fatica a camminarci a piedi”. Presuntuoso e sicuro di sé. O forse mi sta solo prendendo in giro.
“È ciò che rende affascinante la discesa”.
“Con un paracadute attaccato alla schiena”.
Inarca un sopracciglio “Solo pura adrenalina, fino all’ultimo tratto”.
“Ammesso che uno ci arrivi”.
“Le incognite hanno il loro fascino, signora Landi”.
“Stiamo parlando di lavoro?”
“C’è differenza?”
“Sul lavoro, le incognite non mi farebbero finire in qualche burrone con una tavola da neve ai piedi”. Ormai mi è uscito di bocca. Non avrei dovuto, del resto è con un cliente che sto parlando. Ma temo che la mia solita diplomazia oggi non sarà sufficiente.
White mi sta studiando, come si fa con un avversario in una gara. O forse sta cercando di capire che tipo di persona gli ha mandato sua madre. Per la quale, ho il timore, non abbia una grande simpatia.
Tuttavia non sembra affatto seccato dalla mia battuta. Però controlla il suo orologio da polso, chiaro segno che vuole che mi tolga dai piedi prima possibile. Non mi aspettavo un’aperta collaborazione ma così la vedo davvero dura.
“Non le ruberò più tempo del necessario” assicuro.
Lui torna a fissarmi e non so bene a che cosa sta pensando.
“Le faccio strada”.
“Grazie”.
Via il dente via il dolore.

 L’interno della baita è un accogliente concentrato di legno massello e travi di recupero, con un soppalco e una zona giorno ampia e ben illuminata da un’enorme vetrata che regala un panorama mozzafiato sulla valle e le cime innevate.
Ci accomodiamo nel salottino, una parete di pietra a vista dentro cui arde il fuoco di un camino, sofà rossi, poltrone allungabili e un tappeto grigio così soffice che ho quasi rimorso a camminarci sopra. Ci viene servito un piccolo brunch da una donnina minuta e rotondetta, ma io sono ansiosa di iniziare il mio lavoro. Di scoprire che tipo di piani ha in mente il mio nuovo cliente per il giorno più importante della sua vita. Un castello come location per il rito e la cerimonia, abiti su misura per entrambi, una scelta elegante per le damigelle, cadeaux per gli ospiti, orchidee sui tavoli, buffet ricco e scenografico, angolo sigari per gli uomini, un’orchestra che suona musica celtica. E un tripudio di colori tenui che variano dalla lavanda al lilla.
Oppure qualcosa che riuscirà a mettermi in difficoltà.
In fondo lo spero. E forse lui ha ragione.
Dopotutto le incognite hanno il loro fascino.
Ho osservato con interesse le foto sul camino. Ritraggono White e la sua futura moglie. Sono stati un po’ dappertutto. E in una di queste istantanee lui l’abbraccia da dietro, con il volto per metà appoggiato sul suo cappello di pelliccia, gli occhi socchiusi, in un momento così intimo che intuisco immediatamente che tipo di legame li unisce. Sarà un piacere lavorare per loro. Il sentimento che leggo in questa unica foto è ciò che rende un evento davvero magico.
“Ha già conosciuto Laura?” mi domanda il mio ospite sorseggiando il suo caffè. Mi osserva con quei suoi magnifici occhi dal bordo della tazzina. Così da vicino ho catalogato la nuance tra il turchese e il blu cobalto, ma ho delle perplessità. Non credo esista un colore in grado di riassumere questo tipo di sfumatura.
Studio ancora la foto alle sue spalle. Laura è bruna, alta, un volto strepitoso, da modella, labbra piene, occhi scuri, intensi. Insieme formano una splendida coppia.
“Solo telefonicamente. Ho un appuntamento con lei lunedì, nel primo pomeriggio a Milano” lo informo e poso il mio succo d’arancia “Avrei preferito incontrarvi insieme ma so che siete entrambi molto impegnati. Comunque non ci saranno problemi. Vi inoltrerò il dettaglio dei nostri due incontri, le vostre idee e le mie proposte, e troveremo le soluzioni migliori”.
“Mia madre ha mandato il suo miglior Generale”.
“Non sono il fiore all’occhiello di Emma. Anzi. Spesso ci scontriamo. Ma è costruttivo. Lei ha una visione pragmatica del nostro lavoro. Il che è perfetto sotto certi aspetti”.
“Una maniaca del controllo. Non credo ci sia un solo minuto delle sue giornate non calcolato sulla sua preziosa agenda”. Sento un velo di acredine dietro quella che vorrebbe sembrare una battuta. Forse è il motivo che lo tiene lontano dai nostri uffici in centro a Milano e per il quale, in sei anni, non l’ho mai incontrato prima. Ma se fosse passato in ufficio, le segretarie alla reception si sarebbero scorticate i gomiti e pestate i piedi a vicenda pur di offrirgli anche solo un bicchiere d’acqua. E di certo mi sarebbe stato difficile dimenticarlo.
Soprattutto perché è il figlio di Emma White, ripeto a me stessa.
“Sta parlando del mio capo, non potrei mai darle ragione”.
“Diplomatica o codarda?”
Diretto, senza giri di parole. Potrei anche offendermi. Ma anche io sono una persona schietta. È una qualità che apprezzo molto negli altri. Clienti compresi. Ed ecco che appare qualche tratto di Emma in lui, che fisicamente non gli assomiglia affatto. A parte forse la maniera di sondarti dentro con quegli occhi così incredibili.
“Direi la prima” mi stringo nelle spalle ma non abbasso lo sguardo. Ho anni di pratica alle spalle con Emma. Quando abbiamo qualche divergenza di opinione, e voglio spuntarla, la miglior tattica è sostenere il suo sguardo arrabbiato. “Se fossi una codarda, non avrei mai accettato questo incarico, ben sapendo a quali rischi vado incontro”.
“E non avrebbe scarpinato fino a qui. E io che pensavo fosse un deterrente, rifugiarmi due notti in questo posto sperduto fra i monti!”
Rido e prendo un altro appunto. “Ci ha provato. Ma sarei arrivata comunque. Anche su un elicottero”.
“Sa sciare?”
“Non abbastanza bene da lanciarmi giù da qualche dirupo ghiacciato”.
Sorride, facendo comparire un’irresistibile fossetta sulla guancia sinistra. Ed è un sorriso che mi arriva dentro in una maniera così repentina che devo ricordami il motivo per cui sono qui.
“L’avrei di sicuro preceduta”. Un guizzo carico di adrenalina gli attraversa le iridi turchine. Ne rimango affascinata. Mio malgrado.
“Non ne dubito” e domando “Altri sport estremi?”
“Qualcuno. Laura ovviamente non approva”.
“Ma la lascia fare”.
Si stringe nelle spalle “Non ha molta scelta”. Posa la tazzina e si allunga verso il tavolino fra noi, per prendere il suo iPad che ha trillato “Mi perdoni, una mail di lavoro”.
Lo osservo con il volto concentrato nella lettura. Fronte alta, qualche ruga di espressione, lineamenti ben scolpiti, sopracciglia folte e ben definite, capelli lunghi, di un bel castano chiaro, gli solleticano la mascella ombreggiata da un accenno di barba. Avrà qualche anno in più di me. E di sicuro è molto più vecchio di Laura, che non deve avere nemmeno trent’anni. Me lo immagino in smoking o in mezzo tight, ed è probabile che qualsiasi donna lo divorerà con lo sguardo, ammirandolo in piedi, mentre aspetta la sua sposa, davanti all’altare. Anche Laura, non potrà fare a meno di avere un tuffo al cuore, un moto di orgoglio tutto femminile, nel trovarselo di fronte quel giorno. Ho già in mente il loro reportage di nozze.
Emma ha ragione. Sarà l’evento dell’anno.
“Io avrei fatto volentieri a meno del prezioso aiuto dell’agenzia. Nulla di personale, si intende” ironizza lui dopo qualche minuto, posando l’iPad sul basso tavolino fra noi. “Avrei sposato Laura sulla spiaggia delle Saintes Maries l’estate scorsa e saremmo tornati qui solo per le congratulazioni del caso”.
“Quindi una cerimonia all’aperto, sulla spiaggia?” Annoto sulla mia agenda “È questo che ha in mente? Camargue, Provenza? Cabane, gitani, fiori di lavanda, vino coltivato nella sabbia? Luglio è un mese perfetto”.
Lui sogghigna, come se avessi detto qualcosa di incredibilmente scontato.
“Non è il luogo. È il momento. Qualcosa che non si può riproporre in una data concordata, spedendo inviti a persone di cui in fondo non ti importa un accidente, nella speranza che possano condividere ciò che provi per la donna che sarà la tua compagna per la vita”.
Una dichiarazione così sorprendente potrebbe anche aver smosso qualcosa dentro di me, ma sul lato pratico significa altresì che qualsiasi cosa io voglia proporgli, non sarà mai abbastanza per William White.
“Signor White” attacco decisa “Credo che se la sua futura sposa avesse voluto un matrimonio del genere, io e lei non ci saremmo mai incontrati”.
Non mi smentisce. E anche se appare divertito dalla mia risposta, comprendo che le mie parole in fondo hanno toccato un nervo scoperto.
Appoggia i gomiti sui braccioli della poltrona sporgendosi leggermente in avanti. “Signora Landi, una donna guarda un album di nozze e le uniche cose che vede sono il vestito e l’acconciatura, probabilmente il make up e quanto è grosso il diamante vicino alla fede”.
“Oltre all’auto, alla location, all’eleganza degli invitati, alla wedding cake” aggiungo tranquillamente.
“Certo, lei è stata mandata proprio perché nulla sia lasciato al caso”.
“Alcune donne sognano solo un uomo che le voglia sposare”.
“Alle loro condizioni”.
Questo è un terreno pericoloso. Da buon avvocato – mi pare abbia uno studio a Londra e l’altro a Milano – vuole provocarmi. E accidenti mi piacerebbe fare la stessa cosa. Ma sono qui in veste ufficiale. Come la penso in merito a cosa, è fuori luogo.
“Direi che dovrebbe essere una specie di scambio, e allo stesso tempo qualcosa che si vuole insieme. E che uno ambisca a rendere l’altro felice nel tentativo di realizzarlo”.
“Esperienza di lavoro o personale?”
“Non sono sposata. Ho imparato sul campo”.
Segue un minuto di silenzio. E mi sto chiedendo per quale dannato motivo quest’uomo ha deciso di incontrarmi. Potrei trincerarmi dietro al motto di Emma: si tratta solo di affari, nulla di personale.
Faccio ciò che so fare meglio e me la svigno. Più veloce che posso. Domani non mi ricorderò più nemmeno che ci sono venuta a fare fino a qui. In questo posto dimenticato da Dio, in mezzo a tonnellate di neve sparate da un mucchio di nuvole basse e incazzate, sospeso nel vuoto.
“Lei è diversa da ciò che mi aspettavo” commenta infine White.
“Credeva che me la sarei data a gambe levate dopo la prima mezz’ora?”
“Ci speravo” ammette lui e si alza in tutto il suo metro e novanta, riempiendo il mio campo visivo. Si avvicina al camino, sistema un paio di ciocchi di legno e poi torna ad osservare la foto che mi ha colpito in mezzo alle altre. Nasconde molto bene qualsiasi pensiero sia collegato a quel ricordo. Sul suo profilo perfetto non scorgo nulla. Forse è più simile alla madre di quanto lui creda. Entrambi perfettamente in grado di schermare i propri sentimenti. Non c’è nulla che li tocchi davvero o forse è solo una maniera per salvaguardare se stessi. Cioè sono quasi sicura che Emma abbia un cuore. Nascosto da qualche parte, almeno. E che di tanto in tanto si ricordi di accenderlo.
“Direi che possiamo arrivare ad un accordo” mi propone a sorpresa.
“Bene” incurvo le labbra in un sorriso senza sapere esattamente che aspettarmi.
“Lascio tutti i dettagli nelle sue capaci mani” e si volta in modo da potermi guardare bene in viso “Qualsiasi cosa sceglierà Laura, mi andrà bene”.
Avrei scommesso che mi avrebbe dato del filo da torcere fino ad un secondo prima di piazzarsi sull’altare in attesa della sua Laura. Dov’è l’adrenalina di cui parlava? I discorsi sulle incognite? Quel guizzo di energia mentre parlava del suo record con lo snowboard?
“Dunque non vuole darmi nemmeno un indizio su ciò che le piacerebbe?”
“Direi che voi ragazze ve la caverete alla grande”.
“Allora, non insisto. La chiamerò per la scelta dell’abito e le farò consegnare i modelli dove vorrà. Avete già pensato alle fedi?”
“No, ma me ne occuperò personalmente”.
“Perfetto”. Un elemento da ricontrollare a tempo debito. Anche se White non mi sembra un uomo che prende impegni alla leggera.
“Vuole fermarsi a pranzo?”
“No, ho una bella passeggiata da fare. Vorrei tornare a valle prima di sera”.
“Allora, le auguro buon rientro”.
“Grazie, è stato un piacere conoscerla”.
“Non finga, non lo ha fatto fino ad ora” mi stringe la mano ma ha un sopracciglio inarcato “Si sta chiedendo perché mai abbia accettato di incontrarla per non parlare di dettagli di cui in definitiva non mi importa nulla”.
Dettagli di cui non gli importa nulla e di cui non abbiamo parlato. Una sintesi perfetta.
Dovrò spiegarlo ad Emma. E so già che diventerà una iena. Perché ho fallito, anche se suo figlio accetta che sia io ad organizzargli il matrimonio, non si è nemmeno degnato di dirmi che numero di scarpe porta. Lungi da me l’idea di chiederglielo adesso. Gli manderò una mail. Magari il mese prossimo. Quando avrò l’intera giornata wedding organizzata sulla mia agenda.
“Non credo sia affar mio” sorrido dinanzi a tanta franchezza “Ed è stato comunque un piacere scambiare due chiacchiere con lei. Lo apprezzo molto. Avrò un quadro della situazione più completo, quando parlerò con la sua fidanzata”.
“Bene”.
“Arrivederci”.
E speriamo non così presto.
  
            D’accordo. Ho un problema.
Un problema che si risolverà fra tre giorni, e cioè lunedì, quando incontrerò di persona Laura. E di sicuro vorrà raccontarmi ogni cosa riguardo al suo irremovibile, snervante e attraente fidanzato, al modo al posto al tempo in cui si sono conosciuti. Mi parlerà della loro vita insieme, del loro lavoro, dei loro hobby, dei loro viaggi, mi fornirà così tanti dettagli che la mia agenda sarà sommersa di promemoria. Sarà la mia rivincita su William White e soprattutto eviterò le lamentele di Emma. Organizzerò questo matrimonio e sarà il mio miglior lavoro.
Peccato che nel frattempo, l’attacco di una racchetta si sia rotto e abbia preso una storta, nemmeno so io come, e stia arrancando su questo cazzo di sentiero da più tempo del previsto. Tanto che il sole si è già nascosto dietro un paio di vette.
Mi fermo un attimo a riposare la caviglia, che pulsa a intermittenza dentro gli scarponi da neve che sembrano diventati più piccoli di un paio di misure. Questa è una giornata nera. Una di quelle che rimuoverò dal calendario con uno di quegli scarabocchi rossi che poi non si capisce più neanche che numero c’è sotto.
Niente panico.
Ho un cellulare. Che ha una tacca di batteria e al momento non trova una rete a cui appoggiarsi. Non ho viveri di prima necessità, tipo uno snack per rimettermi in forze, perché ho mangiato l’unica barretta energetica più o meno due ore fa. Sono digiuna da stamattina, e ho rifiutato un cordiale invito a pranzo, più per orgoglio che per una buona ragione. E comincio ad avere freddo. Quel freddo bastardo e sottile che ti si infila dentro i maglioni di lana e ti conta le ossa una per una.
Dunque, niente panico. Ho due possibilità.
La prima è riuscire a raggiungere la valle e passare in mezzo a un pezzo di bosco di notte, senza nemmeno una torcia a portata di mano, prima di arrivare al primo centro abitato, e il parcheggio dove ho lasciato il mio mezzo di trasporto questa mattina, poco prima dell’alba.
La seconda è rifare la strada al contrario, evitando di ammazzarmi sul ghiaccio e chiedere aiuto al mio insopportabile e recalcitrante cliente.
Oddio. Messe sulla bilancia non so quale sia peggio.
Tuttavia mentre formulo queste due ipotesi, ho già fatto dietro front e sono di nuovo in marcia, zoppicante, sicura che niente possa essere peggio di trovarsi tra un muro di neve e un burrone all’imbrunire.
Sto anche pensando che sarebbe carino avvisare White del mio ritorno, perché non gli venga l’orticaria, ma al solo sentirlo nominare mentalmente, il cellulare nel mio palmo guantato, spira con un bip gracchioso.
Niente panico.
Sta scendendo la sera.
E c’è una stellina piccola e sonnacchiosa che si intravede ogni tanto in mezzo al cumulo di nuvole che ha coperto il cielo fin da questa mattina. Mi tengo vicina al muro di neve, e conto i miei passi che affondano nella neve dura, goffi e a tratti strascicosi come il mio umore.
Inizia persino a nevicare. Ma in che mese siamo? Febbraio. E domenica è San Valentino. Non posso crederci. Come ci sono finita in questo straccio di incubo?
Quando penso che non arriverò mai in cima, che mi troveranno stecchita come un baccalà in mezzo a tutto questo ghiaccio polare, le luci della baita mi salutano festose quasi fossero davvero liete di rivedermi.
Io lo sono molto di più. Questo è sicuro.
“Matilda!”
La voce di White per la seconda volta mi coglie impreparata. Non capisco nemmeno da dove proviene. La sua ombra si materializza alla mia sinistra, qualche metro prima della baita. Avverto un lieve aroma di tabacco che lo avvolge, quando mi raggiunge quasi correndo.
“Cosa è successo?”
“Nulla di grave. Ho avuto un piccolo incidente sulla strada” sto cercando di non balbettare e mi gocciola il naso. La mia faccia è spruzzata di neve e anche tutto il resto di me. “Non sono riuscita a raggiungere il paese”.
“Si è fatta male?” mi domanda scandagliando ogni centimetro della mia persona e dei miei scarponi da neve senza racchette.
“Si è rotto un attacco. Sono scivolata e ho preso una storta”. E il mio orgoglio, quella parte di me che mi reputa una donna indipendente, caparbia, sempre pronta ad accettare una sfida è dolorosamente ammaccata. Ma questo non posso certo dirlo proprio a lui. Sono qui in veste di impeccabile e rassicurante wedding planner. Non posso confessare al mio cliente che ho rischiato di farmela sotto. Uno poi che pratica sport estremi, che mi ha già catalogata come una rammollita calcola incognite. Voglio andare a casa. Subito.
“L’aiuto, andiamo dentro”.
Il suo braccio mi sostiene, allacciandomi in vita e con la mano mi afferra dolcemente all’altezza del gomito. Sono così infreddolita che una volta dentro il calore del fuoco sulla faccia mi fa sciogliere in una pozza di commozione. Se ne fossi capace, piangerei di sollievo.
“Mi scusi, le sto macchiando il tappeto” blatero con una certa incoerenza. Forse buona parte dei miei neuroni sono ibernati.
“Non dica sciocchezze. Si sieda, ce la fa?”
Annuisco senza troppa convinzione. Mi lascio cadere come un raffinato sacco di patate su una delle poltrone allungabili. Non riesco a piegare le ginocchia e rimango con le gambe tese, come uno stoccafisso che si scongela davanti al tempore del fuoco.
Non oso protestare quando White mi libera dai guanti, dalla giacca, scioglie i lacci dei miei scarponi e li sfila con delicatezza da quei due cosi ghiacciati e gonfi che forse sono ancora i miei piedi, imbacuccati nelle calze di lana.
“È gelata, ci saranno almeno tre gradi sotto zero là fuori”.
“Anche lei era fuori a fumare”.
Lui abbozza un sorriso, e intravedo la fossetta.
“Rimanga qui”.
“Non andrò da nessuna parte. Ha la mia parola”. E comunque dovrebbero tirarmi su con una gru o qualcosa di simile perché mi sento come un cubetto di ghiaccio nel freezer.
Lui mi mette addosso un paio di coperte e io blatero un paio di grazie tra un brivido e l’altro.
Non so quanto tempo passa tra questo primo momento di scongelamento e il ritorno di White. Non sento nemmeno che si siede di fronte a me, e mi domanda qualcosa, tentando di forzare il mio bisogno disperato di dormire.
“Cerchi di non addormentarsi, d’accordo?”
Le sue mani enormi sono sulle mie. Le massaggiano con gesti regolari, e in tutto questo non vi è nulla di romantico. Solo il tentativo di rimettere in moto la mia circolazione sanguigna.
“Non garantisco”.
“Perché non mi ha chiamato prima? Dov’è il suo cellulare?”
“Congelato anche lui” apro un occhio e sbatto una palpebra. Nel dormiveglia White è avvolto da una nebbiolina evanescente che mi fa quasi pensare che sia uscito da qualche pellicola hollywoodiana. “Quando ho provato a chiamarla, la batteria mi ha abbandonata”.
“Beva, finché è caldo”.
Mi ritrovo tra le mani una tazza di the bollente.
E siccome non riesco a dare comandi immediati ai miei arti superiori, è lui a gestire l’intera faccenda.
“Apra la bocca, coraggio”.
Ingollo due sorsate ustionanti che riportano in vita il mio palato e la lingua. Scivolando a rotta di collo verso l’esofago e il mi stomaco vuoto. Ho una sete terribile e svuoto la tazza in un nano secondo.
“Un po’ per volta o si sentirà peggio”.
“Peggio di così?” scuoto appena il capo e già il movimento mi provoca l’emicrania “Impossibile”.
“Le ho preparato un bagno caldo, riesce a togliersi di dosso quella roba?”
Il mio sensore femminile fa scattare l’allarme interno. In un altro contesto, in un’altra vita, congelata o no, una proposta del genere mi avrebbe messo addosso tutta un’altra serie di brividi. Sarà che la mia vita sentimentale, con il lavoro e il fatto non trascurabile che organizzo matrimoni, è pari alla temperatura polare fuori dalla baita. Cioè non sto con un uomo da quanto? Non che mi manchino le occasioni – a chi voglio darla a bere? – ma trovare qualcosa di interessante in mezzo a ciò che offre il mercato è davvero difficile. Oddio, sto pensando come Emma. È preoccupante. Vuol dire che il mio grado di congelamento è oltre la soglia di allarme.
“Voglio solo dormire” protesto.
“Prima pensiamo a scongelarla. Poi ci occuperemo della caviglia. E infine potrà dormire quanto le pare”.
“E sarebbe sua madre la maniaca del controllo?” Non so quello che dico. Forse il piano di scongelamento non è poi tanto male.
Lo sento ridere ed è al mio fianco, mi aiuta a rimettermi in piedi “Vuole che la porti io?”
“Nemmeno per sogno”.
“Allora forza, l’accompagno, poi la lascerò fare da sola”.
“Lo spero bene”.
Ridacchia. E lo sbircio di sottecchi solo per ammirare come una liceale la fossetta che si accentua sulla sua guancia.
“Le do cinque minuti per infilarsi nella vasca. Dopo sarò costretto a venire a controllare di persona”.
Faccio una smorfia disgustata.
“Lo sa, di solito non è questo l’effetto che faccio alle donne”.
“La sua fidanzata deve avere un gran da fare allora”.
“Laura non ha di che temere”.
“Diversamente non avrebbe deciso di sposarla”.
“Sono un uomo determinato. Non avrebbe potuto dire di no, nemmeno volendo”.
“Mi farò raccontare dalla sua fidanzata questa storia così interessante”.
“Non la conosce ancora? Eppure perfino mia madre ne è al corrente. Laura adora raccontarla a chiunque”.
A fare i conti con Emma penserò domani. Non mi ha fornito il minimo indizio riguardo a suo figlio e alla sua futura nuora, forse di proposito. Ben sapendo che William avrebbe reagito come ha fatto oggi al solo pensiero di pianificare con una perfetta sconosciuta il giorno del suo sì.
Apre la porta di una camera da letto che forse è deliziosa, ma non ho il tempo di studiarla, né le capacità mentali per farlo e poi ci ritroviamo dentro un bagno. Mi indica un telo, altri asciugamani, un cambio pulito di abiti e aggiunge “Si ricordi ciò che le ho detto”.
“Farò come vuole. A patto che lei decida di rispondere a qualche domanda”.
Mi scruta attento, il suo braccio ancora mi sostiene mentre mi aiuta a sedermi sul bordo della vasca idromassaggio che gorgoglia fumante.
“Vedremo”. E si richiude la porta alle spalle, lasciandomi con un sacco di dubbi.

             Quando anche l’ultimo pezzetto della mia pelle è rosso gambero, mi decido ad uscire dalla vasca. White ha bussato un paio di volte alla porta per assicurarsi che fosse tutto a posto. Ed io mi sono infilata più a fondo dentro l’acqua schiumosa entrambe le volte assicurandogli di sì.
Mi asciugo rapida, nel timore di perdere quel poco di calore che ho faticosamente riconquistato e indosso gli abiti che il mio ospite mi ha messo a disposizione. Io e Laura abbiamo più o meno la stessa taglia. Cioè su di lei il mini abito di cachemire sabbia e i leggins di seta color zaffiro devono essere da urlo, su di me sono poco più che passabili. Mi stringo nelle spalle, asciugandomi i capelli e dandomi un’occhiata allo specchio. La camminata mi ha se non altro lasciato un bel colorito. O forse è il freddo. O il bagno caldo. Per il resto, le mie lunghe ciocche caramello, dritte come spaghetti appaiono moderatamente in disordine, e i miei occhi verdi sono arrossati. Sono così stanca che mi butterei a dormire sul pavimento.
Quando esco dalla camera da letto, sento un profumino delizioso provenire dalla cucina. L’ho intravista entrando questa mattina, con il suo angolo bar e il bancone, dove si può anche mangiare o prendere un aperitivo su alti sgabelli intagliati a mano. Seguo il profumo zoppicando sulla gamba buona. Il calore ha risvegliato anche il dolore. E la mia caviglia è gonfia e di un blu preoccupante. Gli ho spalmato un bel po’ di quel magico unguento messo insieme dalla fata Turchina che ci ha servito il brunch oggi. E non sento il minimo miglioramento.
White è impegnato ai fornelli. Ha uno strofinaccio buttato di traverso sulla spalla e davanti a lui si sprigionano vapori densi che finiscono risucchiati dalla cappa accesa. L’ambiente è pratico e funzionale, con elettrodomestici di ultima generazione che un po’ stridono con l’aspetto esteriore della baita. Che fa pensare ad un comodo, semplice rifugio invernale. Dentro invece è un misto di raffinate soluzioni architettoniche e dettagli degni di una rivista di arredamento.
“Come si sente?”
Si volta a fissarmi da sopra una spalla, mentre sistema una ciotola ampia su un vassoio, insieme ad un bicchiere e a una bottiglia di vino che stappa davanti a me e che versa in un decanter panciuto.
Lo trovo strepitoso con indosso un paio di Jeans e un pullover blu notte, con lo scollo a V da cui si intravede una t-shirt immacolata. Ha gli avambracci scoperti e le belle mani si muovono sicure, intente a cucinare per la sottoscritta.
Il dolore alla caviglia è momentaneamente dimenticato.
“Lo porto di là, così può mangiare davanti al fuoco”.
“Le sto dando parecchio fastidio”.
“Non dica sciocchezze. La caviglia come va?”
“Sopportabile”.
“Stenda la gamba e proviamo con un impacco freddo. Ha messo la pomata che le ho lasciato?”
“Sicuro” annuisco da brava paziente “Ma senza formula magica non sta funzionando”.
“Si è tappata il naso e ha girato tre volte su se stessa?”
Scuoto il capo con aria colpevole.
Lui ridacchia “Oh, allora è per quello”.
“Lei ha già cenato?” domando dopo un attimo, notando che c’è un solo piatto.
“Sono le undici passate. Le farò compagnia con il vino”.
“Ci ho messo troppo con il bagno caldo, mi perdoni”.
“Matilda, perché le viene così facile scusarsi?”
“Credo di essere stata troppo tempo sotto zero”.
Ancora un sorriso. Ed è la seconda volta che mi chiama per nome.
“Ha bisogno di un sostegno?”
“No, zoppicherò stoicamente dietro di lei, senza lamentarmi o chiederle scusa per la mia lentezza”.
“Brava ragazza” annuisce soddisfatto e mi precede verso il salottino. Ha sistemato una poltrona più vicina al fuoco. Attende che io mi sieda e mi porge il vassoio.
“Torno subito”.
Io mi godo il tepore delle fiamme sul viso. E con un sospiro attacco la minestra che si rivela essere squisita. Ne assaporo ogni cucchiaiata come se fosse il primo pasto dopo giorni.
“Ecco, provi a tenerci su un po’ di ghiaccio” mi consiglia tornando dopo qualche minuto.
“Dove ha imparato a cucinare?” Gli domando acciuffando l’involucro freddo e posizionandolo sulla mia caviglia “La minestra è favolosa”.
“Ai tempi dell’università, lavoravo in un ristorante come aiuto cuoco” mi racconta versando il vino in due larghi tulipani “Mi piaceva parecchio”.
“Le riesce ancora benissimo” commento e accetto volentieri il vino. Lo agito piano ammirandone il rosso corposo attraverso il vetro e ne sento il bouquet. Il barricato è promettente e al palato non delude le mie aspettative “Caramello e vaniglia”.
“Cioccolato e cannella. E alla fine una punta di pepe”.
Lui muove il liquido nell’ampio tulipano e osserva con un mezzo ghigno gli archi disuguali sul vetro “Se ne intende per lavoro, immagino”.
Finisco la mia minestra. E sono sazia.
Mi tampono la bocca con il tovagliolo. “Mio padre è un viticoltore, da tre generazioni”, sono lieta di sorprenderlo almeno per una volta. “Sono cresciuta giocando in mezzo alle vigne. A settembre prendo sempre qualche giorno di ferie apposta per aiutarlo nella vendemmia”.
“Dove?”
“Monferrato”.
Lui sembra parecchio interessato e forse anche un po’ meravigliato. “E sua madre?”
“Ci ha lasciato quando avevo sedici anni”.
“Mi spiace”.
 “No, non in quel senso” sorrido e scuoto il capo, appoggiandomi meglio contro i cuscini “Se n’è andata con un pittore. Vivono da qualche parte in Spagna”.
“Non deve essere stato facile per voi due”.
“Mia madre non era fatta per noi e noi non eravamo fatti per lei. Adesso credo sia felice”.
“Lo pensa o ne è sicura?”
“Che non eravamo fatti per lei o che è felice?”
“Come fa a sapere che ha trovato ciò che cercava, lontano da voi?”
Non ho mai raccontato questa storia ad un estraneo, figuriamoci ad un cliente. Non so per quale motivo, ma in questo salottino così intimo, al sicuro sotto un paio di coperte, completamente vestita e con la compagnia di quest’uomo, insieme alla gentilezza inaspettata che mi ha dimostrato stasera, così diversa dalla snervante serie di provocazioni di stamane, mi hanno resa disponibile alle confidenze. Ma forse è il vino. Sì, non può essere che il tepore dolce che mi ha scaldato il petto. Insieme alla sensazione di serenità che proviene da questo luogo quasi inaccessibile, alla gratitudine per lo scampato pericolo e alla stanchezza che mi fa sentire le palpebre sempre più pesanti.
“Credo semplicemente che non si può costringere nessuno a restarci accanto e che prima o poi dobbiamo lasciarlo andare”.
“Non ne sente la mancanza?”
“Mi ha dato ciò di cui avevo bisogno, quando ne avevo bisogno. Il resto sarebbe stato solo una gentilezza che prima o poi avrebbe finito per rinfacciarmi”.
Rimane in silenzio. E sento il suo sguardo sul mio viso privo di trucco, forse un po’ accaldato dal fuoco e da tutto ciò che sento dentro.
“Non le porta rancore”.
“Perché dovrei?”, sono leggermente stupita “Ha scelto di afferrare un pezzo di felicità. Con noi avrebbe vissuto solo di rimpianti”.
“Suo padre è d’accordo con questa sua teoria?”
“Papà l’ha aiutata a fare le valigie”.
E ho detto tutto.
“Lei mi sorprende”.
“Adesso è il suo turno di sorprendermi”.
Gli do un’occhiata dal bordo del bicchiere. Ha un’espressione vagamente incuriosita. Ma anche diffidente. Non vuole darmi materiale su cui lavorare. Perché non vuole condividere nulla di sé, con una perfetta estranea.
Incurvo le labbra “Partiamo da qualcosa di semplice”.
Lui inarca un sopracciglio.
“La data esatta del matrimonio”.
“Dodici luglio. È il compleanno di Laura”.
“Mattina o sera?”
“Una festa di quelle che si trascinano fino a notte fonda” e beve un sorso di vino “Laura ama fare tardi”.
“Con molti amici o pochi intimi?”
“Oh, inviterà anche lei e se non potrà venire, verrà a prenderla fin sotto casa”.
“Sono sempre presente ai miei eventi. Ne gestisco uno per volta”.
“Mi sarei stupito del contrario”.
“Preferisce indossare un mezzo tight o la tuta da sci per il suo matrimonio?”
“Perché non la muta da sub?”
“E il tight sotto, tipo Mission Impossible?”
Ridiamo.
“Potrebbe fare un po’ di sci nautico prima”.
“Arriverei piuttosto spettinato” e si tira indietro i capelli con una mano.
Così rilassato non si aspetta certo il quesito successivo.
“Vuole sposarsi, signor White?”
Lui solleva il viso di scatto e assottiglia lo sguardo “Fa questa domanda a tutti i suoi clienti, signora Landi?”
“È il primo a cui mi interessa chiederlo” ammetto senza colpa. “Ha fatto di tutto stamattina, per rendermi il compito più che difficile. Ammesso che abbia scelto davvero lei di parlarmi, cosa che non credo possibile, non ho mai incontrato un cliente con un trasporto più scarso nell’immaginare il giorno più importante della sua vita”.
“Provi a rispondersi da sola” mi provoca. E non mi pare più tanto seccato. “Vediamo qual è la sua teoria”.
“Non è ancora del tutto perfezionata”.
“Si sta tirando indietro?”
“Niente affatto” e lo fisso bene in volto “Non c’è nulla di suo, in nessuna delle risposte che mi ha snocciolato fino ad ora”.
“È lei la wedding planner. Non dovrebbe immaginare le soluzioni migliori al mio posto?”
Sorrido. “Non al suo posto. Ma con il suo contributo. Non si tratta di ciò che voglio io, o di ciò che vuole la sua fidanzata. Si tratta di ciò che volete entrambi e che cercheremo di realizzare insieme”.
“Mi pare di averle già detto che le lascio carta bianca”.
“Quindi è una sfida che vuole?” domando finendo il barricato.
“Ci vada piano con il vino”.
Mi osserva posare il bicchiere sul vassoio e sporgermi verso di lui, allungando una mano nella sua direzione. “Domani mattina, scenderemo a valle insieme. Scelga lei il mezzo”.
“Ha una caviglia fuori uso. E forse è rimasta un po’ troppo tempo al freddo”.
“Mi metta a disposizione delle ciaspole nuove o degli sci o anche uno snowboard. Come preferisce”.
Fissa me e la mia mano pronta a suggellare il patto con uno sconcerto quasi comico. Probabilmente crede che sia ubriaca. O che abbia perso qualche neurone in mezzo al ghiaccio.
“Non c’è gara” protesta posando il bicchiere accanto al mio “E lei non ha mai fatto sci alpino o messo piede su una tavola da neve. E con quella caviglia non riuscirà nemmeno a infilare gli scarponi”.
Metto in mostra il mio miglior sorriso. E il mio palmo è ancora in attesa del suo “Dove sono finiti i suoi discorsi sul fascino delle incognite?”
Lascia passare qualche secondo di silenzio. E poi sogghigna scuotendo il capo “Se domattina riuscirà a mettersi in piedi, sceglierò il mezzo più adatto alla sua definitiva sconfitta”.
Mi stringe il palmo. Finalmente.
“Ma se dovessi vincere, lei sarà così gentile da raccontarmi come immagina il suo sì con Laura”.
“E se vinco io?”
“Lascerò l’incarico” gli prometto decisa “E mi toglierò dai piedi una volta per tutte”.
E forse è vero che sono ubriaca.


“Al mio tre”.
Sì, lo so. Sono pazza. Pazza da legare. Stamattina mi sono svegliata ancora con il tovagliolo stretto in una mano, il ghiaccio sciolto sotto un piede, la testa infilata sotto il bracciolo della poltrona e il desiderio impellente di scappare.
Ovunque. E comunque lontano dalla mia follia. Soprattutto quando William White ha sbattuto sul pavimento un paio di tavole da snowboard insieme ad un sonoro “Buongiorno”.
“È ancora da vedere” ho risposto con la voce impastata di sonno, scostandomi dal viso la massa arruffata dei miei capelli e nascondendo uno sbadiglio.
“Come si sente?”
“In grande forma” ho mentito. Non c’è un pezzo di me che non mi faccia un male dell’accidente. Mi sono addormentata non so quando, su una poltrona che sarà anche un gioiello di design ma è così scomoda che il tappeto sul pavimento sarebbe stata una scelta di gran lunga migliore.
“Si ricorda tutto ciò che ha detto ieri sera?”
“Ogni sillaba”.
“Molto bene. La colazione è pronta. Ci vediamo fuori fra venti minuti”.
Ho sbattuto gli occhi un paio di volte, alzando il pollice con entusiasmo. E mi sono preparata all’impossibile. Compreso infilare la mia povera caviglia dentro gli scarponi. Non è più gonfia e il blu è diventato un tatuaggio floreale dai mille colori.
La colazione era sana e nutriente – il mio ospite deve essere uno che alla salute ci tiene proprio - e a dire il vero tutto avrei voluto fare, tranne che infilare il naso fuori da questo luogo incantevole alle otto del mattino. Mi sento come quando avevo l’influenza e la mamma mi portava la colazione a letto, occupandosi di me tutto il giorno. Non c’era un posto più caldo, sicuro, perfetto del mio lettino con la trapunta patchwork, i cartoni animati e dormire tutto il giorno.
Ora quando ho l’influenza, ingoio un paio di aspirine e vado comunque al lavoro, e la sera crollo sul letto ancora vestita, senza nemmeno cenare. La vita da single è uno schifo.
“Ha capito come mantenere l’equilibrio?”
Il mio avversario mi mostra come assumere la posizione di base, la postura di gambe e braccia, come evitare sforzi inutili e come favorire la discesa. Oltre che frenare senza rischiare di farmi del male.
Diciamo che la dinamica mi è chiara, ma metterla in pratica, in così poco tempo, ben sapendo che il sentiero di gara è più che da pazzi spericolati, mi rende difficile la concentrazione.
“Mi ricordi perché ha scelto la tavola” gli chiedo piegando leggermente le ginocchia, aprendo le braccia e tenendo i palmi aperti rivolti verso la neve, in cerca di un minimo di stabilità mentre affronto una modesta discesa sul fianco della baita.
“Perché non ho altro che potrei prestarle, con così poco preavviso” ripete magnanimo e osserva i miei movimenti a braccia conserte, con il sole che sbuca da un paio di nuvole alle sue spalle, nella sua tenuta da snowboard, pantaloni antracite e casacca dello stesso colore. Nel complesso è molto più che notevole. Ma sono arrivata alla conclusione che qualsiasi cosa indossi, fosse anche il costume di Arlecchino, su di lui è sempre da seconda occhiata.
“La lasci slittare” mi suggerisce correggendo la mia posizione “La tavola finirà per indirizzarla, se prende troppa velocità, la inclini maggiormente, in modo da frenarla”.
Inutile pensare che abbia passato la notte sotto lo stesso tetto con un cliente, appena conosciuto, da soli, in un posto molto più che inaccessibile e che non sia riuscita a chiamare Emma, perché non ho il caricabatterie con me – ottima scusa – e ho il sospetto che William non sarebbe stato felice di fare una telefonata proprio a sua madre. Per spiegargli gli inutili dettagli del mio incidente.
Rifaccio questo stesso pendio più e più volte, sentendomi addosso le sue occhiate severe mentre fuma il suo sigaro, partendo al suo tre, prendendo familiarità con la tavola sotto i miei piedi, cercando l’angolo di incidenza sulla neve, in modo da evitare spostamenti a scatti.
“Si ricordi di ruotare la spalla, dando peso a monte della tavola in modo da correggere la direzione”.
“Non è così facile come dirlo” protesto svolazzando sulle braccia quasi tese, nel tentativo di andare a destra.
“E se vuole cambiare direzione, dia peso sulla punta, ruotando leggermente il busto, in modo da suggerire alla tavola un movimento trasversale sulla pista”.
Quando ci provo, perdo l’equilibrio e mi ritrovo con il sedere a terra. Il sole si è nascosto di nuovo dietro le nuvole ed è quasi sicuro che inizierà a nevicare.
“Troppo affrettato” mi porge la mano per aiutarmi a rimettermi in piedi. L’accetto senza troppi complimenti e devo sollevare il viso per guardarlo negli occhi e non dargli l’impressione di sentirmi intimidita da lui o dalla mia pessima coordinazione motoria.
“Ma imparo in fretta”.
“Lo spero per lei”.
“Vede, se c’è una cosa che non mi ha mai spaventato è imparare dai miei errori”. Sgancio gli attacchi e mi metto in spalla la tavola, pronta a risalire la china.
“Non è da tutti”.
“Cos’è un complimento?”
Lui mi segue nella salita “Ne sente il bisogno?”
“Ogni tanto fanno crescere l’autostima”. Una volta in cima mi appoggio alla tavola, riprendendo fiato e lo sbircio da sopra una spalla.  “Quando sono spontanei, s’intende”.
Lui più in basso, mi regala un sorriso ferma cuore. “Lo sa, avrei scommesso che avrebbe mollato alla terza caduta”.
Mi sistemo la cuffia sopra i capelli, tirandomi su lo scalda collo, distogliendo strategicamente lo sguardo dalla sua bocca. Forse ho ancora in corpo il barricato, forse è la troppa ossigenazione, forse è l’attività fisica, a cui non serve ribadirlo, non sono per niente abituata. Salvo la passeggiata quotidiana di venti minuti verso il mio ufficio, uscita dalla metropolitana. E ritorno.
Però sto sorridendo. E lui se ne accorge. “Non le darò mai e sottolineo mai, una simile soddisfazione. Potrà sistemare la mia tavola a mo’ di lapide vicino alla mia testa, solo quando arriverà primo in fondo al percorso di gara. Non prima”.
Lui scuote il capo, passandosi una mano fra i capelli nel tentativo di metterli in ordine. Un paio di ciocche bionde ricadono comunque sulla bella fronte e ne sono quasi affascinata. 
“Non faremo tutta la discesa, ci sono dei punti dove non è possibile curvare e dovremo rimanere in costante derapata”.
“Vuole favorirmi?”
Scoppia a ridere, raggiungendomi sul piano dove sto cercando di riprendere fiato senza darlo troppo ad intendere. Ci vorrebbe una seconda colazione. Siamo qui da quasi due ore e ho esaurito tutta la mia esigua scorta di proteine salendo e scendendo da questa collinetta imbiancata.
“Riesce a malapena a tenersi in un modesto equilibrio, vuole dirmi che sarebbe anche capace di curvare e saltare se necessario?”
Piazzo i pugni contro i fianchi “Smettiamola con questo Lei, è d’accordo?”
“Liam andrà benissimo” conviene lui amabilmente “del resto stiamo per sfidarci all’ultima derapata”.
“Insegnami tutto ciò che serve per affrontare più o meno ad armi pari questa gara”.
Lui sta trattenendo le risate.
“Matilda, occorrono mesi di preparazione e allenamento per imparare a condurre perfettamente uno snowboard. Ciò che mi interessa sopra ogni cosa, è che tu, oggi, non finisca per farti del male”.
“Non voglio certo rompermi l’osso del collo”.
“Allora, dal momento che io conosco il percorso, ci fermeremo in un punto preciso del sentiero. Quello sarà il nostro traguardo”.
“E come farò a riconoscerlo?”
“Semplicemente non potrai andare oltre”.
Devo avere inarcato un sopracciglio.
“C’è un tronco in mezzo al sentiero”.
“E tu come lo sai?”
“Ho controllato di persona stamattina”.
“Oh”.
Non ho nessuna speranza di vincere questa stupida gara.

             Siamo allineati. Pronti a iniziare la mia personale idea di sfida all’ultimo sangue.
“Ricordati di non avere paura di acquistare velocità”.
“Andrò giù come un missile”.
Liam ignora la battuta, storcendo appena la bocca. Si è assicurato che il mio casco sia ben stretto, che i miei attacchi siano fissati, che abbia capito esattamente dove dovremo fermarci.
Non sono abituata a tante premure tutte insieme. Soprattutto da un perfetto estraneo.
“Sicura che la caviglia vada meglio?”
“Smettila di preoccuparti per me. Pensa a dare il via”.
Lui sogghigna, con quell’adorabile fossetta e la faccia da schiaffi. E quegli occhi incredibili che hanno un brillio spaventosamente carico di adrenalina. Il sole si è nascosto dietro una spessa coltre di nuvole che promettono neve ed è passata da poco l’una del pomeriggio.
“Uno, due, tre…”
Ovviamente lui parte con una grazia atletica che rasenta la perfezione cinematografica. Io invece mi catapulto in avanti con la straziante propulsione di un elefante lanciato in aria da un cannone. E lo stesso equilibrio. Accomodo la direzione, guardando dritta di fronte a me, come Liam mi ha ripetuto più volte stamattina. Controllo il peso e mi controbilancio con lo spostamento delle spalle, braccia più o meno allargate e palmi aperti. Il sentiero è piuttosto ripido in alcuni punti e questo mi permette di acquistare velocità. Non è come scendere dal pendio familiare a fianco della baita, dove ho fatto pratica fino a mezz’ora fa. Sento sotto la tavola l’alternarsi di spessi strati di neve compatta e altri più freschi, con qualche tratto brullo, che provoca degli scossoni alla mia andatura.
Ovviamente sono indietro, nemmeno a dirlo. Ma la distanza che ci separa non è molta. Il mio avversario comunque ha più potenza e maggior controllo. Sperare di raggiungerlo è pura utopia. Potrei semplicemente godermi il piacere di questa discesa, mantenendo il più a lungo possibile l’andatura e ammettere che non ho uno straccio di possibilità contro William White. Ma questo significherebbe perdere volontariamente l’incarico.
Ci vuole più grinta e un colpo di genio. Qualcosa che mi permetta di passargli davanti, superandolo ma non in velocità. Quanto mancherà al punto prestabilito? Non riesco a quantificare la durata del percorso e questo avvantaggia una volta di più il mio rivale. 
Lo vedo che compie una serie di curve ampie e armoniche, quasi volesse imprimere meno velocità alla sua discesa. È solo guardando meglio che mi rendo conto che ha evitato un dosso, abbastanza alto per spiccare un salto di un paio di metri, se non di più, e proseguire la discesa fino a quello che mi sembra un tronco. Il fine corsa.
Adesso so cosa devo fare.
Nessun altro ragionamento. Nessuna esitazione.
Piego le gambe e salto sul dente del rilievo con tutta l’energia di cui sono capace. Sollevo la punta della tavola e mi piego sulle ginocchia, l’aria mi sferza la faccia e sento il vuoto sotto di me. Fendo l’aria come se fossi una specie di aereo che decolla in direzione delle nuvole. Mi rannicchio su me stessa e distendo gli arti a poco a poco, mantenendo l’assetto, pronta ad atterrare con il retro dello snowboard fin oltre il tronco dell’albero.
È il mio solo obiettivo. Con il cuore a mille che pompa come un forsennato in mezzo al rischio più grande che abbia mai corso in vita mia, infine tocco il suolo.
Derapando e perdendo l’equilibrio.

             Finisco lunga distesa in mezzo a un mucchio di neve, ma sono talmente euforica che non mi rendo nemmeno conto di aver perso lo snowboard. Me ne sto così, con le braccia e le gambe allargate, tentando di soffocare le risate che mi scuotono il petto, con i fiocchi di neve che mi cadono sul viso. Non credo di essermi mai divertita tanto in vita mia. Non mi importa più neppure sapere se ho vinto o meno la gara. E quasi quasi anche l’idea di abbandonare il mio incarico non mi sembra poi tanto tremenda.
Il volto di Liam compare sopra di me e mettendolo bene a fuoco non mi sembra per niente divertito. Peccato.
“Non rovinarmi questo momento, intesi?” Gracchio tra un colpo di tosse e l’altro mentre tento di mettere il guinzaglio al mio scoppio di ilarità.
“Mi sbagliavo sul tuo conto” se ne esce a sorpresa e pianta il mio snowboard vicino alla mia testa “Sei la donna più folle e pericolosa che abbia mai incontrato nella mia vita”.
“Ecco un paio di complimenti” azzardo mettendomi a sedere “A proposito chi ha vinto?” Sta nevicando sempre più fitto, con fiocchi grossi come piume d’oca.
Liam si china su di me “Quindi, nulla di rotto?”
Faccio segno di no con la testa. E la sua mano si alza, palmo aperto, per appoggiarsi sul mio casco. Mi fissa un lungo, interminabile momento. E sento che il cuore prende la via della gola, come se stessi di nuovo per spiccare un salto nel vuoto, senza sapere se come e dove atterrerò.
“Tecnicamente hai superato la linea di arrivo” mi spiega e gli occhi gli brillano come se stesse osservando qualcosa di particolarmente attraente e non riuscisse a distogliere lo sguardo.
Io comunque non ne ho la forza.
“Quindi sono squalificata?”
La sua bocca si apre in un sorriso che cattura ogni millimetro del mio cuore. E lo ferma.
“Per vedere cosa stavi combinando ho perso l’equilibrio”.
“Sei caduto?” Oddio, devo tapparmi la bocca con il palmo guantato per non scoppiargli a ridere in faccia.
“Mi hai praticamente superato in volo” ammette “Non credevo ai miei occhi”.
Sono scossa da un nuovo scoppio di risa.
Anche lui sta ridendo e finisce per sedersi accanto a me passandosi una mano sotto il mento. Le nostre risate unite sono l’unico suono che rimbalza fin sotto la valle. Ed è una musica che mi scalda dentro come il tepore di una coperta.
“Non posso crederci” blatero tra un singhiozzo e l’altro, asciugandomi gli occhi “Ho vinto”.
“È stata solo una fortunata imprudenza”.
Riprendo un poco la padronanza di me e faccio un bel sospiro.
“Liam, ti ho battuto” sottolineo io, dandogli una gomitata.
“Matilda, bastava un metro in meno e saresti finita dritta contro il tronco”.
“Che botta” considero portandomi una mano al petto “Anche così comunque, è stato un bel colpo”.
“Pura adrenalina” ammette lui e sento i suoi occhi puntati dritti sul mio profilo.
“È la cosa più avventata, incredibile e coraggiosa che abbia mai fatto” ammetto sinceramente “Avevi ragione”.
Siamo così vicini che basterebbe allungare una mano per sfiorarsi davvero.
Qualcosa tra noi è cambiato. Lo sento, lo percepisco. Come se i fiocchi di neve che ci cadono addosso avessero acquistato pigmenti di colore o un profumo. È una sensazione così intensa che non riesco nemmeno a parlare.
“Hai ottenuto quello che volevi”.
Sbatto le palpebre e tento di capire che cosa sta cercando di dirmi.
“Risponderò alle tue domande” e si rende conto che non lo seguo e si è fatto serio di colpo “Su come vorrei organizzare il matrimonio con Laura”.
Ecco che cosa ho vinto. Me ne ero completamente dimenticata.

             “In salvo” esulta Liam, aprendo la porta della baita e trascinandomi dentro. Non so quanto ci abbiamo messo a ritornare su, arrancando sui tratti più ripidi a causa della forte nevicata. Di tanto in tanto ho dovuto accettare il suo aiuto, stringendomi forte alla sua mano e lasciando che mi sostenesse, allacciandomi in vita nell’ultimo tratto.  Ma appena ho potuto, con la scusa di riprendere fiato, l’ho sfidato a palle di neve. Non so chi ha vinto, ma ho riso tanto che la mascella mi fa ancora male.
Il freddo è rimasto fuori, insieme alle tavole e ai nostri scarponi. Solo ora mi rendo conto che il parquet sotto i piedi è piacevolmente caldo. Un’altra meraviglia di questo magico posto. Potrei trasferirmi qui e non sentire affatto la mancanza della mia vita in città, dei miei viaggi, del mio lavoro, perfino dei miei amici. Potrei invitare papà di tanto in tanto, se solo riuscissi a convincerlo a mollare l’azienda e a prendersi qualche giorno di vacanza.
“Mettiamo qualcosa sotto i denti”.
“Tocca a me cucinare”.
“Ne sei capace?”
“Vuoi scommettere?”
Liam ride e si libera dai guanti e dalla cuffia, scrolla il capo e si passa una mano fra i capelli. I suoi occhi incontrano i miei nello specchio dell’ingresso che riflette l’immagine di noi due, così vicini, in tenuta da sci. Siamo sfiniti eppure sorridenti. Pieni di un’euforia che nemmeno la tempesta di neve è riuscita a smorzare. Mi sento incredibilmente viva. Non mi ricordo l’ultima volta che ho provato qualcosa di simile. E forse dovrei cominciare a farmi qualche domanda in proposito. Analizzare lo sconvolgimento che sento dentro e in quale misura in tutto questo, c’entra l’uomo che mi sta di fronte.
Ho paura della risposta. Forse perché mi prudono le mani dalla voglia di accarezzargli il viso. Di sentire il contatto caldo della sua pelle. Di coprire la sua bocca con la mia. Di schiacciarmi contro di lui fino ad avere ogni centimetro del mio corpo sul suo.
Sto delirando. E sento una vampa di rossore salirmi dal collo al viso. Sono fortunata che il gelo abbia reso la mia faccia di una sfumatura intesa di rosa e che questo colpo di calore improvviso sia ben camuffato.
Sospiro piano e scaccio decisa le immagini che mi sfilano in testa. Devo ritrovare una parvenza di lucidità e occuparmi di qualcosa di pratico.
Tento di slacciarmi il casco e pasticcio con la chiusura, tanto che le dita di Liam vengono in mio soccorso, sfiorando le mie. È come se mi fossi scottata.
Senza scarpe gli arrivo al petto ed è una fortuna perché non sono costretta a guardarlo in viso. Non ne sarei capace. Sto lottando per tenere a bada la marea di sensazioni che la sua sola vicinanza mi fa esplodere dentro.
Mi manca il fiato.
“Qualcosa non va?”
“No” rispondo troppo in fretta. È terribile non saper mentire.
“Matilda”.
Appoggia il mio casco da qualche parte. E sento che sta aspettando davvero una risposta.
“È la caviglia” mi invento prontamente “L’ho sforzata troppo”. Il che non è una bugia. Sento che pulsa come ieri, ma a dire il vero non me ne è importato nulla fino a mezzo minuto fa.
“Perché non me l’hai detto prima?”
Mi sposto un paio di ciocche dal viso. Devo tenermi impegnata, pensare ad altro, mettermi al sicuro. Concentrarmi sul motivo per il quale sono venuta qui.
“Perché sapevo che non avresti accettato di gareggiare oggi” e mi stringo nelle spalle “Ma giuro che stamattina era quasi a posto”.
“Eri disposta a rischiare tutto pur di raggiungere il tuo obiettivo”.
“Intendi dire che mi sarei anche rotta una gamba pur di sapere che tipo di calzini vuoi indossare al tuo matrimonio?” Mi viene da ridere e la tensione fra noi si è un tantino allentata “Non esiste un cliente così importante”.
“Sono sicuro che mia madre non è affatto d’accordo”.
“È un problema suo” e cambio volutamente discorso. “Comunque con la caviglia gonfia non avrei potuto nemmeno affrontare l’allenamento di stamattina”.
“Un rischio calcolato”.
“No, un’incognita piena di rischi”.
“Saltare da quel dosso è stata un’incognita piena di rischi”.
“E ne vado fiera”.
“Puoi ben dirlo”.
Ha di nuovo nello sguardo una luce piena di ammirazione e mi sento in trappola. Incapace perfino di muovermi. Se mi soffiasse addosso, finirei per cadere all’indietro come una sagoma di cartone.
Miracolosamente il suo cellulare squilla e ci interrompe.
Ed io ne approfitto per svignarmela, ma non posso fare a meno di ascoltare con chi sta parlando.
“Ciao Laura”.
È ciò di cui avevo bisogno.

             Per cena preparo un risotto giallo, alla maniera della mamma. Che di sicuro ha sempre saputo come prendere un uomo per la gola. In cucina non c’era nulla che non le riuscisse, perché i suoi piatti avevano il condimento più importante di tutti: l’amore. Finché è durato, potevo sentirlo ad ogni cucchiaiata. Ho provato a ricordarmi la sua ricetta, con ciò che ho trovato in dispensa e mi sembra che tutto sommato non avvelenerò Liam. Appena lo vedo sulla soglia tento di mettere subito in pratica il mio piano per portare a termine il mio lavoro e mantenere la conversazione su un piano strettamente professionale.
Voglio che questa giornata si concluda con la mia agenda zeppa di appunti. Così tanti che sarà impossibile dimenticarmi per quale dannato motivo mi trovo a cena da sola con quest’uomo incredibile.
“Il profumo è fantastico”.
Anche tu. Con indosso quel maglione bianco intrecciato e i pantaloni a coste color crema sei un banchetto per gli occhi. Santo cielo, una volta tornata a casa devo trovarmi un uomo. Sono sola da troppo tempo.
Ed è bene che mi dia una regolata.
“Hai scelto il vino?” domando in tono casuale, servendo nei piatti e sistemando tutto sul piano da lavoro tirato a lucido e apparecchiato. Non voglio che pensi che questa è una cenetta intima. E non mi interessa che si trasformi in qualcosa del genere. Bugiarda.
Lui mi mostra la bottiglia, a mo’ di trofeo “Per festeggiare il tuo primo Ollie”.
“Oh, è una buona cosa?”
Sorride stappando la bottiglia e io metto in tavola un piatto con delle verdure fresche e del pinzimonio.
“Sicuro. È un salto che evita un ostacolo”.
“Il mio primo e ultimo Ollie, allora”.
“Hai una brillante carriera davanti, Matilda”.
Ci sediamo e do un’occhiata alla mia agenda, sistemata poco più in là.
“Sei stato un maestro paziente e pieno di premure” lo ringrazio e lascio che mi versi il rosso rubino nell’ampio Tumbler “Ma con il mio lavoro, difficilmente troverò il modo di tornare su uno snowboard”.
“Il posto lo conosci, puoi tornare quando vuoi. Ti lascerò il numero di Annalisa, la donna che ci aiuta nelle faccende domestiche e ti farà trovare tutto pronto”.
Rimango spiazzata da una simile eventualità. Non c’è una sola possibilità che io rimetta piede in questa baita. Nessuna.
“Sei davvero generoso” assaggio un sorso di vino “Questo posto è straordinario, lo adoro. Ma se fosse mio, non so se sarei capace di dividerlo con qualcuno che a malapena conosco”.
“Non siamo più due estranei”.
Lo ha detto con una sfumatura particolare, bevendo il suo vino e guardandomi dritta negli occhi. Come un dato di fatto e magari anche un accenno di promessa.
Potrei anche svenire con la faccia nel riso.
“Ieri mattina guardavi il tuo Rolex pensando al momento in cui ti saresti liberato di me” gli faccio notare senza rancore.
“Ieri mattina”.
“Non so che cosa ti ha fatto cambiare idea, e sei davvero molto gentile” preferisco mettere subito le cose in chiaro, “ma ti ho rubato fin troppo tempo e stasera prevedo di mettere insieme quanto più materiale possibile sul vostro evento. E nei prossimi giorni sarò di nuovo totalmente presa dalla mia vita di sempre”.
“Sbaglio o sei un tantino nervosa?”
“Affatto” e scuoto appena il capo, posando il bicchiere, il vino giù dritto nella pancia, dove stanno svolazzando un sacco di farfalle, più o meno all’altezza dello stomaco.
“Stasera non ho nessuna voglia di parlare del tuo lavoro”.
Anche lui ha messo le cose in chiaro.
“Ti faccio notare che hai perso la gara”.
“Il riso è cotto alla perfezione” e mi strizza l’occhio “E io ho una fame tremenda”.
Lo accontento, anche perché sono affamata anche io.
“Hai improvvisato anche con il riso?” Si informa dopo un po’, quando i nostri piatti sono ormai vuoti.
“L’improvvisazione è dei geni o dei folli”.
“Direi che su di te calza bene la seconda”.
“Dovrebbe essere un complimento?”, afferro di nuovo il mio bicchiere di vino, “perché ne ho ricevuti tanti, anche se tu non ci crederai, nella mia vita normalissima, ma nessuno mi ha mai definita folle”.
“Istintiva, perspicace, intelligente, cocciuta, simpatica” elenca lui con quel mezzo sorriso e la fossetta che ormai conosco.
“Sì, mi ci ritrovo”.
“E bella. Molto bella”.
Il bicchiere mi resta a mezz’aria e ho l’impressione che mi stia prendendo in giro, sto quasi per rispondergli per le rime ma lui mi previene “È la verità”.
Apro la bocca e la richiudo e poi mi scolo un po’ di vino. La serata sta prendendo una brutta piega. Una pessima piega.
“Mia madre mi aveva avvertito” se ne esce dopo qualche secondo “Ma io non ho voluto crederle”.
“Prego?”
Si appoggia meglio allo schienale della sedia e sembra parecchio interessato al vino nel suo bicchiere. “Ha sempre parlato di te in maniera fin troppo positiva. Ero sicuro si trattasse di un trucco per convincermi a collaborare”.
“Beh, non ha funzionato” gli faccio notare “Perché tu non stai collaborando”.
“E non ne ho la minima intenzione”. Quando è così sincero lo prenderei a padellate “Non stasera, almeno”.
“Domattina tornerò a casa”.
Solleva il volto e cerca il mio sguardo “Domattina”.
“Ma le domande, quelle con il punto interrogativo, devo fartele adesso” rimarco senza riuscire a capire che gli sta succedendo. È come se avesse preso una qualche decisione a me sconosciuta.
“Matilda, perché vuoi rovinare tutto con qualche stupido appunto su quell’agenda? A che ti serve, poi? Non hai ancora capito che tipo di soluzione vorrei?”
“Forse sì e forse no”.
Lui ridacchia prendendo il suo piatto e il mio e si alza “Depenno perspicace dall’elenco”.
Sciacqua i piatti sotto l’acqua e li mette poi in lavastoviglie e mi dà il tempo di riflettere su quanto mi ha appena detto.
Se in un primo momento per il loro giorno, pensavo a qualcosa di elegante e raffinato, ora, senza considerare l’incognita di Laura, penso a qualcosa di spettacolare e intimo al tempo stesso. Qualcosa che riguarda solo Liam e Laura. E nessun altro.
Il cuore mi si accartoccia nel petto con un singhiozzo.
Ha ragione Liam. Non è a questo che voglio pensare stasera. Non ci riesco. L’immagine di loro due insieme mi è addirittura intollerabile.
“Hai ragione” confesso infine, scolandomi il resto del vino e alzandomi a mia volta “Sono arrivata ad una conclusione”. Afferro i tovaglioli, sistemo sale e pepe, ritiro le verdure rimaste, avvolgendole per bene con la pellicola, per poi lasciarle da qualche parte dentro il frigo.
Sento profumo di caffè. E il gorgoglio della caffettiera sul fuoco.
Quando mi volto, me lo trovo di fronte, con un paio di tazzine in mano, che sistema sul bancone di legno, insieme alla zuccheriera.
“Allora?” mi sollecita lui spegnendo il fornello a induzione.
“Lo scoprirai quando sarà il momento”.
“Io dico che stai bluffando”. Si appoggia al banco da lavoro, le braccia conserte “E se vuoi te lo dimostro”.
Deglutisco a vuoto. Liam non è uno che parla a sproposito e sento uno strano formicolio alla base del collo.
Mi regala quel suo sorriso incredibile, facendomi venire le ginocchia molli e ho qualche problema di salivazione.
“Io vado a dormire, domattina parto presto”. Stavolta voglio evitare l’ostacolo, non andargli dritta incontro.
“Matilda”. La sua mano mi afferra per il polso, ferma ma dolce allo stesso tempo “Ancora un momento”.
Come ha fatto a muoversi così in fretta? Non mi ha quasi dato il tempo di voltarmi.
Il contatto mi investe come un treno in corsa. La sua mano nella mia, il suo palmo asciutto sul mio dorso, il calore della sua pelle, le sue dita che si intrecciano alle mie.
“Che stai facendo?” Gli domando in preda al panico.
“Quello che vorresti fare anche tu”.
Sono paralizzata, letteralmente.
“Non è possibile”.
“Sì che lo è” e mi attira contro il suo petto, l’altro palmo sul mio viso “È come decidere di saltare. È istinto, senza alcuna esitazione. Sai che è ciò che devi fare. Perché è ciò che vuoi davvero”.
“Non è la stessa cosa”.
Mi accarezza il labbro inferiore con il pollice come a volermi smentire. E io sto tremando.
“Tu sei la mia incognita piena di rischi”.
Quel mia suona così bene che mi tremano le ginocchia.
Il suo volto si china sul mio e nel momento in cui mi bacia, io non sono più sicura di niente.


            Ci stacchiamo solo un secondo, forse meno, solo per guardarci negli occhi, increduli e affamati di desiderio e incollarci di nuovo l’uno all’altra, nel tentativo di saziarci a vicenda con un altro bacio. E un altro ancora, e poi ancora un altro. Il cuore nel petto è folle di adrenalina, catapultato a mille su verso la gola, dove groppa forsennato, in pieno delirio.
Le braccia di Chris, strette potenti salde attorno a me, sono l’unico posto dove vorrei essere, dove l’istinto senza un briciolo di ragione mi ha gettata. Così, come se non avessi scelta. Come se non avessi coscienza. Come se il mio mondo, quello conosciuto, fosse di colpo imploso e nulla avesse più senso se non le sue mani che si fanno strada sotto il mio maglione, e la ruvidezza della sua barba sul mio viso, laddove di tanto in tanto sfrega con delicatezza la mascella contro la mia guancia, in cerca di un altro bacio, sempre più profondo, più devastante, in cerca di me, di tutto ciò che sono.
Non so che cosa fa breccia nel mio cervello, che è in tilt, ma devo ringraziare l’unico neurone sveglio, se di colpo decido di riportare i piedi a terra, anziché avvolgere le gambe intorno alla vita di Liam e attirarlo sopra di me sul piano di lavoro.
“Mat, che c’è?” mi chiede sulla bocca. Ha percepito la mia rigidità. Mi prende il volto fra le mani, cerca i miei occhi, li incatena ai suoi, li spinge a non nascondersi, a concedergli tutto, anche quello che è ancora così vivido, brillante, straordinariamente distinguibile in superficie.
“Tu stai per sposarti. Io sono qui per organizzare il tuo matrimonio”.
Dicendolo ad alta voce credo di aver spezzato l’incantesimo, di aver riportato entrambi alla realtà. Ma finché lui mi tiene così stretta, finché mi guarda in questa modo così speciale, unico, indimenticabile, non riesco ad aggiungere altro.
“Non sono sposato e tu non hai ancora organizzato il mio matrimonio”.
“Non è una questione di tempistiche”.
“Grazie al cielo” commenta lui e mi scosta una ciocca di capelli dal viso osservando affascinato qualcosa che mi sfugge “Altrimenti non avrei potuto baciarti”.
“Liam, abbiamo tutte e due qualcosa di importante da perdere”.
“E altrettante da guadagnare. Fa parte delle incognite”.
“Smettila” e butto indietro la testa per liberarmi dalle sue mani bollenti “Non è come fare uno stramaledetto salto sulla neve, né come gettarsi col paracadute, o fare sci nautico o bungee jumping”.
Lui invece fiacca i miei poveri tentativi, avvolgendomi stretta contro di lui e mi sorride “Direi che è molto meglio di tutte e quattro le cose insieme”.
“Ascolta” e gli poso le mani sulle braccia, anche se non vorrei. Preferirei interrompere il contatto fra noi, perché così non riesco a ragionare “Possiamo dare la colpa al vino. E dormirci sopra”.
“Nello stesso letto”.
“Liam!” Mi copro il viso con le mani perché la sola idea di noi due insieme a letto è troppo anche per il mio giovane cuore. Sta per scoppiare, lo sento.
“D’accordo. Posso aspettare. Se non vuoi, se non te la senti, procederemo con calma” e allenta la stretta, ma sono ancora fra le sue braccia “Ma servirà soltanto a rimandare l’inevitabile. Perché non voglio perdermi nemmeno un secondo di noi due”.
Non so che cosa significhi. Che cosa stia tentando di dirmi. Ma io non riesco a non pensare alle conseguenze di ciò che abbiamo appena fatto. Lui sembra leggermi dentro. Ha capito.
“Nessun rimpianto” e mi prende il volto fra le mani “Mai. Soprattutto per qualcosa di così incredibile come ciò che abbiamo appena condiviso. Sei arrivata qui e mi sono chiesto per quale dannato motivo non mi sia deciso a conoscerti prima”.
Non rispondo.
Allora lui mi lascia andare “Vado a fare una doccia fredda”. Si porta il palmo della mia mano alle labbra e vi posa sopra un bacio lieve. Ma è come se lo avesse marchiato.


            Se avessi un bagaglio, e non abiti in prestito, forse avrei già messo tutto in valigia e sarei uscita dalla porta principale. Che cosa racconterò a Emma e alla fidanzata dell’uomo che ho baciato stasera, non è tra le mie priorità.
Non sono una che si intromette nelle storie altrui, ma se è accaduto qualcosa fra me e Liam, allora devo pensare che il legame che ho immaginato esistesse fra loro due, non appartiene più a questo presente. Forse mi sto illudendo, forse voglio solo delle facili soluzioni. Ma non posso credere che un uomo come Liam possa dimenticarsi di un sentimento così intenso e metterlo a rischio per la storia di un week end.
In lui ho percepito molte cose tutte insieme. Una diffidenza preconcetta che mi ha tenuta lontana, forse per non darla vinta a sua madre, la necessità di barricarsi dietro a una fredda ostinazione, la volontà di perseguire le proprie idee e di portarle avanti, anche a costo di incrinare un presente già stabilito. E il desiderio di lasciarsi guidare dalle sensazioni di un unico momento, piuttosto che trascinarsi dentro a un mucchio di giorni già organizzati su un’agenda.
Lascerò l’incarico, questo è sicuro. E non perché sono pentita. Liam mi conosce anche meglio di quanto io conosca me stessa. Ed è pazzesco visto che ci siamo incontrati da nemmeno di quarantotto ore. Forse tutto sommato sono abbastanza prevedibile. O lui è straordinariamente perspicace.
Lascerò l’incarico perché tutto ciò che sento, va oltre qualsiasi tipo di logica e non è qualcosa che si risolve con un cambio di programma, una scelta alternativa o un paio di frasi di scuse. Non posso spegnere ciò che lui ha acceso. Non posso fingere che non sia accaduto. E soprattutto che non lo volessi anche io. 
Esattamente come lo voglio adesso.
Adesso che Liam compare davanti alla porta aperta della mia stanza, con indosso soltanto i pantaloni del pigiama, un asciugamano attorno al collo e i capelli ancora umidi dopo la doccia.
“Sta molto meglio a te che a me” considera a distanza incurvando le labbra in un sorriso che si fa sempre più ampio mano a mano che i suoi occhi mi percorrono da capo a piedi.
“Scusa, è la prima cosa che ho trovato”.
Si appoggia con la spalla allo stipite della porta, e i suoi occhi mi percorrono con una lentezza esasperante, così dove sono, seduta sul bordo del letto, con indosso una camicia di flanella a quadri blu. La sola cosa che ho trovato in fondo all’armadio dopo la doccia. E che non fosse un indumento femminile, probabilmente di Laura.
“Puoi considerarla tua”. Lo dice abbassando la voce di un’ottava, soffermandosi con lo sguardo sulle mie gambe nude. Ed è come se mi avesse sfiorato.
“Rimani dove sei, d’accordo?” Gli intimo alzandomi in piedi “O non riuscirò a dirti quello che ho bisogno di dirti”.
Lui corruga la fronte e poi si dà una strofinata ai capelli. Scoprendo ancora di più il petto ampio e ben scolpito, i muscoli delle braccia, bicipiti e tricipiti in evidenza. Ha un tatuaggio all’interno dell’avambraccio, un tribale elegante e particolareggiato, con zone di sfumature più chiare, dove si annidano delle lettere. Che da qui non riesco a distinguere.
“Non mi muovo e sono tutt’orecchi”.
“Lascio l’incarico”.
“Mi sembra giusto”.
“Non sei sorpreso”.
Solleva una spalla “Direi che non hai più molto da fare a riguardo”.
Mi metto a braccia conserte “Non lo faccio perché sono pentita”.
“E non devi esserlo”.
“Non mi sento in colpa” ribadisco e non riesco a smettere di ammirare ogni centimetro del suo strepitoso mezzo busto scoperto. “Volevo solo che sapessi che prendo molto sul serio il mio lavoro e che dopo una cosa come questa non mi sentirei più adeguata al compito che mi è stato chiesto di portare a termine”.
“Ti riferisci al nostro bacio in cucina?”
Deglutisco a vuoto. “Non hai niente da metterti addosso?”
“Stavo andando a dormire. Sei fortunata che mi sia ricordato di indossare i pantaloni”.
Mi passo le mani fra i capelli, sistemandoli dietro le spalle. E sto anche cercando di respirare normalmente.
“Domani scenderò in paese e tornerò a casa”.
“Vale a dire che stai scappando?” Adesso non ha più voglia di scherzare. Si raddrizza, ancora sulla soglia, con il corridoio in penombra e la luce calda dell’abatjour sulla cassapanca della mia stanza che gli accarezza la magnifica figura.
“Non sono una che scappa” gli faccio notare.
Stringe con le dita i due capi dell’asciugamano che porta al collo. “Ieri mattina non ho voluto condividere con te i miei progetti, perché non c’era nessun progetto da condividere. Perché pianificare una cosa così importante, per me significa non sentirla più mia. Non darle l’importanza che merita”. Sospira appena e capisco che ciò che mi sta dicendo gli costa parecchia fatica. “Esiste un momento. E quello soltanto. Non puoi programmarlo. Non puoi decidere quando viverlo. Ma viverlo e basta”.
“Ma io non vivo la mia vita in questo modo. Non ne sono capace. Mi spaventa l’idea di afferrare un secondo alla volta, così, come mi viene dato, senza essere sicura di ciò che potrebbe accadere dopo” lo dico in un sussurro e poi devo fermarmi a riprendere fiato.
“Eppure è ciò che hai fatto oggi. Hai afferrato il momento e l’hai trattenuto, l’hai strattonato perché tenesse il tuo passo, ti sei aggrappata così forte a lui, da non desiderare altro che durasse per sempre”.
Come può leggermi dentro così in profondità? Come può aver intuito esattamente ciò che ho sentito oggi su quella pista, e stasera tra le sue braccia?
È follia. Ma è anche meraviglia.
“Non posso rimanere qui” mormoro appena.
“Perché?”
“Lo sai”.
I nostri occhi si incontrano da una parte all’altra della stanza. E rimangono allacciati. Insieme a tutto ciò che non ci siamo ancora detti e a tutto ciò che abbiamo condiviso in così poco tempo.
È Liam ad interrompere il silenzio.
“Lasci l’incarico perché da quando ti ho baciata, tu sai che non ci sarà più un matrimonio da organizzare”.
Mi si è fermato il respiro, qui da qualche parte, forse a metà delle sue parole. E vorrei chiedergli di ripeterle. Forse solo per la profonda emozione che mi ha scatenato dentro, al centro del petto.
“È una certezza dentro un migliaio di incognite” finisco per rispondergli, ritrovando la voce e ascoltando ciò che mi suggerisce il cuore.
Ciò che mi suggerisce l’uomo che mi sta di fronte.
In una falcata mi raggiunge.
Le mani a circondarmi il volto perché non possa sfuggirgli mentre prende possesso della mia bocca. La invade con un desiderio che mi accende dentro così tanti fuochi che sono sicura che di me non resterà altro che cenere incandescente. Mi aggrappo alle sue braccia, le percorro in una carezza urgente, risalendo fino alle spalle, alle scapole e lo libero dall’asciugamano che getto da qualche parte sul pavimento. Infilo le mani tra i suoi capelli, e mi premo ancora di più contro di lui. Il calore della sua pelle riempie completamente il mio abbraccio e mi sfugge un gemito pieno di desiderio.
“Vuoi ancora che mi metta qualcosa addosso?” Mi provoca staccandosi un momento dalla mia bocca, e lasciando una scia di brividi dal mio zigomo fino all’orecchio.
“Nemmeno per sogno”.
Lo sento ridacchiare sul mio collo e le sue dita si intrufolano sotto la mia camicia, trovando soltanto pelle da accarezzare.
“Tu mi vuoi morto”.
“Io non ho un guardaroba”.
Per tutta risposta mi solleva da terra e io gli allaccio le gambe attorno alla vita, stringendogli le braccia intorno al collo e catturandogli la bocca con la mia. Le sue mani mi sostengono mentre cadiamo praticamente sul letto.
Il suo palmo aperto scivola dal mio collo alla parte superiore del mio seno, a cercare il battito impazzito del mio cuore. Quando lo trova la sua bocca si piega in un sorriso emozionato e la sua testa si china a posarvi sopra un bacio, a sigillare questo momento.
“Matilda” mormora sulla mia pelle, cercando di nuovo la mia bocca e slacciando il primo bottone della mia camicia. Il turchese dei suoi occhi diventa cobalto liquido, talmente intenso che mi ci perdo dentro.
Ancora un bottone. E un altro ancora. Ogni indumento sparisce da qualche parte. E siamo pelle contro pelle. 
“Nuda e perfetta tra le mie braccia”. Mi tempesta il volto di baci, le sue mani ovunque lasciano una scia di lava ardente, è come se mi stesse risvegliando, un pezzettino per volta, con lenta determinata precisione.
“Resta”.
Si puntella sulle braccia, a cercare conferma, se mai ce ne fosse bisogno, sul mio volto, sulla mia bocca aperta in cerca d’aria, nei miei occhi che riflettono soltanto la sua immagine.
“Perché è ciò che vuoi davvero. Perché vuoi me”.
Gli scosto i capelli dal volto, accarezzo col pollice la sua bocca e lui bacia la punta del dito.
“Tu non hai la minima idea di come mi fai sentire. Di quello che mi scateni dentro” socchiudo appena gli occhi “soprattutto senza vestiti addosso”.
Sorride e il suo sguardo si fa adorante.
Mi cattura la mano portandosela al petto.
Il suo cuore scalpita forsennato, furioso, forse incredulo, felice e pazzo quanto il mio.
“Più o meno questo?”
“Più o meno questo” rispondo e la voce mi si incrina per l’emozione.
Liam si china sulla mia bocca, la mano ancora stretta sul suo petto, la sua lingua cerca la mia, in una danza che è un vortice di fuoco e brividi e un desiderio così intenso che mi trascina da qualche parte, oltre ogni singola concreta certezza.
“Che cosa c’è scritto sul tuo braccio?” chiedo in un sussurro voltando appena il capo a baciargli il tatuaggio.
“Ciò che vuoi davvero”.
E siamo una cosa sola. Un unico respiro. Per questa notte di San Valentino. E tutte quelle che il destino ci riserverà.

FINE

CHI E' L'AUTRICE
Virginia Parisi nasce nella suggestiva Piazza Armerina e vive da oltre un trentennio tra le belle colline del Monferrato. Sposata, madre di una bimba di due anni, si divide tra la famiglia, il lavoro di fotografa e la sua passione per la scrittura.  
Come scrittrice ha esordito nel 2003 con il romance storico "Animi Fortitudo”, cui hanno fatto seguito nel 2004 il romanzo storico "La Fiamma della Speranza" e nel 2007 il giallo storico "L'Ottava Pergamena", nel 2009 la commedia sentimentale “Al centro del dipinto”. Nel 2011 ha pubblicato con la Spinnaker il romanzo fantasy "La leggenda di Ghelbes Tal" ( vedi qui). Sul blog La Mia Biblioteca Romantica è stato anche pubblicato il suo racconto breve "Un incontro perfetto"(leggilo qui) e il suo 'Stelle gemelle" ( qui)  è arrivato terzo nelle preferenze delle lettrici del blog fra i racconti di Christmas in Love 2014. Virginia sta attualmente dando gli ultimi ritocchi al suo nuovo romanzo che uscirà fra breve.





TI E' PIACIUTO QUESTO RACCONTO? COSA NE PENSI? VORRESTI  LEGGERE DI PIU' DI QUESTA AUTRICE?

11 commenti:

  1. ... ma quanto mi è piaciuto!!! Complimenti! Che sospironi che ho fatto!
    ;)

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  2. mmm... carino il racconto, ma lui non è proprio il mio tipo... uno in sostanza che non sa prendere un impegno... attenta matilda!!!! ottavia

    RispondiElimina
  3. Meraviglioso! Romantico, coinvolgente, scritto benissimo. I miei complimenti, Virginia! Mi hai fatta sognare davvero. :-)

    RispondiElimina
  4. Il mio grazie più sincero a voi che avete trovato il tempo di leggere e di lasciare un commento, è un'emozione che sempre mi lascia senza parole.,, Un abbraccio. E grazie a Francy per la sua gentilezza, la passione l'impegno il tempo che mette in questo blog straordinario e a tutte le meravigliose lettrici che contribuiscono a renderlo unico!

    RispondiElimina
  5. romanticissimo!!!! anch'io ho dei dubbi sul fatto che lui sia davvero innamorato di lei e se durerà il loro amore, ma mi è piaciuto un sacco, soprattutto i botta e risposta dei dialoghi :)

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  6. Ciao a tutte! Complimenti Virginia, molto scorrevole, piacevole ed emozionante :) sono d'accordo con le altre per il giudizio su di lui, però lascio aperta ogni possibilità... ;) sarei stata curiosa di leggere il seguito!
    Saluti,
    Simo

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  7. Complimenti, proprio un bel racconto, scritto molto bene; cara Virginia, la tua prosa ha la capacità di prendere il lettore e trascinarlo dentro le tue storie e poi tu lasci ai dialoghi il compito di trattenercelo con la forza. Brava!

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  8. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  9. Grazie Jess, Simona, Ladymacbeth per aver trovato il tempo di leggere!
    C'è da dire che a me i racconti in quanto scribacchina assai prolissa, mi stanno sempre un po' strettini... I due personaggi di Emma e Laura sono solo citati. Ma sarebbe stato per me incredibilmente interessante piazzarli, lì, fra Liam e Matilda, e vedere che fuochi d'artificio sarebbero poi venuti fuori. Nella tipologia del racconto mi manca molto- ma probabilmente è un mio limite - la possibilità di poter inserire un vero antagonista, il lato oscuro, il nemico, il cattivo di turno. Personaggio assai più interessante di un buono scontato. Liam tutto è tranne che un buono scontato. Quando guarda la foto con Laura e quell'unica foto, lui vede ciò che vede Matilda. E certo non può dirle che quel sentimento risiede probabilmente nel ricordo di quel magico irripetibile momento. E quando parla di afferrare ciò che stanno vivendo, lo dice in tutta la sua disarmante onestà. Anche se uno può vederci malizia, inganno, superficialità, ad un uomo che dice "Per tutta la vita" credo che anche Matilda preferisca un semplice "Giorno per giorno". E' una buona promessa. Una promessa che non fa di lui un uomo incapace di prendere un impegno. Ma lo rende di sicuro molto più onesto di tanti altri.
    Un amico mi scrive su FB ciò che Liam vede in Matilda, dopo il primo recalcitrante momento. Uno spirito affine. Ed è così vero. Anche se Matilda è impegolats in macchinose programmazioni, è però capace di accettare una sfida al di sopra delle proprie capacità. anche con una certa vena di folle ebrezza, e di giocarsi il tutto per tutto pur di capire chi ha davvero davanti. Non le bastano le risposte di comodo. Matilda è una persona diretta. Lei stessa lo dice. Poi l'alchimia, quel gioco sottile che si instaura tra loro, lo scambio di battute, ciò che vivono è ciò che loro stessi infine decidono...

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  10. che bella spiegazione, brava! :)

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  11. Cara grazie! Mi sembra sempre di fare un sacco di bla bla bla quando mi metto a farneticare delle mie storie... Un bacione

    RispondiElimina

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